Copenhagen Cowboy recensione serie tv netflix
Magnus Jønk Nordenhof - Courtesy of Netflix

Ci sono registi che non hanno paura della serialità nè delle nuove modalità di fruizione offerte dai servizi streaming. Il potenziale di perenne accessibilità di queste piattaforme sembra aver donato nuova linfa all’estro creativo di Nicholas Winding Refn – mai spentosi veramente – che torna, dopo Too Old To Die Young, ad approcciarsi a una nuova idea di sodalizio audiovisivo: quello con Netflix, che distribuirà la sua nuova serie Copenhagen Cowboy e quello con una fetta di pubblico che continua a seguire il regista e aspettava con trepidazione il suo approdo alla Mostra del Cinema di Venezia 2022.

 

La Danimarca è il nuovo campo di battaglia

La trama di Copenhagen Cowboy segue la giovane ed enigmatica eroina Miu. Dopo una vita di servitù e sull’orlo di un nuovo inizio, Miu (Angela Bundalovic) attraversa l’inquietante paesaggio del mondo criminale di Copenhagen. Alla ricerca di giustizia e di vendetta, incontra la sua nemesi, Rakel (Lola Corfixen), e si imbarcano in un’odissea attraverso il naturale e il soprannaturale. Il passato finisce per trasformare e definire il loro futuro, mentre le due donne scoprono di non essere sole, di essere molte.

Con Coppenhagen Cowboy, Refn torna a casa, nella sua Danimarca, ma lo fa partendo dai bassifondi, o meglio, una loro rielaborazione paradossalmente mitizzata. Spacciatori, assassini e trafficanti d’armi innervano la capitale danese di una violenza spiazzante, che stride con l’eleganza e l’afflato sovrannaturale incardinato dalle giovani ragazze prigioniere di questo labirinto infernale. Quest’ambientazione in cui tutto ciò che è illecito trova concretezza è la base perfetta per una trama in cui ambizione, avidità e inganno si fondono per consegnarci un dramma shakesperiano ultramoderno. In fondo, se Shakespeare scrivesse oggi, non scriverebbe di famiglie reali, ma di crimini, ha dichiarato Refn in conferenza stampa.

Copenhagen Cowboy serie tv
Magnus Jønk Nordenhof – Courtesy of Netflix

Miu: il primo fiore di Refn

Refn mette a punto una narrazione seriale che ha come fondamento il viaggio dell’eroe e gli archetipi favolistici, ma è la contrapposizione tra reale e irreale a seguire la sua protagonista in divenire. Copenhagen Cowboy è un western, ma anche una favola noir: il risultato di una commistione di generi che scatenano una reazione spontanea non solo nello spettatore, ma anche nel regista e nella sua protagonista, tra cui si instaura un sodalizio dialogico basato sulla sinuosità della cinepresa e sull’estensione linguistica che ne diviene il corpo di Miu: non a caso, l’attrice Angela Bundalovic ha un passato da ballerina.

Il tipico protagonista silenzioso e solitario di Refn – a cui ci siamo affezionati soprattutto con Drive – in questo caso è Miu, una ragazza di 19 anni che si addentra nella malavita di Copenhagen e che, come tanti eroi del Western, sembra non avere una backstory. Miu non conosce passato, ma vive nel presente, è una figura esile e intoccabile che è passata di mano in mano, ritenuta un sarcofago di verità assolute, sfruttata per la sua presunta abilità di portare fortuna ed esaudire i desideri che non attecchiscono nella vita reale.

Miu è l’evoluzione in scala grande di tutti i protagonisti di Refn, che assume connotazioni femminili plurime, poi sviscerate tramite il confronto con molteplici variazioni del femminile che troverà lungo la via: villain, comprimarie, potenziali amiche, alla stregua di una narrazione da cinecomic. Miu non è tanto una personalità, non le si attribuiscono parole: si lascia che esista e la si segue, accompagnandone la ricerca dei molti significati che risiedono nella sua interiorità. Il suo linguaggio viene dal silenzio, dall’immobilità: Miu non usa le parole, ma la musica, i colori e le luci – abbracciando pienamente le inquadrature musicali di Refn – per parlarci. Non saremo noi a trovare Miu, sarà lei a venire da noi.

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Magnus Jønk Nordenhof – Courtesy of Netflix

Copenhagen Cowboy: il potere del silenzio

Il potere metafisico della femminilità, sublimato dai virtuosismi tecnici e fotografici di Refn, trova in Copenhagen Cowboy una completezza inedita, forte di un’ambientazione che è specchio naturale del pericolo e dell’inganno, delle fantasie oscure che si celano dietro a ogni variazione della femminilità mostrataci da Refn.

Miu è come un angelo caduto brutalmente in terra, personalità enigmatica di una giovane donna approdata in questo mondo, ma non per scelta sua. Se nel corso della storia inizia a capire di più su ciò che è, parte del merito va alla meravigliosa Angela Bundalovic, che archivia nella sua fisicità tutti gli abusi subiti da Miu, un crescendo tensivo che non trova fine se non nell’esplosione enfatica di un corpo che balla, prima ancora di parlare.

Come ogni buona protagonista che si rispetti, Miu è particolarmente interessante perchè ha una nemesi: Rakel, interpretata dalla figlia di Refn, che – a differenza di Miu – proviene da una pseudofamiglia, ma è ugualmente apprezzata e sfruttuta nei limiti della sua utilità per gli altri. L’unico momento in cui Miu reagisce emotivamente a qualcosa è proprio quando Rakel fa sentire la sua presenza: intuiamo che c’è qualcosa di molto profondo tra di loro e che, nelle future stagioni, potrebbero percorrere strade parallele. L’energia di entrambi i personaggi è stata rinchiusa e confinata fino al loro incontro: un’inizio, più che una resa dei conti, un’unione rabbiosa che non fa che confermare quanto Refn lavori bene sui personaggi femminili, da dopo The Neon Demon.

L’avventura di Miu in Copenhagen Cowboy cerca di trovare una strada tra le luci al neon di Refn, per poi essere soffocata dall’angosciante synth di Cliff Martinez, tracce musicali così rimbombanti da rischiare di minare ulteriormente la bussola morale di Miu. Eppure, proprio quando tutto sta per esplodere, Refn ricorda agli spettatori che ci sono pochi registi così bravi a manipolare la tensione e ritorcerla in un istante: così si disvela il segreto di Miu, manifestando che la poesia del cinema sta nel silenzio e nell’immobilità, non nell’accelerazione sfrenata e nella ricerca continua di parole e significati.

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RASSEGNA PANORAMICA
Agnese Albertini
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