Gli Ultimi saranno ultimi: recensione del film

Gli Ultimi saranno ultimi

Massimiliano Bruno torna a dirigere Paola Cortellesi a quattro anni da Nessuno mi può giudicare e porta al cinema Gli Ultimi saranno ultimi, lo spettacolo teatrale che già era valso all’attrice numerosi premi.

 

Gli Ultimi saranno ultimi Bruno lascia la commedia pura per virare verso il dramma, raccontando di Luciana (Paola Cortellesi), lavoratrice precaria che perde il lavoro quando rimane incinta di un figlio tanto atteso assieme al marito Stefano (Alessandro Gassmann). La situazione esaspera i problemi di una vita già difficile, accanto a un compagno sfaccendato e infantile, seppure tenero e affettuoso, in un piccolo paese vicino Roma funestato dall’inquinamento elettromagnetico. Luciana si appoggia agli amici di sempre e a Stefano. Ma quando anche chi le sta intorno la ferisce, lasciandola sola, lei, prima mite e remissiva, reagisce e reclama i suoi diritti.

Gli Ultimi saranno ultimi, il film

Il lavoro rende con naturalezza e spontaneità la vita quotidiana, la sua fatica e semplicità, ma ne sfrutta anche gli aspetti comicamente surreali, con toni che richiamano le commedie corali di Mazzacurati – cui lo legano idealmente alcune tracce, come il tema degli ultimi, lo sguardo sulla provincia, la presenza di Fabrizio Bentivoglio nei panni di Antonio, poliziotto del Nord – Est, e perfino le sedie… in cui Stefano ripone tanta speranza.

Gli Ultimi saranno ultimi sa far arrivare le emozioni: difficile non immedesimarsi in Luciana, nella sua rabbiosa reazione e desiderio di rivalsa, dopo una vita trascorsa ad incassare in silenzio (lo stesso, in un certo senso, fanno tutti e tre i personaggi citati). Ciò, grazie a un’intensissima Paola Cortellesi, ma anche alle interpretazioni di Gassmann, nei panni del cialtrone monicelliano, e Bentivoglio, qui codardo e sfortunato, roso dai sensi di colpa. Attori nel pieno di una maturità artistica di cui lo spettatore non può che gioire, attorniati da un cast ben assortito.

Tuttavia, a questo cinema appassionato che Bruno, a ragione, incentra su un tema forte (molti quelli secondari) manca ancora qualcosa. Quel salto di qualità che il regista cerca a questo punto della carriera richiederebbe, ad esempio, più continuità nella sceneggiatura, che ha invece alti e bassi. Molte battute efficaci e meditate, momenti autentici, la metafora ben condotta del bambino con la pistola giocattolo, che affianca il percorso di Luciana – e sembrano nati assieme al pezzo degli Afterhours che li accompagna. Ma anche scelte poco felici: a partire dall’uso della narrazione in flashback, funzionale a creare tensione dal principio e l’aspettativa di una catastrofe, a farla crescere, deludendola poi in favore di una soluzione consolatoria su tutti i fronti.

Non il solo passaggio poco plausibile della sceneggiatura di Bruno e Paola Cortellesi, con Furio Andreotti e Gianni Corsi. La regia, poi, non ha ancora trovato una cifra davvero propria. Vi sono buoni e originali spunti, riferimenti ben metabolizzati, ma si cede ancora, in più punti, alla tentazione delle soluzioni facili, della retorica, delle inquadrature scontate e superflue. Un passo in una nuova direzione, che promette molto bene, ma per ora mantiene solo in parte.

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