Johnny English: la rinascita, recensione del sequel

Johnny English: la rinascita

L’agente speciale Johnny English ritorna a far danni in Johnny English: la rinascita, e questa volta dovrà vedersela con il peggiore dei nemici, un traditore. Rowan Atkinson ritorna negli eleganti abiti da spia che hanno lanciato il suo famoso personaggio dell’agente segreto di Sua Maestà più pasticcione di sempre.

 

Mantenendo il senso di parodia bondiana per eccellenza, questa volta il vecchio English ci accoglie in un’ambientazione tibetano, a fare il verso al Batman Begins di Nolan, o forse a quell’Ace Ventura che tanto ha giovato alla carriera di Jim Carrey. Il nostro eroe è reduce da un terribile incidente diplomatico, cerca in tutti i modi di riacquistare la calma perduta e di riabilitare il suo nome agli occhi dei colleghi dell’MI7, divisione dei Servizi Segreti britannici.

Per tutti quelli che hanno amato Mr. Bean e le altre interpretazioni di Atkinson, questo secondo capitolo di English sarà esilarante, con un protagonista in splendida forma, che non perde un colpo nonostante i capelli ingrigiti. Il suo humor tutto particolare, molto composto e decisamente inglese ci coinvolge e il film scorre via senza intoppi, con molti sorrisi e qualche risata di gusto, dovuta soprattutto alle espressioni del nostro, sempre efficaci e mai eccessive, come invece può essere successo in passato.

Accanto ad Atkinson un buon cast che funzionerebbe benissimo in un vero film di Bond: Gillian Anderson è Pegasus/Pamela Thornton, capo della divisione MI7, donna raffinata, determinata e di grande carisma; Rosamund Pike è Kate Sumner, psicologa comportamentista, attratta in maniera ‘clinica’ dall’agente English, che finirà per innamorarsi in maniera molto dolce e divertita dell’eroe; il super agente Uno è Dominic West, affascinante, elegante e apparentemente impeccabile, potrebbe benissimo essere un Bond in versione seria; infine il quasi sconosciuto Daniel Kaluuya nei panni dell’agente Tucker, novellino che vive delle leggende intorno ai grandi nomi dello spionaggio, completamente fuori luogo all’inizio, ma determinante alla resa dei conti. Quello che sorprende in un film così leggero è un forte senso di giustizia che pervade la storia. ci troviamo di fronte ad un modo del tutto immaginario che fa dell’eccesso e dell’assurdo la sua regola, tuttavia la rettitudine e la lealtà di English sembrano così fuori luogo da assurgere a veri e propri valori, anche in un contesto comico quale è quello del film.

Ma tutto il film funziona grazie ad una scrittura agile e semplice, senza troppi giri di parole firmata da Hamish McColl, amico e collaboratore di Atkinson stesso. E non a caso alla regia c’è Oliver Parker, che nonostante annoveri il recente Dorian Gray nella sua filmografia, ha sempre portato al cinema pellicole leggere ed intelligenti. Ultimo tocco che completa è quadro è Ilan Eshkeri, compositore, ascoltato con interesse in Stardust e qui confermato come giovane di talento. Johnny English: la rinascita, e lo fa con stile e classe, portandosi dietro un sacco di guai, ma uscendone sempre a testa alta, e così anche Atkinson.

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