È un esordio delicato, dolente ma ricco di speranza quello di Luca Zingaretti con La casa degli sguardi. Presentato nella sezione Grand Public della Festa del Cinema di Roma, il film – liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Daniele Mencarelli – è infatti un’esplorazione delle varie sfumature possibili del dolore, compresa quella di luogo dell’anima da cui ripartire per ritrovare una dimensione di felicità. Ed è proprio questo il fulcro dell’opera, che – come afferma lo stesso Zingaretti – “parla del dolore, ma non in termini negativi, ma come ingrediente necessario per la felicità, perché dolore e gioia sono fatti della stessa materia“.
Scritto insieme a Gloria Malatesta e Stefano Rulli, il neo regista (che in realtà ha già compiuto il passaggio dietro la macchina da presa per alcuni episodi di Il commissario Montalbano, ma che si cimenta ora per la prima volta con un lungometraggio) sceglie dunque un racconto molto intimo, sussurrato, dove – come il titolo suggerisce – contano di più gli sguardi che non le parole. Sono questi, quelli sostenuti, evitati, temuti e sperati, a portare avanti il racconto, a raccontarci i personaggi e i loro complesso e agitato mondo interiore.
La trama di La casa degli sguardi
Marco (Gianmarco Franchini) ha 20 anni e una grande capacità di sentire, avvertire ed empatizzare con il dolore del mondo, scrive poesie, e cerca nell’alcool e nelle droghe “la dimenticanza”, quello stato di incoscienza impenetrabile anche all’angoscia di esistere e di vivere. Beve tanto Marco, beve troppo. È in fuga dal dolore ma soprattutto da se stesso. Per vivere si deve anestetizzare, dice. È incapace di “stare” nelle cose, a meno che il tasso alcolico del suo sangue non sia altissimo, e si è allontanato da tutti, amici e fidanzata, spaventati dalla sua voglia di distruggersi.
Anche il padre (Luca Zingaretti) testimone di questo lento suicidio, è incapace di gestire tanta sofferenza ma tenta almeno di “esserci”, la madre è mancata da qualche anno e ha lasciato un grande vuoto. Per cercare di rimediare alla situazione del figlio, gli trova un lavoro come addetto alle pulizie del Bambin Gesù. Il ragazzo, però, è convinto che questa esperienza, a contatto con i bambini malati, lo ucciderà. Per sua fortuna, in questo nuovo lavoro troverà una squadra, capitana da Giovanni (Federico Tocci) grazie al quale riscoprirà l’amore per la vita.
Disagio giovanile in formato liquido
Chi è mai stato ad un reading di poesia? A quanto pare nessuno, non in La casa degli sguardi almeno, ma Marco il protagonista ce li descrive da subito come un qualcosa di terrificante. Un qualcosa che sembra necessitare di diversi bicchieri di vino per poter essere affrontato. Come scopriremo, però, quello dell’alcol è un vizio che Marco pratica anche lontano dalle letture pubbliche delle proprie poesie. Un problema piuttosto grave, particolarmente diffuso tra i giovani ma non sempre affrontato – tanto meno al cinema – con le giuste attenzioni.
Zingaretti e Gianmarco Franchini – già fattosi apprezzare in Adagio – ci portano invece ad affrontare di petto il problema, facendoci quasi sentire in gola il bruciore dei vari alcolici che Marco butta giù con una disinvoltura spaventosa. È la manifestazione più evidente del suo disagio, dietro la quale si nascondono dolori mai realmente elaborati (la morte della madre) e paure mai davvero affrontate (l’incertezza del futuro). Marco ha il sogno di diventare un poeta, ma è davvero possibile campare con una professione simile nell’Italia di oggi? Poeta o un qualunque altro tipo di artista, la domanda non cambia.
Ecco allora subentrare l’alcol, ma il regista non giudica di certo il suo protagonista per questo. Anzi, molto più impietoso sembra essere lo sguardo nei confronti di chi quell’alcol a Marco lo vende, rivolgendogli sguardi di disapprovazione ma senza minimamente cercare di porre un freno al suo vizio. In ogni caso, parte da questo senso di disagio il film per offrire un racconto sulla ricerca di una redenzione e sulla riscoperta delle bellezze della vita per cui vale la pena continuare a lottare contro le difficoltà, lasciandosi alle spalle tutto ciò che invece uccide lentamente.
Luca Zingaretti realizza un’opera equilibrata e con il giusto tatto
Con un protagonista così sofferente, il film potrebbe facilmente scadere nello strazio, ma Zingaretti riesce invece a dosare bene gli ingredienti del suo lungometraggio, infondendo in Marco anche tanta speranza e trovando ora il modo di far appassionare ai personaggi, ora quello di intenerire e infine anche le occasioni per divertire. Ben costruiti sono ad esempio il rapporto tra Marco e il suo padre biologico e quello con il “padre adottivo” Giovanni, altro personaggio che nasconde il proprio dolore dietro ad una maschera.
Perché in fondo a soffrire, per un motivo o per un altro, sono un po’ tutti i personaggi di La casa degli sguardi, ma ognuno di loro riesce anche ad essere la manifestazione di come si può convivere con questo stato d’animo. Va detto che in alcuni momenti si ha la sensazione che si abbia tra le mani troppe sottotrame, che per quanto contribuiscono ai messaggi di fondo, sembrano talvolta far prendere troppe direzioni diverse al film, che su diversi punti non raggiunge dunque una conclusione soddisfacente, anzi lasciando alcuni elementi fin troppo in sospeso.
Ma questo non oscura quanto di buono c’è in tutto il racconto e che Zingaretti porta in scena senza mai strafare, non commettendo l’errore in cui molti attori che debuttano alla regia cadono, ovvero quello di mettersi eccessivamente in mostra. L’attore-regista si ritaglia invece qui un ruolo secondario, memorabile più per i suoi silenzi, e lascia a Franchini e al suo sguardo dolente il compito di portare avanti il racconto. È così che, giunti al finale, ci si sente legati a Marco e alle sue (dis)avventure, essendoci interessati più a lui e a chi gli sta intorno che non tanto alle vicende che li vedono protagonisti.
La casa degli sguardi
Sommario
L’esordio alla regia di Luca Zingaretti è un film che riflette sulle forme del dolore, sul disagio giovanile e generazionale, ma anche sui modi in cui tutto ciò può essere affrontato aprendosi all’amore. Ciò avviene attraverso un film che, pur se attraverso più elementi del necessario, esalta con tatto le fragilità umane.