The Smashing Machine non è solo il racconto di un campione. È la storia di un uomo che, prima di cadere, ha scoperto cosa significa essere venerati e osservati, feriti e idolatrati, fragili e combattivi nello stesso momento. Il film porta sullo schermo la vita di Mark Kerr, uno dei pionieri delle arti marziali miste, un atleta che ha conosciuto potere e rovina, gloria e solitudine, e che ha deciso di affidare la propria storia a Benny Safdie e all’interpretazione sorprendentemente vulnerabile di Dwayne Johnson. La loro trasposizione non è un biopic convenzionale: è un viaggio emotivo che attraversa fame di successo, dipendenza, legami instabili e il prezzo invisibile della violenza sportiva.
Un atleta sul confine tra forza e vulnerabilità
Alla vigilia della premiere veneziana, Mark Kerr ha descritto il proprio stato d’animo come “vibrational”, un tremore interiore difficile da distinguere tra stanchezza e emozione. Per un uomo che ha combattuto sul ring, davanti a migliaia di spettatori, vedere qualcuno interpretare la propria vita è un’esperienza che ribalta ogni prospettiva. Per anni Kerr ha cercato di fare ordine nella propria storia, di capire dove finisse l’atleta e dove iniziasse la persona, e nel film rivive una parte di sé che aveva sepolto per necessità. Dwayne Johnson, alla prima proiezione, scoppia in lacrime: non è solo la sfida attoriale, ma l’enormità umana del racconto che gli è stata consegnata.
L’ascesa in un mondo che ancora non esisteva
Per capire Kerr bisogna tornare ai primi anni ’90, quando l’MMA non era ancora uno sport globale ma una terra selvaggia, fatta di stili mescolati, regole fluide, rischi enormi e guadagni quasi sperimentali. Kerr nasce come wrestler: Toledo, Syracuse, sogni olimpici infranti e il trasferimento in Arizona per continuare ad allenarsi. Quando il sogno olimpico sfuma, trova nelle risse organizzate e nei primi circuiti di combattimento l’unica maniera di essere pagato per ciò che sapeva fare.
La nascita dell’UFC nel 1993 cambia tutto. Le arti marziali miste trovano una casa, un linguaggio e un pubblico. Kerr è uno dei primi a capire davvero cosa sta accadendo: la forza non basta più, serve strategia, resistenza, capacità di adattarsi a ogni stile. Le sue vittorie, fulminee e brutali, gli valgono il soprannome “The Smashing Machine”.
Ma proprio quando il suo nome comincia a circolare come quello di un campione destinato a fare la storia, il settore crolla. Pressioni politiche, campagne moraliste, divieti statali: a fine anni ’90, l’UFC rischia la scomparsa. Le televisioni americane smettono di trasmettere gli incontri, i guadagni si azzerano e molti atleti migrano in Giappone, dove il Pride FC non solo accetta lo sport, ma lo venera come uno spettacolo di tecnica, spirito e filosofia del corpo. È lì che Kerr sperimenta l’apice della sua carriera e l’inizio del suo tracollo.
Dolore, dipendenza e l’illusione di poter resistere
Le vittorie giapponesi hanno un prezzo. Kerr combatte con un’intensità disumana, accetta incontri ravvicinati e affronta avversari che lo portano oltre il limite fisico. Per recuperare più velocemente, i medici gli prescrivono potenti antidolorifici. Nessuno gli dice che possono creare dipendenza. Nessuno sospetta che quello, per un atleta cresciuto nel culto dell’invincibilità, potrà diventare il punto più fragile della sua vita.
Lui stesso lo racconta senza giri di parole: “Non avevo tempo per fermarmi. Dovevo combattere. Dovevo essere disponibile”. Inizia così una dipendenza silenziosa, che porta con sé vergogna, paura e un progressivo annullamento emotivo. Nel 1999, Kerr sopravvive a un’overdose. È il punto di non ritorno, il momento in cui la macchina che vinceva tutto si inceppa definitivamente.
Amore, rabbia, dipendenza: la relazione con Dawn Staples
Il film di Safdie racconta con crudezza la relazione tra Kerr e Dawn Staples, interpretata da Emily Blunt. Due persone che si amano ma non riescono a salvarsi, due vite segnate dal bisogno, dal dolore e dalla dipendenza. Lei, ex alcolista. Lui, intrappolato tra sostanze e ossessione per la vittoria. La loro quotidianità è fatta di tensione, silenzi, piccoli gesti che esplodono in grandi fratture. Una relazione che alterna tenerezza e distruzione e che raggiunge l’apice nel momento in cui la disperazione di Dawn la porta a un gesto estremo, costringendo entrambi a confrontarsi con il baratro in cui stavano precipitando.
Kerr lo ammette oggi con lucidità: “Dawn voleva solo essere amata. Io non sapevo né accettare né dare amore”. Sono frasi che rivelano quanto il combattimento più duro non fosse quello disputato sul ring, ma quello che Mark viveva dentro di sé.
Dopo il ring, la possibilità di rinascere
La carriera di Kerr si spezza ufficialmente nel 2000, ma l’uscita dal mondo dei combattimenti è solo l’inizio del vero percorso. Ci mette anni a comprendere che l’identità che si era costruito non era tutto ciò che era. Per molto tempo continua a cercare conforto nell’alcol, fino a quando non sceglie di fermarsi. Da sette anni è sobrio. E da sette anni ha iniziato a ricostruire una relazione con sé stesso e con il figlio avuto da Dawn.
“Pensavo di non avere nulla da offrire oltre ai miei combattimenti. Oggi so che posso essere altro. Che ho una vita oltre la gabbia.” Sono parole semplici, ma per lui sono una rivoluzione.
Perché la sua storia meritava di essere raccontata
Benny Safdie, parlando di Kerr, ha detto: “Hai vissuto la tua vita perché tutti potessimo sentirla.” È il senso profondo di The Smashing Machine: non glorificare la violenza, ma mostrare cosa resta quando la gloria svanisce. È il racconto di un uomo che è stato celebrato come un dio e dimenticato da molti quando non era più in grado di vincere. È un film che osserva le crepe, non i trofei. E che offre allo spettatore un ritratto umano, doloroso e sincero di cosa significhi cadere e trovare il coraggio di rialzarsi.
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