La Favorita: recensione del film #Venezia75

La favorita

Approda a Venezia un affresco barocco intrigante, che occhieggia alla pittura del tardo seicento con uno sguardo totalmente personale, moderno e dissacrante. Si tratta del nuovo film di Yorgos Lanthimos: La Favorita.

 

La storia di La Favorita è ambientata nell’Inghilterra del XVIII secolo, dove la triste Regina Anna decide le sorti del suo popolo protetta dalla sua reggia isolata nel cuore della campagna inglese. La sua corte, popolata di nobili, servi e consiglieri, sembra giocare freddamente con la vita e la morte della povera gente, in maniera distaccata e annoiata, dando più importanza ai banchetti, alle corse di anatre, alle tresche e al tiro a volo, piuttosto che alle inevitabili conseguenze belliche di quel  conflitto sanguinoso con la Francia, che si protrae ormai da lungo tempo.

La Favorita, il film

La sovrana è appesantita dalla gotta, da altri malanni  dell’epoca e da una profonda depressione, che la rende insicura e decisamente succube della subdola Sarah. La donna, approfittando del suo favore, governa in realtà al suo posto. La favorita si prende apparentemente  cura della regina, dimostrandosi disponibile e servile anche come amante, ma la sua in realtà è un’abile manfrina per ordire complessi e pericolosi giochi di potere. Un giorno però giunge dal nulla la giovane e intraprendente Abigail, che relegata a sguattera di cucina, intraprenderà un ardito quanto sfrontato gioco di intrighi e strategie, per arrivare a strappare i favori della Regina alla spietata Sarah.

Nel panorama asfittico della cinematografia odierna, le opere di Yorgos Lanthimos portano certamente una ventata di aria fresca. Certo, un aria malsana e priva di qualsiasi pulviscolo di speranza, ma certamente una brezza assai originale e stilisticamente intrigante. Dopo Dogtooth (2009) storia di un terribile esperimento che genera mostri, The Lobster (2015) ambientato in un futuro distopico dove è vietato essere single e Il Sacrificio del Cervo Sacro (2017) dove la vendetta si fa crudele, corrodendo dal cuore un’intera famiglia, La Favorita aggiunge un nuovo tassello a quell’umanità istintiva e carnivora che lotta per la sopravvivenza, nella cognizione ineluttabile che è uno sforzo vitale, ma totalmente effimero.

Le tre donne protagoniste del film, pur con posizioni sociali squilibrate tra loro, una regina, una nobile, e una dama caduta in rovina, costretta a farsi assumere come serva, non esitano di fronte a nulla, al fine di ottenere ciò che bramano. Non esitano a sacrificare la vita di altre persone, quella di poveri animali indifesi e anche se stesse, usando il proprio corpo come un oggetto o come mero strumento di caccia.

Le tre protagoniste, Emma Stone, Rachel Weisz e Olivia Colman offrono una prova assai convincente e magnificamente dipinta, giocando con le emozioni, pennellata dopo pennellata.  Offrono cambi repentini, quanto esili, di una miriade di stati d’animo, assecondando i complessi punti di vista e gli snodi narrativi. Sono personaggi primordiali, ma dotati di una carica istintiva che li rende imprevedibili, con un’intelligenza sottile e spietata, da animale selvatico. Il regista si comporta con loro come uno zoologo attento, che annota freddamente ogni sfaccettatura della loro etologia, con sguardo minuziosamente patologico, distendendo sullo schermo, a guisa di tavolo settorio, il loro corpo e la loro mente, smontandoli pezzo per pezzo.

Lanthimos gioca in maniera sfrontatamente claustrofobica con le ottiche corte, distorcendo e ampliando la percezione visiva. Arriva a fare uso insolente del fish-eye, realizzando inquadrature che mutano col movimento. Questo appare straniante, ma poi ci si rende subito conto che invece tutto ha una funzione e quello che appare anacronistico è in realtà frutto di un nostro freno inibitorio estetico, perché in fondo le sue immagini rimandano a giochi di specchi, illusioni ottiche, o antiche anamorfosi seicentesche.

Visti i riferimenti a Stanley Kubrick, a volte smaccati, ma sempre ben riusciti, inseriti nei suoi film precedenti, ci si poteva certamente aspettare una vicinanza promiscua  a Barry Lyndon (1975), ma fortunatamente Lanthimos non cade nel tranello, lasciando piuttosto intravedere altre suggestioni, come I Misteri del Giardino di Compton House (1982) di Peter Greenaway, confermate da bizzarri tableau vivant, popolati di corpi nudi, animali impagliati, oggetti allegorici ed elementi di vanitas e wunderkammer, inseriti a spezzare sapientemente la narrazione, oppure la suddivisione in capitoli, che forma una vera e propria sottostruttura, al fine di organizzare parallelamente alla trama il materiale del racconto.

La favorita è un dipinto elegante, sfarzoso, meraviglioso,  perturbante, che fa da specchio crudele, mostrando allo spettatore un passato lontano, ma che diviene sinistramente il riflesso spietato del mondo contemporaneo. Può apparire spiazzante, può divertire per il suo sarcasmo grottesco, può intenerire, commuovere o intrigare, ma certamente non può lasciare indifferenti, sottolineando quanto la speranza è molte volte un illusione, un effimera bugia che l’essere umano si racconta per andare avanti e rimanere in vita.

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