Marco Tullio Giordana e il cast di Romanzo di una strage ci raccontano come Piazza Fontana cambiò la storia

C’è una vasta rappresentanza del cast assieme al regista Marco Tullio Giordana a spiegare ai giornalisti modi e motivi  di Romanzo di una strage, che porta la strage di Piazza Fontana al cinema 43 anni dopo quel 12 dicembre 1969. A spiegare ragioni e intenti dell’opera, al cinema Adriano di Roma oltre al regista intervengono i produttori Riccardo Tozzi (Cattleya) e Paolo Del Brocco (Rai Cinema), gli sceneggiatori Stefano Rulli e Sandro Petraglia e un nutrito gruppo di attori.

 

La scelta del titolo Romanzo di una strage mi sembra una dichiarazione di consonanza di Giordana col modo di guardare il mondo di Pier Paolo Pasolini, è significativa di un percorso, qui del tutto cinematografico e non documentaristico.

Marco Tullio Giordana: “Se si è cineasti, bisogna fare i conti soprattutto col cinema (…). Si dovrebbe pensar sempre di fare i conti col grande cinema esemplare. Romanzo di una strage perché evoca il titolo di quel bellissimo intervento di Pasolini del ’74 sul Corriere della Sera, poi raccolto negli Scritti Corsari con questo titolo (Il romanzo delle stragi ndr). Pasolini (…) scrive: “io so (…) ma non ho le prove”. Ecco, dopo 40 anni noi abbiamo  le prove e possiamo fare i nomi, è giusto farli. Inoltre, come mi faceva osservare Fabrizio Gifuni (che nel film è Aldo Moro ndr), possiamo dire: “oggi noi sappiamo”, che è più forte che dire “io so” (…). Se una tragedia come quella di Piazza Fontana e la sua spiegazione entra a far parte del dna, della cultura di un popolo, esattamente come la nozione di Risorgimento, (…) che rievoca in noi un sentimento, che è la nostra appartenenza, la nostra radice, allora Piazza Fontana non può, nel male, essere qualcosa di sconosciuto, solo un punto di domanda.“ Giordana chiarisce poi a chi si rivolge il film: “Penso soprattutto ai ragazzi più giovani, ai quali il film è rivolto. Chi non sa nulla e non è aiutato dalla scuola, né dai propri genitori che forse ricordano a fatica quegli anni  o sono schiavi dei pregiudizi di allora, ripetuti come una coazione o un mantra, ha il diritto di sapere. Un film serve un po’ a questo: a creare il sentimento forte di un avvenimento, a spiegarlo con gli strumenti dell’arte.” Il che, spiega, è ancor più necessario, oggi che mancano intelligenze acute come quella pasoliniana, in grado di decriptare gli accadimenti, specie ad uso dei più giovani: “diventa anche un dovere per chi fa cinema e crede nel cinema (e fa bene a crederci perché le forze per fare un bel cinema ci sono ancora)”. Pasolini va seguito dunque, come “esempio di applicazione della propria intelligenza che dev’essere poetica prima che politica, perché la politica purtroppo è molto restrittiva nel suo sguardo (…), mentre l’arte ha uno sguardo (…) capace di toccare il cuore delle persone, perché un’informazione che non è agganciata a un’emozione non si attacca, si disperde

Riguardo lo sforzo produttivo messo in opera Riccardo Tozzi di Cattleya parla di “qualità straordinaria di realizzazione”, di “grande apparato produttivo” e dice, “questo è un film fatto a stato di arte (…). Bisogna mantenere le condizioni per poter fare questi film, anche perché noi vogliamo farne altri”.

Paolo Del Brocco di Rai Cinema si dice orgoglioso di un lavoro che “è importante per gli italiani andare a vedere” e afferma “Ci siamo posti due domande fondamentali per decidere di farlo: serve? Sì. (…) Se non lo fa la Rai, Rai Cinema, chi lo deve fare?”.

Il dialogo tra Moro e Saragat è documentato o invece lo avete creato e come? Sulla tesi delle due bombe, che riscontri ci sono, quanto è possibile che la verità sia realmente questa?

Stefano Rulli: “Quella di Piazza Fontana è la storia di troppe verità e sentenze che si sono sovrapposte. “Romanzo” è anche questo: riuscire a capire qual è il filo, il senso di alcuni sprazzi di verità, (…), capire come tutti i pezzi riescono a trovare un senso. Trovarlo anche attraverso degli indizi che però ci  sono, non è un’opera di fantasia. (…) Alle spalle della scena tra Saragat e Moro c’è un ampio lavoro di documentazione che rimanda ad alcuni libri, in particolare uno dello storico Fulvio Bellini, che (…) dà una versione di quei fatti attraverso lo sguardo dei servizi segreti inglesi, allora in conflitto con quelli americani, che hanno fornito ai servizi italiani molte informazioni. Rispetto al ruolo di Saragat c’è stata una posizione molto critica degli inglesi. (…) Addirittura da parte loro c’era l’idea che si pensasse a un possibile colpo di stato in Italia. La critica a Saragat era sul tentativo di ricostruire un ordine in questo paese attraverso una riforma costituzionale che sarebbe stata piuttosto pesante, drammatica. (…) D’altra parte, l’atteggiamento di Moro: cercare di vivere questa tragedia tentando di evitare che diventi ancora più generale, che questa verità indicibile possa trasformarsi in qualcosa che crei una spaccatura nel Paese, risponde un po’ alle filosofie di questi due politici. La ricostruzione del dialogo parte da alcuni dati di realtà, ma soprattutto ricostruisce il senso del ruolo che quei due personaggi storici hanno avuto allora nella storia di Piazza Fontana. Sulle due bombe, il libro di Paolo Cucchiarelli ha avviato un lavoro di ricerca, documentando (…) il fatto che le bombe dovrebbero proprio essere due.” E cita alcuni elementi contenuti sia nel libro che nel film che avvalorano questa tesi: “ci sono dettagli e perizie balistiche, (…) soprattutto, (…) esiste una miccia accanto al timer, la cui esistenza i giornali riportano all’indomani della strage (…), mentre questa scompare poi non solo dai materiali della perizia, ma anche dalla prima ricostruzione che il perito fa. Aveva detto che c’era la miccia, mentre nella prima perizia essa scompare.” Tutto questo, dice, ha reso assai più difficile l’accertamento della verità.

A Favino e a Mastandrea, che lavoro avete fatto sui personaggi? Cosa sapevate? Cosa vi ha lasciato?

Pierfrancesco Favino: “Conoscevo la vicenda di Pinelli per passione di lettura, conoscevo quello che era accaduto a Piazza Fontana, sono del ’69, (…) avevo 41 anni quando l’ho fatto ed era l’età in cui è morto Pinelli, una famiglia con delle figlie. Ci sono una serie di cose che banalmente mi avvicinano. In più, sono sempre molto attratto dalle storie che hanno a che fare con la giustizia e con l’ingiustizia. (…) Sono molto toccato dalla vicenda di questa persona”. Parla poi della scelta fatta nella chiave interpretativa da dare al personaggio, assieme al regista: “Non abbiamo voluto farne un agnello sacrificale, Pinelli balbettava (…), aveva probabilmente un’energia meno sanguigna di quella che Marco Tullio m’ha suggerito, che però secondo me dà una lettura ancora più onesta dei fatti.” Si dice orgoglioso di averlo fatto e di aver compreso “l’importanza di raccontare oggi un momento storico che non ho vissuto così, ma (…) Marco Tullio mi ha detto una cosa che mi ha fatto molto pensare: probabilmente dal dopoguerra al ’69 l’ipotesi di  una democrazia c’era, che gli individui si sentissero parte di un progetto comune – la costruzione di un paese (…) –  portato avanti con la stessa trasparenza dai  propri governanti. Ma è stata interrotta bruscamente. Quindi noi non abbiamo mai avuto esperienza di essere individui in un paese nel quale credevamo. Quando si dice “innocenza interrotta”, penso che questo sia molto importante. Quando si dice “la verità esiste”, penso che sia un auspicio, che si possa richiederla”. Mi piacerebbe che i 17enni di oggi che vedono il film, potessero pensare che (quella suscitata dalla strage di Piazza Fontana) sia stata in qualche modo una sensazione vicina a quella che può aver dato l’11 settembre, (…) credo che l’Italia abbia vissuto quello stesso tipo di shock all’epoca”.

Valerio Mastandrea: “Non sono entrato in contatto con la famiglia di Calabresi, un po’ per pudore, un po’ perché più che andare a fondo”, oltre cioè quanto già detto nel film ,“su chi era Calabresi prima della morte di Pinelli e (…) dopo, pensavo fosse necessario e più interessante liberarmi personalmente da un pensiero moderno, di oggi, che sicuramente è anche figlio di Piazza Fontana. È incredibile come Piazza Fontana sia vicina”. Soprattutto, dice, “è vicino il senso d’impunità che ha lasciato quell’episodio” e chiarisce: “Anche oggi possiamo assistere a fatti sicuramente meno gravi, o che usano altri metodi, ma il senso di impunità accompagna la storia di questo paese in maniera quasi ossessiva. (…) Il lavoro è stato molto complesso, sicuramente il più difficile che ho fatto finora e non è finito con la fine del film, continua per me, è un discorso che ho aperto con me stesso”.

Come mai il cinema italiano ha dovuto aspettare 43 anni per fare un film su Piazza Fontana?

M. T. G.: “Io personalmente non l’avrei saputo fare prima, perché ho dovuto liberarmi di molte idee ricevute, pregiudizi anche difensivi (…). Su Piazza Fontana è stato poi fatto un lavoro di disinformazione e depistaggio terribile all’epoca, in cui sono cadute vittime consapevoli e non: i grandi giornali d’opinione d’allora”. Tra le poche eccezioni, il regista menziona “la straordinaria figura di Marco Nozza, un cronista de Il  Giorno, che per me e nel film rappresenta quello di cui c’è necessità: un’informazione che (…)  consuma le scarpe e non legge veline o comunicati. (…) Senza di loro non avremmo capito tante cose (…). Ho dovuto aspettare anche una certa maturità artistica (…) per poter imparare a mettermi nei panni di tutti. Soprattutto se si raccontano dei personaggi controversi, si deve avere una capacità shakespeariana di entrare dentro di loro” perché, chiarisce, l’arte, al contrario della politica, “è analitica, scava, si mette nei panni del carnefice e della vittima (…), ti tocca e ti commuove proprio per questo suo sguardo ad ampio spettro”.

A proposito della scena dell’interrogatorio di Pinelli, che lascia un po’ perplesso chi all’epoca c’era ed è cresciuto con queste storie, come l’avete ricostruita? Quante domande vi siete fatti? Siete sicuri che nella questura di Milano, a ridosso delle bombe, un anarchico veniva interrogato con tanto rispetto e grazia?

M. T. G.: “Posso rispondere io perché non sono stato interrogato in quell’occasione, ma sono stato interrogato dal commissario Calabresi. Avevo occupato il mio liceo, il Berchet, quindi venne a pizzicarci (…) e ci fece una ramanzina. A me colpì molto questo commissario che aveva l’età di mio fratello maggiore, quest’impermeabile bianco, dei modi molto cortesi. Era laureato, sapeva tutto di Bakunin, Marx (…), un intellettuale. Dopo ne avrei visti tanti di poliziotti, ma lui era veramente una mosca bianca”. E riguardo agli interrogatori della questura milanese prosegue: “quando c’era Calabresi non volavano gli schiaffi, come volavano quando usciva dalla stanza. Basta vedere i film americani, anche lì c’è il poliziotto buono e il poliziotto cattivo. La ricostruzione esatta di quello che è successo nella stanza di Pinelli io non la posso fare perché non ero lì. Però quelli che erano nella stanza sono tutti morti, tranne una persona: il tenente dei carabinieri, Savino Lograno. (…) Lui può dire cosa è successo. Io posso fare delle supposizioni che credo molto verosimili e che mi fanno capire che certo Pinelli non si è suicidato. Certo non è stato per sbaglio che uno vicino alla finestra cade a corpo morto (…). Quindi credo che, uscito dalla stanza Calabresi, sia arrivato qualche ceffone (…) in più, che non ci deve essere” e ricorda che Pinelli era trattenuto in questura illegalmente da tre giorni, senza mangiare o bere, che la ringhiera era molto bassa, e dunque, dice, è plausibile  che sia caduto fuori dalla finestra. “Cosa che”, aggiunge, “non credo volessero gli uomini della questura. (…) Dall’edificio prospiciente si poteva vedere tutto quello che avveniva alla finestra di Calabresi. Non credo che potessero voler buttare giù un anarchico. È successo un pasticcio. Sarebbe stato meglio che la questura lo dicesse, (…) invece di cominciare a mentire”. Giordana individua in quel momento, non tanto nella strage stessa – che pure definisce “orribile” – la rottura del patto sociale su cui si fondava la nostra democrazia: “pensare che gli uffici che dovevano indagare sulla strage cominciano a mentire è ciò che ha distrutto la cosiddetta innocenza, verginità o ingenuità di chi poteva credere nella democrazia”. Una “somma di menzogne orribili e ripetute da tutti i giornali tranne Il Giorno, che ha reso l’opinione pubblica totalmente incredula”, un “veleno, poi finito tutto addosso a Calabresi”, alla cui responsabilità diretta non crede: “Siccome le testimonianze erano concordi nel dire che Calabresi non era nella stanza, e non sono mai venute meno (…), allora poteva voler dire solo due cose: o che Calabresi era lì e (Pinelli) l’aveva buttato lui e dovevano coprirlo, (…) oppure che non c’era, come credo io e come mostro nel film”.

Le immagini dell’autunno caldo di Milano mi hanno ricordato moltissimo a livello iconografico quelle, purtroppo molto più recenti, di Genova. Ci sono molte analogie secondo me nel film e negli eventi tra allora e l’oggi,  sono volute?

M. T. G.: “In quel caso io ho ricostruito una mia esperienza personale, perché ero lì, a quella manifestazione in cui morì il poliziotto Annarumma, (…) scrissero tutti i giornali che Annarumma fu ucciso da un tubo Innocenti scagliato da un manifestante, ma il tubo (…) non è facilmente trasportabile, quindi sarà rimasto lì. Perché non è mai stato repertato? Perché non è mai stato aperto un fascicolo contro ignoti?”.

V. M.: “Credo ci siano molte analogie con quello che è successo lì (a Genova ndr), prima durante e dopo. Mi sembra che il meccanismo sia sempre lo stesso, ma non è quello che mette paura. È che l’esito è sempre lo stesso. Prima parlavo d’impunità. È quella la cosa che continua a tenere la gente lontana (…) dall’approfondire, dal voler cercare di capire. Ma è compito del cinema e dell’arte (…) quello di allargare gli orizzonti. Di fronte a tanta monotonia, a tante cose che  non cambiano, l’unica cosa che cambia siamo noi. Ognuno di noi oggi ha una telecamera addosso, può fare un film in qualsiasi situazione. Cambiando quello strumento di partecipazione (…), probabilmente si accorciano i tempi,  ed è per questo che magari a fare un film su quell’episodio lì ci hanno messo meno di quarant’anni”.

A Gifuni, il suo Moro, mi ha colpito molto. In particolare, com’è stato ricostruito il discorso con cui inizia il film? È stato tratto dalle lettere?

Fabrizio Gifuni: “Credo che la prima scena in cui compare Moro sia frutto di una straordinaria invenzione degli sceneggiatori”. Rulli e Petraglia confermano. “Non è tratta dalle lettere, a differenza dell’altro materiale su cui c’è un’ampia documentazione storica, che va semplicemente incrociata. Anche l’incontro con Saragat, particolarmente importante all’interno del film, è frutto dell’incrocio tra varie fonti (…). Ad esempio una fonte inconfutabile sono le parole testuali di Moro, contenute (…) nella parte  di memoriale ritrovato la seconda volta a Via Monte Nevoso (che non è l’intero memoriale). Lì Moro dice: “Non ho creduto neanche per un istante alla pista anarchica”. L’incontro fra Moro e Saragat è documentabile, anche se fu raccontato come un incontro formale per gli auguri di Natale. (…) Su Moro avevo già lavorato per mio conto e per mia passione. Anche per il lavoro che faccio in teatro da attore e da drammaturgo ho un rapporto abbastanza vicino con la storia del mio paese. Ci sono poi due cose che dal punto di vista della pratica attoriale mi hanno aiutato (…). Sono un attore che generalmente si prepara molto, entro un po’ in uno stato monacale (…). Invece questa volta ho fatto esattamente l’opposto (…). Erano i primi mesi di occupazione al Teatro Valle e passavo tutto il mio tempo lì, quindi andavo dal Valle direttamente sul set. Credo che aver spezzato questa logica monacale mi abbia fatto bene.” L’altro aiuto è arrivato dai costumi di scena: “Mi hanno mandato a preparare le camicie di Moro da un vecchio camiciaio  (…) che mi è stato molto utile perché aveva fatto lui le camicie per Moro e quel collo della camicia sempre di due centimetri più largo, in cui il collo di Moro pencolava, dando alla sua testa sempre quest’angolazione sbilenca mi è stato molto più utile di tanti libri letti”.

A Giordana e a Mastandrea, immagino abbiate letto l’intervista di Calabresi ieri sul Corriere della Sera. Per quanto riguarda Giordana, Calabresi parla di una “nebulosa oscura” lasciata dalla pellicola, “invece la verità storica fino a Moro c’è, sappiamo chi è stato e perché”. Invece del personaggio interpretato da Mastandrea, dice che non ha riconosciuto il padre perché il padre sdrammatizzava spesso, sorrideva, cosa che manca nel film.

M. T. G.: “Penso che a Mario Calabresi manca suo padre e non lo può ritrovare in nessun film” e perciò definisce il suo un “giudizio che non può essere sereno”. Ciò nonostante, prosegue: “ha riconosciuto al film quello che è del film, il suo coraggio nel rompere dei luoghi comuni. (…). Prendo i complimenti che mi ha fatto Mario Calabresi come qualcosa di prezioso per il film. (…) ”. E sulla scelta di lasciare da parte la vita personale della famiglia Calabresi dice: “Non ho inserito cose che la signora Calabresi mi ha detto sulla loro vita privata, anche per rispetto, perché penso siano cose (…) della loro famiglia, nella quale non mi devo permettere di entrare”.

V. M.: “Non l’ho vista come una polemica, (…) mi è sembrata una critica al film anche da un punto di vista tecnico, quindi anche interessante. Non c’era spazio per più scene dentro casa dove poteva venir fuori anche quell’aspetto. È stato privilegiato un percorso di questo personaggio, che era più a contatto col proprio tormento interiore subito dopo la vicenda di Pinelli, piuttosto che il resto”.

Petraglia spiega di aver tenuto presente in fase di scrittura quanto gli aveva detto lo stesso Mario Calabresi in un incontro di due anni fa, cioè che “si sentiva imbarazzato all’idea di vedersi rappresentato piccolo, nel suo ambiente domestico, col padre, la madre, un po’ come in una fiction televisiva” e perciò non aveva ceduto i diritti del libro che aveva scritto su suo padre. “Noi ci siamo ricordati di questo. (…) La decisione che abbiamo preso insieme era di non fare nulla di domestico, se non ciò che era strettamente necessario”.

Teme che il film possa essere considerato di parte o ideologico?

M. T. G.: “Nessun timore. Mi sembra la cosa più lontana dalla partigianeria, intesa come sopraffazione della verità, e dall’ideologia, che mi risulta defunta fin dagli anni ’50”.

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