Causeway: recensione del film con Jennifer Lawrence

La recensione del film Causeway, della regista Lila Neugebauer e con Jennifer Lawrence protagonista, presentato alla Festa del Cinema di Roma 2022.

Causeway film 2022

Jennifer Lawrence si rimette in gioco con Causeway, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2022, e che sarà disponibile dal 4 novembre su Apple TV+. Consegnando il proprio bagaglio attoriale nelle mani della regista Lila Neugebauer, che ha saputo dare un taglio incisivo alla produzione seriale di stampo drammatico – sua la regia di alcuni episodi della miniserie Maid (2021) – Lawrence attraversa un ponte sospeso tra le sue interpretazioni femminili più ardite, Madre! di Darren Aronofsky, in cui la sua figura era piegata a volontà simboliche, e quelle emotivamente più verosimili, come quella nel film Il Lato Positivo, che le ha fruttato il suo primo Oscar.

 

Causeway: il viaggio di Lynsey

Lynsey è una soldatessa che fa ritorno a New Orleans, sua città natale, dopo essere stata vittima di un incidente quasi mortale in Afghanistan. Causeway segue il suo percorso di riabilitazione fisica e mentale nei confronti di una vita che le è sempre stata stretta, le cui radici traumatiche, forse, sono ben lontane dal sud-ovest asiatico molto più vicine alla città statunitense.

Quello di Causeway è un racconto estremamente lineare, diretto nitidamente e in maniera consapevole; una messa in scena asciutta, rarissimi accompagnamenti musicali e un uso sapiente del simbolismo cromatico lasciano che la storia di Lynsey si dispieghi lentamente, dandole il tempo per tornare a respirare o, ancor meglio, riuscire a rituffarsi nelle acque dove si è sempre divertita a nuotare. Proprio l’acqua sancisce il primo contatto della protagonista con l’idea di una realtà professionale estranea all’Afghanistan ma, quello che aveva pensato inizialmente come un impiego temporaneo, in attesa di riessere ammessa tra le fila dell’esercito, si rivelerà un regalo inaspettato per ricavare insegnamenti inaspettati dall’immobilità respingente di una condizione opprimente.

Il trauma invisibile

L’elaborazione del trauma di Lynsey passa soprattutto attraverso la riscoperta di una nuova idea di nucleo famigliare; le mancanze e i dissapori di un passato di cui non ci viene detto esplicitamente tanto, ma intuiamo dalla fattualità circostanziale, vengono progressivamente risanati dall’incontro fortuito con chi ha vissuto qualcosa di molto simile al nostro dolore, il personaggio di James, interpretato da un Brian Tyree Henry in stato di grazia. Nel consolidarsi di un legame inedito e che non è necessario etichettare, Causeway trova maggiormente vigore narrativo, unendo le strade di due personaggi che ci fanno scoprire una nuova facciata di New Orleans: quella di chi rimane ai margini della festosità che ne caratterizza l’atmosfera e di cui il cinema ci ha inondato, mettendo in primo piano le fatiche di adattamento di chi lotta contro un sistema affettivamente mai abbastanza inclusivo.

Forse i traumi che più ci attanagliano non corrispondono a quelli che hanno maggiore concretezza, a quelli imputabili di un malessere comprensibile e che combinano le difficoltà fisiche a quelle psicologiche. Le ferite vanno spesso a ritroso e la fuga verso un luogo apparentemente inospitale e pericoloso, in cui nessuno si rifugerebbe mai, potrebbe risultare l’unico sbocco di un ponte che ci sembra troppo lungo da percorrere. Lynsey continuerà a recitare davanti agli altri mantenendo una postura rigidissima – ottima prova attoriale per la Lawrence – per liberarsi del fardello di dover giustificare l’inesprimibile, una volontà ferrea che nessuno della cerchia di New Orleans può comprendere. Solo quando arriva qualcuno che non guarda ai piani futuri, quanto piuttosto allo scorrere del presente e al cercare di trattenerlo per rivedere il proprio passato, ecco che possiamo ascoltare gli altri, valutare più opzioni, sentirci liberi di scegliere e dare spazio alla nostra definitiva dichiarazione di intenti.

Tracciare il nostro ponte

Causeway non raggiunge le vette espressive di Maid, dove semplicità visiva e compattezza narrativa si univano perfettamente, ma si conferma un’opera interessante di una regista che sa lavorare benissimo con le proprie protagoniste, rendendole veicoli fisici di più livelli di lettura di storie che cercano prevalentemente nella verosimiglianza un aggancio col proprio pubblico.

Quando il coraggio di andare avanti si paleserà sotto forma di un costume blu con cui ci tuffiamo in piscina e che va a sostituire l’intimo nero che Lynsey indossa per tutto il film; quando capiamo che è giunta l’ora di riconnetterci con il nostro elemento per stringere la mano a chi abbiamo ritrovato, forse allora possiamo vedere la fine del nostro ponte, senza mai dimenticarci che in passato eravamo in grado di trattenere il respiro per tanto tempo senza annaspare, e forse lo siamo anche ora.

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