Fair Play: intervista alla regista del film Chloe Domont

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Dopo essere stato accolto con enorme successo allo scorso Sundance Film Festival sbarca su Netflix Fair Play, esordio al cinema della regista Chloe Domont (Billions, Ballers per la TV). Al centro della vicenda si trovano Emily e Luke, una coppia che per continuare a lavorare in un ambiente altamente competitivo come quello della finanza newyorkese deve mantenere segreta la propria relazione. Ma cosa succede quando gli equilibri tra uomo e donna vengono alterati da un’improvvisa promozione? Destinato a far discutere per il ritratto fortemente veritiero che il film offre delle difficoltà di una relazione nel mondo contemporaneo, Fair Play ci è stato raccontato proprio dalla regista con il massimo della sincerità possibile.

 

Da dove nasce la voglia di raccontare la vicenda di Emily e Luke?

 

Sono stata per anni alla ricerca di una storia che mi colpisse veramente, tutto quello che scrivevo non arrivava in profondità o non al momento giusto. Così ho iniziato a lavorare per la televisione, girando episodi di svariate serie. Ma intanto la vita andava avanti, ho iniziato a vivere esperienze che sono diventate nutrimento per questo film. Quando la mia carriera ha cominciato a decollare, troppo spesso l’ho vissuta come una sconfitta invece che un successo a causa della relazione che stavo vivendo. Frequentavo un uomo che mi adorava per la mia ambizione, per il mio talento ma allo stesso tempo c’era questo sentimento silenzioso che lo faceva sentire inferiore. Così ho cominciato a placare il mio entusiasmo per le opportunità che mi si aprivano,rendendomi conto sulla mia pelle di quanto queste dinamiche di potere fossero ancora potenti in una relazione tra uomo e donna apparentemente sana. Si tratta di un problema di cui è molto difficile parlare, entrambi i membri di una coppia spesso non vogliono prendere coscienza di cosa sta succedendo. Io non volevo ammetterlo, pensavo fosse colpa mia, riflettesse le mie scelte sentimentali sbagliate. Allo stesso un uomo non riesce ad ammettere di avere questo tipo di sentimenti. Ho sentito la necessità di scrivere una storia su questo, e non limitarmi nell’essere aperta e coraggiosa.

Il suo film riesce ad essere imparziale, mostra senza giudicare. Come ha raggiunto questo equilibrio?

Non mi interessa raccontare storie e personaggi che posseggono una visione precisa, dove tutto è bianco o nero e ci sono eroi integerrimi. Emily decisamente non è un’eroina ma un semplice essere umano, può essere incasinata e cattiva. Ma ancora più importante per me era non giudicare la figura di Luke, per me rappresenta quella generazione incastrata nel mezzo, cresciuta in una società con un’idea tradizionale di mascolinità. Questo non lo rende un uomo cattivo, questi sentimenti non sono colpa sua, volevo rendere esplicito il dolore di questo sforzo che fa per sopprimere la sua frustrazione. Luke vive una dualità, vuole supportare Emily ma sente che sarebbe dovuto arrivare per primo.

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Fair Play. Alden Ehrenreich come Luke e Phoebe Dynevor come Emily in Fair Play. Cr. Sergej Radovic / Courtesy of Netflix

Come è riuscita a sviluppare l’atmosfera sempre più soffocante in cui si dipana la crisi di coppia tra i due?

Abbiamo ricostruito la casa e gli uffici in studio perché volevo avere la libertà di cercare le angolazioni che volevo, non essere limitata da ambienti veri. Fair Play in pratica è interamente ambientato in questi due luoghi, volevo costruire un senso progressivo di claustrofobia, costruire questa bola tossica da cui Emily e Luke non possono fuggire. Per quanto riguarda il loro appartamento, andando avanti nelle riprese abbiamo iniziato a stringere i muri ogni scena del 10%, un qualcosa che il pubblico non nota ma subisce a livello inconscio. Per l’ufficio invece ho pensato a un acquario senza barriere, pieno di riflessi dove specchiarsi ma nessun posto dove nasconderti.

La scelta di Phoebe Dynevor e Alden Ehrenreich come protagonisti ha pagato. Come è arrivata a loro?

Il personaggio di Emily è una stella nascente della finanza, stavo cercando un’attrice nella stessa situazione, mi hanno fatto il nome di Phoebe così ho guardato Bridgerton. L’ho trovata incredibilmente magnetica, forte ma allo stesso tempo versatile. Vi ho visto una forza e una fierezza che speravo avrebbe scatenato nel ruolo di Emily, e così è successo. Sono una fan di Alden da quando l’ho visto in Hail, Caesar! dei fratelli Coen, sono stata felicissima quando mi ha detto di essere interessato alla sceneggiatura. È un attore che può addentrarsi dentro i luoghi più oscuri del proprio ruolo pur partendo da una condizione del tutto diversa, perché avevo bisogno che Luke all’inizio fosse un uomo amabile e socievole. Sapevo di dovermi appoggiare su un attore sicuro di sé per interpretare una psicologia così problematica, ed Alden essendo avendo un background teatrale ha costruito pezzo per pezzo la figura di Luke.

C’è un genere in cui le piacerebbe catalogare il suo film?

Ho sentito dire ad alcuni spettatori di averlo vissuto come un thriller, altri addirittura un horror. Ho sentito il pubblico iniziare a ridere soltanto per esternare l’ansia e il disagio provati. L’ho percepita come la prova che avevo colpito nel segno. Immaginavo che le donne avrebbero abbracciato Fair Play, non mi aspettavo invece di vedere così tanti uomini parlarne e rimanerne colpiti. Il mio non è tanto un film sull’emancipazione della donna quanto sulla fragilità dell’uomo. Penso sia difficile affrancare un’etichetta a Fair Play, io sapevo di voler raccontare i problemi che il senso di inferiorità maschile può causare in una relazione, certamente volevo esporre il lato drammatico di questo disequilibrio nel rapporto di coppia.

New York ha una parte fondamentale in Fair Play. Sarebbe stato lo stesso film se lo avesse ambientato altrove?

Ho vissuto a New York per otto anni, vi ho studiato. È la città migliore quando ti senti sul tetto del mondo, continua a infonderti energia. Allo stesso tempo diventa il posto peggiore quando invece inizi a sentire la pressione, lo stress. È come un animale che può annusare la tua paura, la tua debolezza, e ti attacca per sbranarti. È come un istinto di conservazione che New York possiede: ci sono troppe persone qui, i deboli devono essere eliminati. Volevo mostrare la metropoli come un altro nemico di Luke ed Emily, ho adoperato soprattutto il sonoro per costruire questo senso di avversione: i suoni della metropolitana sono ad esempio quasi dolorosi, ti assalgono.

Adriano Ercolani
Adriano Ercolani
Nasce a Roma nel 1973. Laureato in Storia e Critica del Cinema alla "Sapienza", inizia a muovere i primi passi a livello professionale a ventidue anni, lavorando al tempo stesso anche nel settore della produzione audiovisiva. Approda a Coming Soon Television nel 2006, esperienza lavorativa che gli permette di sviluppare molteplici competenze anche nell'ambito del giornalismo televisivo. Nel 2011 si trasferisce a New York, iniziando la sua carriera di corrispondente di cinema dagli Stati Uniti per Comingsoon.it e Cinefilos.it - È membro dei Critics Choice Awards.
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