After Love, recensione del film di Aleem Khan #RFF15

Dalla Semaine di Cannes alla Selezione Ufficiale della Festa di Roma.

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After Love di Aleem Khan è un film che se tutto fosse andato come doveva avremmo visto al Festival di Cannes, dove era stato selezionato nella cinquina di questa edizione della Semaine de la Critique. Un plauso ulteriore, dunque, alla Festa di Roma 2020 per aver creato la possibilità – per tutti, realizzatori e pubblico – di incontrare alcuni dei titoli che sarebbero rimasti invisibili dopo la cancellazione della kermesse francese.

 

Un esordio notevole, tra Cannes e Roma

Non pochi, per la verità, spigolando nella Selezione Ufficiale dell’Auditorium e nel programma di Alice nella Città: Un altro giro (Druk) di Thomas Vinterberg, Asa ga kuru di Naomi Kawase, Des hommes di Lucas Belvaux, Estate ’85 di François Ozon, El olvido que seremos di Fernando Trueba, Peninsula di Yeon Sang-ho, Ammonite di Francis Lee, 9 jours à Raqqa di Xavier de Lauzanne, Il discorso perfetto di Laurent Tirard, Gagarine di Fanny Liatard e Jérémy Trouilh, Ibrahim di Samir Guesmi, Nadia Butterfly di Pascal Plante, l’incredibile Soul di Pete Docter e Kemp Powers, ovviamente, l’opera prima di cui stiamo parlando.

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Il trentacinquenne regista inglese, già noto alla Locarno Filmmakers Academy e ai laboratori del Sundance Institute, aveva infatti solo tre cortometraggi al suo attivo prima di questo esordio. Tutti realizzati tra il 2009 e il 2014, affidati ad attori britannici, indiani o pakistani e nei quali si parla spesso di stranieri e diversità. Come in questo caso – a conferma di una particolare sensibilità verso certi temi, contesti e le proprie radici (Khan è di Chatham, nel Kent, ma ha origini pakistane e ha ammesso di essersi ispirato ai genitori, pur non essendo un film autobiografico) – visto che la storia è quella di Mary, inglese convertita all’Islam per amore di suo marito Ahmed. I due vivono nella città costiera di Dover, almeno fino a che la scomparsa del coniuge porta alla luce una vita parallela e segreta che sconvolge completamente il quotidiano della moglie. A questo punto decisa a scoprire tutta la verità sulla relazione che suo marito aveva da anni con una donna di Calais, a soli trentaquattro chilometri di distanza oltre il canale della Manica.

Un triangolo inaspettato

Da sempre i filosofi si interrogano su come sia possibile conoscere se stessi, SE sia possibile. Altrettanto spesso il cinema ha giocato con il concetto di identità, ottimisticamente fornendo risposte rassicuranti o lasciando intendere come sia impossibile sapere con certezza chi abbiamo accanto. Eppure non accade di frequente che questo tipo di intrecci sappia prescindere da nuances thriller per venir declinato in maniera più intima, e insieme universale. Come per il ritratto di donna che il regista e sceneggiatore dipinge, di quelli che meriterebbero un posto nella memoria. E questo senza dubbio grazie all’interpretazione maiuscola di Joanna Scanlan, che vediamo mettersi a nudo – non solo metaforicamente – e rappresentare le diverse fasi che un tradimento tanto profondo inevitabilmente scatena.

Nathalie Richard è l’altra donna, la sua avversaria, madre di un figlio che lei non aveva potuto crescere, le si pone davanti come uno specchio nel quale guardarsi da vicino dopo essersi ignorate da lontano (nemmeno troppo, considerata la distanza geografica di cui dicevamo). Uno specchio nel quale interrogarsi sulle proprie mancanze, vergognandosi di difetti vecchi e nuovi e dello sguardo di un uomo che doveva averla ritenuta non abbastanza, ma che non aveva mai pensato di lasciarla davvero, come le rivela propria la sua ‘immagine riflessa’, anche lei sofferente per colpe non sue.

Il gioco di menzogne finisce col metterle di fronte a realtà totalmente impreviste, e a conoscersi. Diverse per lingua, religione, cultura, principi, abitudini, famiglia le due donne si scoprono. Persino simili. Tra un passato da rileggere e un futuro da riscrivere. Difficile per moglie e amante accettarsi, meglio forse passare per un ragazzo in difficoltà, con dei segreti da rivelare a un padre assente, più pronto ad aprirsi all’altro, che accettare di aver bisogno l’una dell’altra per completare il puzzle che non pensavano di star vivendo. Ma il riavvicinarsi potrebbe essere l’unica maniera di sentire di nuovo vicino l’uomo tanto amato, i ricordi che stavano sbiadendo, la vita che rimane loro. Insomma, accettare la sua assenza. Per andare avanti, in fondo, tutti infrangiamo le regole che ci diamo.

Sommario

Il riavvicinarsi potrebbe essere l'unica maniera di sentire di nuovo vicino l'uomo tanto amato, i ricordi che stavano sbiadendo, la vita che rimane loro. Insomma, accettare la sua assenza. Per andare avanti, in fondo, tutti infrangiamo le regole che ci diamo.
Mattia Pasquini
Mattia Pasquini
Nato sullo scioglimento dei Beatles e la sconfitta messicana nella finale di Coppa del Mondo, ha fortunosamente trovato uno sfogo intellettuale e creativo al trauma tenendosi in equilibrio tra scienza e umanismo. Appassionato di matematica, dopo gli studi in Letterature Comparate finisce a parlare di cinema per professione e a girare le sale di mezzo mondo. Direttore della prima rivista di cinema online in Italia, autore televisivo, giornalista On Air e sul web sin dal 1996 con scritti, discettazioni e cortometraggi animati (anche in concorso al Festival di Cannes), dopo aver vissuto a New York e a Madrid oggi vive a Roma. Almeno fino a che la sua passione per la streetart, la subacquea, animali, natura e ogni manifestazione dell'ingegno umano non lo trascinerà altrove.

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Il riavvicinarsi potrebbe essere l'unica maniera di sentire di nuovo vicino l'uomo tanto amato, i ricordi che stavano sbiadendo, la vita che rimane loro. Insomma, accettare la sua assenza. Per andare avanti, in fondo, tutti infrangiamo le regole che ci diamo.After Love, recensione del film di Aleem Khan #RFF15