Cold Skin – La creatura di Atlantide: la spiegazione del finale del film

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Cold Skin – La creatura di Atlantide è un film del 2017 diretto da Xavier Gens che mescola elementi di horror, fantascienza e thriller psicologico in un contesto atmosferico e desolato (similmente a quanto poi fatto, con le ovvie differenze, da The Lighthouse). Ambientato su un’isola remota e spazzata dai venti nell’Atlantico del Sud, il film si inserisce nel solco della tradizione del “survival horror”, con una narrazione claustrofobica in cui il protagonista deve affrontare non solo mostruose creature anfibie ma anche i propri limiti psicologici e morali. Il film si ispira all’omonimo romanzo di Albert Sánchez Piñol, noto per la sua capacità di fondere introspezione umana e horror lovecraftiano.

Una delle particolarità più evidenti dell’opera è l’equilibrio tra introspezione esistenziale e tensione fisica. Cold Skin – La creatura di Atlantide non si limita infatti a proporre lo scontro tra uomo e mostro, ma riflette anche sulla solitudine, sull’alienazione e sul bisogno di connessione. La creatura anfibia, interpretata con grande sensibilità fisica da Aura Garrido, è al centro di un rapporto ambiguo e disturbante che sfida le categorie classiche del bene e del male. Il paesaggio selvaggio dell’isola, con il suo faro inospitale e il mare in tempesta, contribuisce infine a creare un’atmosfera rarefatta e inquieta che avvolge l’intera vicenda.

Dietro le suggestioni visive e i momenti di puro terrore, Cold Skin – La creatura di Atlantide si nutre anche di antiche leggende legate agli abissi marini e agli incontri con specie sconosciute. Temi cari alla narrativa fantastica e al mito di Atlantide si intrecciano con una riflessione sulla brutalità coloniale, la paura del diverso e la capacità (o l’incapacità) dell’essere umano di accettare ciò che non comprende. Nei prossimi paragrafi, analizzeremo nel dettaglio il significato del finale del film, cercando di capire cosa accade realmente sull’isola e come il protagonista evolve nel suo rapporto con le creature e con se stesso.

David Oakes e Aura Garrido in Cold Skin - La creatura di Atlantide
David Oakes e Aura Garrido in Cold Skin – La creatura di Atlantide

La trama di Cold Skin – La creatura di Atlantide

Il racconto prende il via nell’anno 1914, poco dopo l’assassinio di Francesco Ferdinando e il conseguente scoppio della Prima guerra mondiale. In una remota isola del Circolo Artico fa il suo arrivo Friend (David Oakes), ex combattente dell’IRA incaricato di risiedere lì per un anno, con il compito di registrare e misurare gli eventi atmosferici. Costretto a vivere in solitudine in una terra remota fino all’arrivo del successivo osservatore meteorologico, il giovane irlandese si ritrova bloccato su un’isola abitata da ostili creature anfibie provenienti dal mare.

Per dodici mesi l’uomo trascorre così le giornate all’interno della cabina di un faro, dove si trova il vecchio guardiano Gruner (Ray Stevenson), un folle e solitario ufficiale accompagnato da una misteriosa creatura di nome Aneris (Aura Garrido), trattata come animale da compagnia. Forse è proprio quest’ultima il motivo del conflitto nato tra le strane creature e gli esseri umani. Più Friend cercherà di andare alla scoperta dietro la natura di queste misteriose creature, più porterà alla luce un antico segreto che si rivelerà estremamente pericoloso.

La spiegazione del finale del film

Nelle sequenze finali di Cold Skin – La creatura di Atlantide, il protagonista decide di restare sull’isola dopo che la sua missione di un anno giunge al termine. La nave che dovrebbe portarlo via attracca brevemente, ma lui rifiuta l’opportunità di lasciare quel luogo ostile, preferendo restare accanto alla creatura anfibia Aneris. Questa scelta rappresenta un netto distacco dalla sua condizione iniziale di studioso razionale e isolato, segnando una trasformazione profonda nel suo modo di percepire il mondo, il diverso e se stesso. Parallelamente, Gruner, il vecchio guardiano del faro, muore durante un attacco delle creature marine, lasciando definitivamente al protagonista il compito di decidere cosa fare del proprio futuro.

Ray Stevenson in Cold Skin - La creatura di Atlantide
Ray Stevenson in Cold Skin – La creatura di Atlantide

Il momento culminante arriva quando l’osservatore decide di non combattere più le creature, ma di convivere pacificamente con esse. L’ultima scena lo mostra seduto nel faro, ora guardiano a sua volta, mentre osserva Aneris allontanarsi nel mare. I ruoli si sono ribaltati: dove un tempo c’era paura, ora c’è accettazione; dove regnava la guerra, ora c’è una fragile tregua. La decisione del protagonista non è dettata da rassegnazione, ma da una rinnovata consapevolezza, frutto della convivenza con ciò che inizialmente percepiva come mostruoso. Non viene fornita una chiusura netta o rassicurante, ma piuttosto una nuova condizione di equilibrio tra umani e creature anfibie, lasciando al pubblico il compito di interpretarne la tenuta nel tempo.

Il significato del finale è strettamente legato ai temi centrali del film: la paura dell’ignoto, il confine tra civiltà e barbarie, la natura mutevole dell’umanità. Il protagonista attraversa un processo di trasformazione che lo porta a mettere in discussione le convenzioni sociali, morali e persino biologiche. Rifiuta la violenza cieca rappresentata da Gruner e abbraccia un’esistenza fatta di comprensione e rispetto, anche verso chi è radicalmente diverso da lui. L’amicizia, l’empatia e la convivenza diventano le nuove armi contro l’orrore, suggerendo che la vera salvezza non è nella fuga o nella distruzione del nemico, ma nell’accettazione della complessità dell’altro.

In questo senso, Cold Skin – La creatura di Atlantide si rivela un racconto allegorico sul colonialismo, sull’identità e sull’umanizzazione del “diverso”. Il protagonista sceglie di non tornare nel mondo civilizzato perché ha scoperto una nuova verità sull’umanità: ciò che temiamo e attacchiamo spesso è solo il riflesso della nostra ignoranza. Il suo gesto finale – restare sull’isola – non è un atto di rinuncia, ma una forma di resistenza silenziosa a una civiltà che preferisce distruggere ciò che non capisce. Un finale malinconico e potente, che lascia spazio alla riflessione sulla natura dell’uomo e sulla possibilità di evolvere verso una convivenza più profonda e sincera.

Gianmaria Cataldo
Gianmaria Cataldo
Laureato con lode in Storia e Critica del Cinema alla Sapienza e iscritto all’Ordine dei Giornalisti del Lazio come giornalista pubblicista. Dal 2018 collabora con Cinefilos.it, assumendo nel 2023 il ruolo di Caporedattore. È autore di saggi critici sul cinema pubblicati dalla casa editrice Bakemono Lab.
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