Shining: recensione del film di Stanley Kubrick

Shining

Shining è il film horror culto di Stanley Kubrick con protagonisti nel cast Jack Nicholson, Shelley Duvall, Naddy Lloyd e Barry Nelson.

 

ShiningAnno: 1980

Regia: Stanley Kubrick

Fotografia: John Alcott

Montaggio: Ray Lovejoy

La trama di Shining: La scrittore Jack Torrence (Jack Nicholson) accetta il lavoro come custode dell’Hoverlook Hotel, immenso albergo di lusso tra i monti del Colorado dove spera di ritrovare la vena artistica per continuare il suo romanzo. L’hotel nella stagione invernale rimane isolato dal mondo.

Qui, qualche anno prima, l’ex custode uccise la famiglia in un raptus omicida. Jack, per nulla spaventato dal macabro precedente, vi si trasferisce con la moglie Wendy (Shelley Duvall) e il figlio Danny (Danny Lloyd). Il piccolo Danny ha la capacità di vedere eventi passati e di comunicare telepaticamente. Il cuoco dell’albergo, Dick Halloran ( Scatman Crothers ), possiede le sue stesse doti e prima di abbandonare l’hotel fa in modo di avvertirlo: le molte cose terribili successe in quel luogo continuano ad esercitare la loro forza negativa.

Danny dovrà mettersi in contatto con lui se le cose si metteranno male utilizzando proprio il suo dono, che gli dice chiamarsi Shining (con infelice traduzione italiana in: “Luccicanza”). Immagini spettrali e sanguinose, che sembrano avere il loro fulcro nella camera 237, si faranno sempre più concrete e altereranno la mente di Jack Torrence.

Tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King, che ne contesterà l’adattamento, Shining (The Shining) è l’opera d’Arte con cui Kubrick apre gli anni ’80 , esaltando ancora una volta le specificità del linguaggio cinematografico attraverso il confronto con la letteratura. Stanley Kubrick aveva segnato il  decennio precedente con altri due capolavori: Arancia Meccanica (A Clockwork Orange del 1971), adattamento del romanzo di Anthony Burgess,  e Barry Lyndon (1975), monumentale film storico tratto da Le memorie di Barry Lyndon di William Makepeace Thakeray .

ShiningAl centro del loro lavoro, Kubrick e la Johnson hanno come riferimento la definizione freudiana di perturbante: “ciò che doveva rimanere celato e che è venuto alla luce”. Il maniacale perfezionismo tecnico-formale di Kubrick non è mai fine a sé stesso ma funzionale ad esprimere con i mezzi del cinema una complessa rete di sensazioni e riflessioni.

Paradigmatico è l’uso della fotografia curata da John Alcott (grande direttore della fotografia, che ha firmato altri capolavori di Kubrick: 2001 Odissea nello spazio, Arancia Meccanica e Barry Lyndon). Kubrick e Alcott ribaltano i canoni del genere: invece di far leva sulla simbologia luce/ombra secondo modalità già canonizzate, sfruttano l’illuminazione dei neon e di altre fonti diegetiche dell’Hoverlook. Geniali espedienti tecnici come nel caso dei neon delle cucine regolabili in funzione dell’azione o dei lampadari del grande salone principale, permettono inquadrature dal basso che spesso mettono in campo i soffitti e si legano a scelte precise: il male, “ciò che doveva rimanere in ombra”, agisce proprio nella luce.

Shining, il film horror di Stanley Kubrick

Basti pensare all’uccisione di Halloran sotto l’unico lampadario acceso e soprattutto al piccolo Danny che può sfuggire al padre, che si fa luce con una lampada, solo nascondendosi nell’ombra della notte. La sceneggiatura intesse una serie di parallelismi tesi a esaltare l’Hoverlook come grande labirinto degli orrori caratterizzando ogni ambiente come la materializzazione del represso, ( non è un caso se il labirinto di siepi fuori l’Hoverlook, invenzione di Kubrick assente nel romanzo, intesse un parallelismo, condividendo la stessa etimologia, con l’arma usata da Jack ormai impazzito: “Làbris ).

ShiningL’Hotel può emergere come il vero protagonista grazie al sapiente uso dei mezzi tecnici: l’operatore Garrett Brown proprio in questo film poté utilizzare (dopo i suoi precedenti prototipi alla fine degli anni Settanta) la steadycam di sua invenzione con risultati drammatici che raggiungono l’apice proprio nella fuga del piccolo Danny.

La steady riesce a far avvertire il perturbante dei vasti ambienti come nella scena cult in cui Danny li attraversa sul triciclo. Il rumore delle ruote che cambia col cambiare delle superfici scandisce i passaggi da stanza a stanza. Ogni ambiente, inquadrato dal basso, sembra grandissimo e potenzialmente ostile. La visione che ha Danny, delle due bambine assassinate dal precedente custode, rimanda ( ulteriore esempio della complessità comunicativa del film che agisce su più livelli ) a una celebre foto di Diane Arbus radicata nell’immaginario degli anni Sessanta-Settanta e molto legata al concetto di perturbante ( Identical twins del 1967 ).

L’orchestrazione di tutti questi livelli comunicativi si fonda anche sui due interpreti principali: Jack Nicholson e Shelley Duvall. Nicholson che nel solo 1975 ha lavorato in due capolavori d’autore come Qualcuno volò sul nido del cuculo di Milos Forman e Professione reporter di Michelangelo Antonioni è perfetto nel far avvertire, anche nella calma apparente, una follia repressa che si esalta nell’estrema deformazione della  sua mimica e della sua corporeità sopra le righe e allo stesso tempo si armonizzata sapientemente con la regia di Kubrick.

L’ironia omicida di Nicholson ha il suo contraltare nella preda: Shelley Duvall (Nashville di Robert Altman, 1975; Io e Annie di Woody Allen, 1977) in una prova recitativa che la coinvolge fisicamente e mentalmente. la sua progressiva presa di coscienza (che ha il culmine nella famosa scena de “il mattino ha l’oro in bocca” ), Il senso di impotenza inerme che trasmette anche nello stringere un pugnale, Il suo volto contratto in urli espressionistici mentre tenta di fuggire all’ascia di Jack, sono parte integrante di una costruzione organica creata da Stanley Kubrick dove la parte e il tutto vanno ben oltre la semplice realizzazione di un film horror.

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