Impronte nella sabbia. Alba Rohrwacher, nei panni di Monica, cerca di seguirle facendo attenzione a mettere i piedi lì dove qualcun altro già li ha messi. Non sapremo mai a chi appartengono. Può essere bello pensare che appartengano a Monica Vitti, a cui il nuovo film di Roberta Torre – Mi fanno male i capelli – deve il suo titolo, con la protagonista che non starebbe allora facendo altro che cercare di ripercorrere la carriera della celebre diva, tra le più amate della storia del cinema italiano e scomparsa solo di recente. Molto più probabilmente, però, quelle impronte sono della stessa protagonista, la quale si è perduta e cerca di tornare sui propri passi.
Passi che forse neanche sa appartenerle, avendo intrapreso volente o nolente un percorso non per ricordare bensì dimenticare. Perché dimenticare è importante, ci permette di fare spazio per nuove cose, come viene affermato nel film. Ma dimenticare è anche doloroso, specialmente per chi è costretto a guardare il proprio caro sapendo di non essere da questi riconosciuto. Si soffre allora da soli, ed è quanto succede in Mi fanno male i capelli, il quale pur partendo dunque come omaggio a Monica Vitti si svela piano piano essere un racconto sulla memoria, sull’identità e sulla facilità con cui queste due cose possono sgretolarsi. Purtroppo, nel proporre ciò, non tutto funziona.
La trama di Mi fanno male i capelli
Ad essere vittima di una memoria che ogni giorno le fa credere di aver perso qualcosa per strada è la già citata Monica (Alba Rohrwacher), la quale con sempre maggiore curiosità inizia a guardarsi intorno cercando di ricordarsi il nome delle cose, i viaggi compiuti, il volto e le lebbra di suo marito Edoardo (Filippo Timi). Quest’ultimo cerca in tutti i modi di trattenere l’amata moglie nel nostro mondo e di non perderla in quello dei sogni, acconsentendo dunque a fare con lei un gioco particolare, l’unico che sembra poter regalare a entrambi qualche nuovo ricordo felice: rimettere in scena i film con protagonista Monica Vitti, in cui la protagonista è convinta di rivedere sé stessa.
Ricordi quel gioco?
Parte dunque come omaggio all’amata attrice italiana – tra le più importanti del nostro cinema e tristemente scomparsa il 2 febbraio del 2022 – il film diretto da Roberta Torre, ma di lei non esalta solo la carriera e la personalità ma anche il suo rapporto ambivalente con la memoria, che diceva di voler perdere. Perché il cuore del film è da ritrovarsi in questo rapporto con quell’organo-forziere dentro cui si nascondono i ricordi di una vita intera e che molto spesso sceglie per noi cosa preservare e cosa no. Ecco allora che nel film la protagonista si confronta con queste dinamiche, cercando di riappropriarsi di situazioni che forse ha vissuto davvero o forse no.
Scorrono dunque sullo schermo immagini tratte da alcuni dei film più famosi della Vitti, da La notte a L’eclissi, da Il Deserto Rosso a Polvere di stelle, con la protagonista che instaura dei veri e propri dialoghi con l’attrice ed estendendo poi questo gioco anche al marito – un dolente e convincente Filippo Timi – e all’iconico Alberto Sordi. Un gioco attraverso cui la protagonista si ricerca e prova a ritrovare la propria identità che giorno dopo giorno si sbiadisce. Da qui dovrebbe emergere tutta la tenerezza di lei come anche tutta la drammaticità della malattia che la caratterizza. Ma, come accennato in apertura, tutto ciò raramente si concretizza.
Un film che non trova la propria strada
Mi fanno male i capelli dimostra infatti sin da subito una certa difficoltà nel trovare la propria strada. Come omaggio a Monica Vitti risulta piuttosto sconclusionato, con poco da offrire se non una sequenza finale interamente composta da immagini dell’attrice che riesce sì ad emozionare, ma per merito della Vitti, che con i suoi occhi grandi e malinconici o il suo sorriso spiazzante ci ricorda di quanto sia stata preziosa per il nostro cinema, la nostra cultura, la nostra storia. Come film sulla malattia, invece, manca di quella profondità necessaria a rendere giustizia all’argomento, ponendo sì in evidenza la drammaticità di tale condizione ma senza aggiungere nulla che non sia già stato detto.
Non aiuta poi una sottotrama, a cui è legato il personaggio di Timi, che poco o nulla aggiunge al racconto di Monica e alle sue vicende, ma che anzi vi sottrae attenzioni e tempo. Si finisce così con l’imbattersi in diversi spunti interessanti (tra cui si ritrovano gli scambi – di parole o indumenti – tra Vitti e Rohrwacher resi possibili dal montaggio), ma affrontati con troppa superficialità. L’emozione dunque si smorza, il coinvolgimento dello spettatore va pian piano diminuendo e quello stesso gioco che la protagonista ci aveva invitato a fare smette di possedere il fascino che poteva avere all’inizio. Il film finisce dunque, ironia della sorte, con l’essere facilmente dimenticabile.