Cure: recensione del film di Kiyoshi Kurosawa

Il film in versione restaurata in 4K arriva al cinema dal 3 aprile con Double Line.

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A ventotto anni dalla sua realizzazione, “Cure” trova finalmente in Double Line la distribuzione capace di porre rimedio alla clamorosa svista che aveva negato a questo capolavoro del cinema giapponese una degna diffusione internazionale. Restaurato in 4K e per la prima volta doppiato in una lingua diversa dal giapponese, il film di Kiyoshi Kurosawa si conferma come una pietra miliare del J-Horror e del thriller psicologico. Nelle sale italiane dal 3 aprile.

 

Cure è un’opera chiave per il cinema giapponese

Uscito nel 1997, “Cure” si colloca tra i titoli più influenti del cinema giapponese contemporaneo. Insieme a “Ringu” (1998), ha segnato la nascita e l’evoluzione del J-Horror, distinguendosi per il suo approccio metafisico e per il magistrale lavoro di sottrazione stilistica. È stato il film che ha consacrato Kiyoshi Kurosawa a livello mondiale, ponendolo come uno dei registi più interessanti del panorama cinematografico nipponico. Ancora oggi, insieme a “Kairo” (2001), rappresenta la summa del suo stile enigmatico e ipnotico.

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La Trama di Cure tra indagine e ossessione

Una serie di brutali omicidi sconvolge Tokyo: le vittime presentano tutte un’incisione a forma di X sul collo e gli assassini, privi di un movente apparente, si trovano in stato confusionale al momento dell’arresto. Il detective Ken’ichi Takabe (Koji Yakusho), affiancato dallo psichiatra forense Shin Sakuma (Tsuyoshi Ujiki), si imbatte in un caso apparentemente inspiegabile. Le indagini lo portano a Kunio Mamiya, un misterioso studente di psicologia che sembra in grado di ipnotizzare chiunque incontri, spingendolo a compiere atti violenti. Takabe, diviso tra il lavoro e le difficoltà della vita privata (la moglie soffre di schizofrenia), si trova progressivamente risucchiato in un vortice di dubbi e inquietudini, fino a mettere in discussione la propria stessa identità.

Uno stile disturbante e ipnotico

Kurosawa attinge dichiaratamente dal thriller statunitense – “Il silenzio degli innocenti” (1991) e “Seven” (1995) – ma rielabora il genere in modo personale e innovativo. “Cure” si distingue per il suo approccio minimalista e profondamente inquietante: piani sequenza dilatati, campi lunghi e un montaggio che lascia spazio al vuoto e all’incertezza. La tensione non è costruita attraverso la musica (quasi assente), ma dai rumori diegetici: il fruscio del vento, il gocciolio dell’acqua, il crepitare di un accendino. L’atmosfera claustrofobica e alienante trasforma gli ambienti più ordinari in scene da incubo.

Il Male e la perdita di controllo

Al centro di “Cure” vi è una domanda essenziale: cos’è il Male? Kurosawa rifiuta la figura del serial killer carismatico e onnisciente tipica del cinema occidentale. Mamiya non è Hannibal LecterJohn Doe: è un enigma, un’assenza, una presenza indefinita che agisce nel vuoto, senza lasciare tracce tangibili del proprio operato. Il film non offre risposte, ma amplifica il senso di smarrimento dello spettatore, esattamente come accade al protagonista Takabe, che si ritrova progressivamente privato di ogni punto di riferimento.

Un’opera visionaria e senza tempo

Nel contesto del cinema giapponese dell’epoca, “Cure” riflette la crisi identitaria e il senso di disorientamento di una società in transizione. Kurosawa costruisce un’opera geometrica ed elegante, ma anche spiazzante e destabilizzante. Ogni elemento, anche il più ordinario, si carica di un potenziale sinistro. Il confine tra vittima e carnefice, tra realtà e suggestione, si dissolve in un vortice di inquietudine.

A quasi trent’anni dalla sua uscita, “Cure” si conferma non solo uno dei film più importanti di Kiyoshi Kurosawa, ma anche un’opera imprescindibile per chiunque voglia esplorare il lato più oscuro e cerebrale del thriller e dell’horror giapponese. La sua rinnovata distribuzione in 4K rappresenta un’occasione unica per riscoprirne il fascino perturbante sul grande schermo.

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Sommario

Cure è un’opera fondamentale per il cinema, non solo quello giapponese.

Chiara Guida
Chiara Guida
Laureata in Storia e Critica del Cinema alla Sapienza di Roma, è una gionalista e si occupa di critica cinematografica. Co-fondatrice di Cinefilos.it, lavora come direttore della testata da quando è stata fondata, nel 2010. Dal 2017, data di pubblicazione del suo primo libro, è autrice di saggi critici sul cinema, attività che coniuga al lavoro al giornale.

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