Cannes 2015: il sacco di Roma, Red Weddings e altre tragedie

Cannes 2015

Il 6 maggio 1527 uno spietato Carlo V a capo di 12000 mercenari Lanzichenecchi, anch’essi piuttosto arrabbiati, mettono a ferro e fuoco Roma per piegare il codardo Francesco I Re di Francia. Un assedio di dimensioni bibliche come non si vedeva dai tempi di Nerone secoli e secoli prima. Maggio 2015, il potente Thierry Fremaux I, appena salito al trono del regno di Cannes dopo l’abdicazione di Gilles Jacob Il Supremo, vendica il suo Impero preparando – in territorio francese – una trappola ai danni dello Stato di Roma, proprio nel suo momento più florido e rinascimentale. Accompagnato dal fido Pierre Lescure detto Il Calvo, si organizza un Festival del cinema lungo la costa cosiddetta “azzurra” laddove vengono invitati i tre più importanti colonnelli della penisola italica: Garrone il Barbaro, Moretti il Pignolo, Sorrentino il Masaniello.

 

I tre, come da copione, presentano i loro doni alla folla giunta ad ammirarli da tutto il mondo, raccogliendo onori e applausi. Onori ben più pesanti dei rivali francesi, piuttosto arresi all’evidenza ma ugualmente fieri. Si assiste a una vera sfida, di arti e sete pregiate, solo con l’arrivo delle delegazioni asiatiche rappresentate dall’imperatore Hou Hsiao Hsien, solenne e statuario come tradizione. Si passano undici giorni di banchetti, champagne a fiumi, risate cordiali e sfilate carnevalesche su tappeti rossi come il sangue, probabilmente un indizio dell’epilogo tragico che andiamo a raccontare. Al pari del feroce Red Wedding durante la Guerra dei Cinque Re, perpetrato dal voltagabbana Lord Walder Frey intento a sterminare il casato degli Stark, la sera del 24 maggio gli italiani e la quasi totalità dei guerrieri cinesi vengono sbeffeggiati e ignorati. Ad essere incoronati proprio i tronfi francesi, felici e appagati nonostante l’incomprensione generale dei regni locali e d’oltremare.

Incomprensione è proprio la parola adatta. Mettendo da parte per un attimo gli scherzi, il risveglio dopo la premiazione del Festival di Cannes 2015 è amaro e confuso. Ci dividiamo fra complottisti (“È tutto soldi e politica!!”), fra sportivi (“Hanno giocato tutti bene, qualcuno doveva vincere”) e indignati (“È una vergogna!!”), ma a perdere è probabilmente il cinema stesso e la sua credibilità. Ma cos’è successo esattamente? A vedere il palmarés, è incredibile vedere come i francesi – nonostante c’entrino relativamente poco, poiché i premi vengono assegnati da una giuria internazionale – siano riusciti a girare la frittata a loro piacimento, celebrando un trionfo che nei fatti non gli appartiene per niente. Almeno quest’anno, perché tutti conosciamo la grande qualità dell’industria cinematografia transalpina nel generale.

Nel particolare, negli ultimi dodici giorni sulla Croisette, ha invece stentato a brillare, presentando film poco incisivi che verranno dimenticati facilmente. Fra questi anche la tanto acclamata Palma d’Oro Dheepan, del buon Jacques Audiard, che in passato ha vinto molto meno (o niente) presentando prodotti migliori. Si narra epicamente la storia di un immigrato dello Sri Lanka che, una volta arrivato in una banlieue parigina, mette a ferro e fuoco una piazza dello spaccio. Da solo. In un progetto che parte con sfumature sociali e finisce per imitare Rambo, dedicando i suoi ultimissimi frames al cliché della quiete dopo la tempesta, fra riflessi di sole e arcobaleni. Poco carattere, poco impatto, persino l’impegno civile si perde nel calderone, allora perché? Domanda senza risposta numero 1.

Guardiamo ora al premio per la miglior sceneggiatura. L’ha spuntata Michel Franco con il suo Chronic, probabilmente il film peggio scritto di tutta Cannes 2015. Per novanta minuti si è costretti a guardare un infermiere (un grande Tim Roth, su questo nessun dubbio) che assiste a domicilio i suoi pazienti in fase terminale. Nessuno scossone, solo tanto voyeurismo, nulla a che fare con quel (vero) capolavoro chiamato How To Die In Oregon che affronta i medesimi temi. Non solo: per rendere accattivante le poche righe di copione vengono aggiunti elementi da noir, poiché in alcuni momenti sembra che il protagonista pratichi dello stalking in modo quasi del tutto ingiustificato, e un finale che meno originale non si può. Dopo oltre cento anni di cinema, ci sono almeno tre cose quasi sempre presenti in ogni film contemporaneo e di cui non ne possiamo davvero più: le scene in discoteca con solo musica assordante, la malattia come fulcro della storia, gli incidenti stradali come twist principali. Franco riesce a inserirne almeno due, in questo Festival è riuscito a fare peggio solo Gus Van Sant con The Sea of Trees, da molti considerato il peggior film dell’edizione. Quali sono le basi, dunque, per un premio così prestigioso? Domanda senza risposta numero 2.

Il vero, autentico capolavoro del cerimoniale riguarda poi chi ha scelto di premiare insieme Emmanuelle Bercot e Rooney Mara. L’attrice americana era data come favorita, la sua celebrazione è assolutamente meritata ma non solo. Nelle ore precedenti all’incoronazione si sperava segretamente in una doppietta con la sua partner (in senso letterale…) sullo schermo, Cate Blanchett. Insieme rendono potente un film dall’ossatura solida, da sentire sulla pelle, Carol di Todd Haynes. La doppietta è arrivata sul serio, ma con l’attrice protagonista di Mon Roi di Maïwenn, un’opera di media fattura piaciuta quasi ed esclusivamente alla stampa francese, perfetta nel fare squadra sempre e comunque. Attrice e regista che inoltre ha inaugurato proprio Cannes 2015 presentando fuori concorso La Téte Haute, ricordiamolo. La povera Rooney non è tornata a ritirare il premio, così che nel quadro perfetto e patinato dei giornali potesse esserci soltanto il terzetto delle meraviglie, tutto francofono, immolato al trionfo (il povero Vincent Lindon è forse il solo a meritare cotanto sfarzo). A far rabbia, più che i premi stessi, sono però gli assenti. Dei tre italiani, nel loro anno di grazia acclamati dal pubblico in sala e dalla stampa internazionale, non è rimasto nulla. Svaniti i 17 minuti di applausi a Youth di Paolo Sorrentino, scomparsi tutti i propositi di palma venuti sottobanco (ma neanche troppo, visti i voti dei Daily) per Nanni Moretti e a Mia Madre, ogni cosa dissolta nel nulla. Stessa sorte per Mountains May Depart di Jia Zhangke e i suoi attori. Anche i contentini dati al maestro Hou Hsiao Hsien e László Nemes (premio alla regia e Grand Prix Speciale della Giuria) suonano quasi come una beffa, un “Ok mettetevi lì nell’angolo che qualcuno verrà a chiamarvi prima o poi, non sappiamo quando, prima ci sono i premi di peso, quelli indimenticabili”. Che poi siamo davvero sicuri che siano i premi, a restare? Domanda senza risposta numero 3. Del resto non sappiamo neppure se ci si nota di più andando ad un Festival restando in disparte o non andando affatto.

- Pubblicità -