Negli anni del secondo Dopoguerra, le bambine si dilettavano in un solo modo: con i bambolotti. Davano loro da mangiare, li cullavano e portavano nel passeggino. L’unica proiezione che potevano avere di se da grandi era come madri. Qualcosa, però, nel sistema non funzionava. Perché dovevano essere solo quello? Perché non potevano avere qualcosa di più glamour e divertente con cui passare il tempo? Gli anni Sessanta americani, come ben sappiamo, pur essendo stati un decennio di grandi rivoluzioni e assestamenti, sia socio-culturali che politici, in questo senso non avevano ancora fatto alcun progresso. È in questo periodo di svolte che si inserisce Ruth Handler, imprenditrice e cofondatrice della Mattel, la quale sceglie di contribuire al cambiamento in corso (in tal caso sociale) ideando Barbie, una bambola adulta che usciva fuori dagli schemi (anche di pensiero) ritenuti “consoni” per l’epoca, allora ignara che sarebbe diventata il giocattolo più desiderato e usato da intere generazioni.
Tutto partì da sua figlia Barbara, da cui prende il nome il giocattolo, la quale era solita giocare con sagome di attrici ritagliate dai giornali, manifestando un bisogno di volersi intrattenere con qualcosa di diverso, che non la confinasse nel solo ruolo di “madre” come accadeva con i bambolotti. Handler, grazie a lei, capì così che erano dei riferimenti al sesso femminili a mancare a quello specifico mercato, e questa mancanza contribuiva a soffocare l’immaginazione delle bambine. Tale situazione era però specchio della condizione sociale della donna che, in quel preciso contesto storico, era ancora ingabbiata nell’etichetta di moglie e madre, con poche possibilità lavorative e molta fatica a imporsi nella società.
Le origini di Barbie
Ruth, a quel punto, decise di dare una scossa a questo concetto estremamente patriarcale e anacronistico, ponendosi l’obiettivo di introdurre nel mondo dei giocattoli qualcosa di più sfacciato e inedito per gli usi dell’epoca. La prima Barbie debuttò nel ’59 e, seppur all’inizio non fu accolta nel migliore dei modi, riuscì nell’intento per cui – sotto sotto – era stata realizzata: diventare un vero e proprio simbolo femminista, un giocattolo moderno – che poi diventò un mito – volto a rappresentare in primis la libertà, l’emancipazione e le mille sfumature femminili. Nata inizialmente bruna con un costume zebrato, Barbie è stata in seguito soggetta a modifiche, prima di trasformarsi nella biondissima bambola – riferimento estetico e trasposizione di sé e dei propri desideri di tutte le bambine del mondo – che oggi noi conosciamo e amiamo.
Partendo dunque dal significato insito della Barbie (pur essendo stata oggetto di mille controversie riguardo l’aver imposto un’idea di perfezione irraggiungibile), non sembra essere un caso che Greta Gerwig – il cui percorso artistico e registico si fonda proprio sull’emancipazione femminile, la ricerca del proprio posto nel mondo e la ribellione al patriarcato – abbia deciso di continuare tali discorsi (iniziato con Lady Bird e Piccole Donne), con Barbie, offrendo una chiave di lettura originale sulla famosa bambola della Mattel. La regista, al suo terzo film, alza così l’asticella drammaturgico/satirica del racconto, compiendo una riflessione sociologica della nostra realtà, andando a colpire l’ancora non completamente colmato gap di genere, i contesti maschilisti e l’imposizione di un canone di bellezza (e perfezione) inesistente ma preponderante.
Barbie, due facce della stessa medaglia
Tenendo come saldo riferimento della narrazione le ragioni per cui è stata creata Barbie, la regista apre il suo film con la scena (già mostrata nel primo teaser trailer) che omaggia 2001: Odissea nello spazio, dove alle bambine costrette a giocare con soli bambolotti viene introdotta la prima Barbie, il cui arrivo permette di poter avere accesso ad ogni possibilità fino a quel momento negata. Comincia allora il film, con la voce narrante di Helen Mirren che ci introduce alla rivoluzione portata dalla Barbie, che nel tempo si è continuamente trasformata includendo sempre nuove caratteristiche, da quelle estetiche fino al campo delle professioni. Ecco allora non più solo Barbie stereotipo (interpretata da Margot Robbie nel film), ma anche Barbie dottoressa, Barbie presidentessa, Barbie avvocata, Barbie scienziata, Barbie giornalista, Barbie poetessa, Barbie premio Nobel e così via, alla scoperta di un campionario potenzialmente infinito.
L’intento è chiaro: ogni tipologia di Barbie esistente sembra automaticamente permettere l’emancipazione di una bambina e donna nel mondo reale. Ma è davvero così? Questo è quello che credono le Barbie, ma nonostante le loro buone intenzioni la Gerwig arriva ben presto al punto del discorso proposto dal suo film: la realtà è tutt’altro che rosea e ci sono almeno due facce della stessa medaglia. Se da un lato è indubbio che la Barbie abbia rappresentato – e rappresenti ancor di più oggi – un tentativo di contributo all’inclusività e allo sdoganamento di determinati aspetti; dall’altro ha anche coadiuvato la diffusione di stereotipi, prevalentemente estetici, che hanno marciato contro quello stesso progresso di cui la Barbie si fa promotrice.
Nel film tutto ciò è esplicitato nel momento in cui la protagonista giunge nel mondo reale e si imbatte in situazioni che fino a quel momento le erano inconcepibili: sguardi maliziosi, battute lesive della dignità, assenza di donne in ruoli di rilievo, fino allo scontro con la giovane Sasha (Ariana Greenblatt), che massacra verbalmente la protagonista sbattendole in faccia tutti gli aspetti più negativi portati dalle Barbie nel tempo. La regista spinge dunque la bambola a fare esperienza delle situazioni tipo con cui ogni bambina o donna può scontrarsi nel corso della propria vita. C’è la consapevolezza di non poter offrire una vera e propria soluzione a queste problematiche, ma aver permesso a Barbie – e agli spettatori con lei – di conoscere la verità sull’universo (attraverso la metafora della Birkenstock) rappresenta un già significativo primo passo verso una presa di consapevolezza imprescindibile.
Uno sguardo al futuro
Il film della Gerwig si svela dunque essere l’occasione per raccontare la nostra società contemporanea attraverso un oggetto, la bambola Barbie, che ha contribuito alla sua formazione tanto nel bene quanto nel male. Così facendo, la regista compie anche un atto coraggioso: oltre mette in rilievo il contrasto della Barbie in quanto bambola e, nello specifico, il suo valore storico legato a doppio giro alla storia di ogni donna, madre e figlia, si impegna a sottolineare quanto lavoro nel nostro tessuto sociale e umano ci sia ancora da fare, nonostante l’evoluzione e il progresso.
E che, se anche una bambola idealmente “vergine da corruzioni, inganni e pregiudizi” si modifica una volta entrata a contatto con il mondo vero, significa che il tempo di cambiare rotta è ora, perché siamo già molto in ritardo. È davvero questo il nostro presente? E se il presente è così, come sarà il futuro? Queste sono le domande che emergono e si enfatizzano nell’universo colorato e scintillante di Barbie. Allora potrebbe annidarsi qui il vero senso del film: farci riflettere su ciò che è per farci immaginare ciò che sarà se non interveniamo adesso. Ricordandoci, nel frattempo, che niente è perfetto, neanche ciò che sembra tale (come può essere Barbieland), ma che la perfezione, in realtà, è l’imperfezione, la quale determina l’unicità di tutti noi.
Di Valeria Maiolino e Gianmaria Cataldo