L’Été dernier: recensione del film di Catherine Breillat – Cannes 76

Dopo un lungo silenzio e la collaborazione con Rocco Siffredi, torna Catherine Breillat

L'Été dernier recensione

A dieci anni dall’ultimo Abus de faiblesse, e dopo il Une vieille maîtresse con Asia Argento del 2007, Catherine Breillat torna al Festival di Cannes con una storia in grado di far discutere e sfidare principi e convenzioni del pubblico. A promettere scandalo stavolta è L’Été dernier (Last Summer), remake del candidato danese agli Oscar 2020 Dronningen/Queen of Hearts di May el-Toukhy. Una storia familiare di inganni e torbidi intrecci che riporta all’attenzione internazionale il nome della regista francese dopo le accuse della Caroline Ducey protagonista di Romance, film che segnò anche l’esordio – nel cinema non porno – di Rocco Siffredi (richiamato poi dalla Breillat anche nel Pornocrazia del 2004).

 

Un’estate in famiglia

Anne e Pierre cono una felice coppia matura, divisa tra il lavoro e la cura delle due figlie piccole Serena e Angela, adottate per l’impossibilità di lei di avere figli a causa di un passato aborto. Una vita felice ed equilibrata, che viene stravolta dall’arrivo del figlio diciassettenne del precedente matrimonio di lui, Theo.

In poche settimane, l’attitudine conflittuale del giovane crea più di un conflitto, che Anne cerca di ricomporre nella speranza di facilitare il ricongiungimento tra padre e figlio. Così facendo, però, la donna e l’adolescente stabiliscono una complicità particolare, che finisce per sfociare in un rapporto proibito che mette in pericolo la sua carriera e la sua vita familiare.

Libertà, verosimiglianza, paternità

Tutto nella vicenda di Anne – ovviamente Pierre – e Theo è voluto e costruito per mettere in discussione ruoli e aspettative, genitoriali, in primis, ma sono forse i personaggi dipinti e alcuni loro comportamenti a sconcertare più dello scandalo o lo sdegno che si suppone il pubblico dovrebbe provare nel vederli agire contro ogni regola. Anche se non sempre per passione.

Spesso – come cantava il poeta – spinta “a soddisfare le proprie voglie”, qui non è questa a spingere i vari attori a fare quel che fanno. Ognuno ha o può avere ragioni diverse per andare contro la morale comune, sia il borghese Pierre, intenzionato a non perdere lo status familiare acquisito dopo una vita di lavoro, sia Theo, figlio ribelle e pronto a tutto per vendicarsi di un padre assente. Sia Anne, una donna che la Léa Drucker del magnifico Close di Lukas Dhont rende il soggetto meno prevedibile di questo triangolo irregolare.

Segnata dal rimpianto di un sesso più felice, oltre che dalla rinuncia alla maternità naturale e dai tanti casi di abusi dei quali si fa carico professionalmente ogni giorno (la vediamo sin dall’incipit, e poi durante il film, seguire un caso di stupro), le sue sono le pulsioni più forti e intriganti, quelle che di più sfidano lo spettatore, anche non “benpensante”. Non per la trasgressione insita nel gesto, non per la volontà di seguire il proprio istinto a ogni costo e con deliberata consapevolezza, quanto piuttosto per la risposta – lucida, cinica, spietata – alle conseguenze che la Breillat orchestra.

Il problema, purtroppo, insorge nelle libertà che giustamente la regista decide di prendersi – insieme ai rischi – per fare della sua un’opera originale. Forse troppo condizionata dal ‘bisogno’ di sottolineare temi e scelte stilistiche tipici del suo cinema, lo sviluppo inizia a traballare tra dialoghi forzati, lunghe e insistite scene di sesso, mai troppo esplicite e meno intense di quanto desiderato, e una drammatica scelta narrativa che distaccandosi dal film danese dà in una sola scena il colpo di grazia a una rappresentazione altrimenti ricca. Che avrebbe potuto regalare alla Drucker un Humbert Humbert moderno e diverso e dare forza al finale – più amaro di quel che ci si sarebbe aspettati – che pure trasforma senso di colpa in determinazione e libertà e il tormento personale in una sconfitta comune.

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