E’ disponibile nelle sale italiane Black Parthenope, film che segna l’esordio alla regia di Alessandro Giglioli ed ambientato interamente nella Napoli Sotterranea.
L’abisso partenopeo
Nella caotica città di Napoli, c’è un luogo silenzioso vecchio di 3000 anni: la vasta città sotterranea. Cécile, giovane imprenditrice francese, è in città per la costruzione di parcheggi nel sottosuolo. Scesa nelle viscere della città con Yanis e Greta, suoi collaboratori, il tecnico Gianni ed Antonio, proprietario delle cave, incontrerà Gennaro, storica guida del posto, contrario al progetto. Imprigionata con gli altri sottoterra, tra morti violente e antiche vestigia, Cécile, dovrà trovare un’uscita. Una figura incappucciata la segue. Un essere reale o lo spirito del luogo?
Da una location fortemente ispirata come la labirintica Napoli sotterranea, si va definendo una storia priva di una trama organica, che spinge verso i confini di genere senza mai riuscire ad appropriarsene veramente. Black Parthenope vuole abitare lo spazio narrativo di opere abissali, il cui punto di non ritorno corrisponde solitamente alle pieghe più contorte e celate dell’animo umano, concretizzate da protagonisti che devono confrontarsi con l’estensione caratteriale dei cunicoli che li circondano.
Alla ricerca dell’horror
Si dovrebbe dunque partire da una caratterizzazione ottimale del gruppo di protagonisti, atta ad identificare le diverse motivazioni e ideologie in contrasto, tra chi vorrebbe modernizzare il senso di una città e fare i propri interessi, e chi ritiene che così facendo si andrebbe a profanare non solo un luogo, ma l’onore di un intero nucleo di cittadini.
Purtroppo, Black Parthenope non rispecchia energia sufficiente tra registi e attori per poter confezionare un horror italiano, come vorrebbe presentarsi il progetto. La componente di genere scivola tra le nostre dita a suon di jump scares premeditati, figli della tradizione horror che ottiene buoni risultati in sala ma non altrettanto dal punto di vista qualitativo. L’italianità del progetto è invece incontrovertibilmente messa a repentaglio da soluzioni di doppiaggio e gestione linguistica non ottimali, che non riescono a conferire verosimiglianza a un gruppo di personaggi già di per se mal assortito, impossibilitato nel relazionarsi l’uno con l’altro e neanche contro l’altro, per conferire dinamicità alla storia.
Riprendendo gli stilemi del genere, da The Descent (2005) al più recente Necropolis – La città dei morti (2014), Black Pathenope vuole riscoprire la grande memoria popolare di una specifica area geografica, la città sotterranea, che ancora incanta milioni di visitatori, grazie alle leggende che sono sorte in quel contesto e vivono dell’immaginario popolare, prima fra tutte la mitica storia del Monaciello. L’antico “pozzaro”, che porta con sé il proprio passato e lo patisce irrimediabilmente, è descritto come “genius loci” del sottosuolo di Napoli, la cui natura, sia essa buona o maligna, inquieta e perseguita i protagonisti del film.
Due “Monacielli” a confronto
L’idea di una minaccia in bilico tra il fisico e il trascendentale avrebbe funzionato perfettamente nello scardinare le convinzioni dei protagonisti di Black Parthenope e, in ultima istanza, fornire loro una nuova consapevolezza. Al contrario, l’unico viaggio coerente sembra essere quello di Cécile, che passa da un carattere dispotico e anaffettivo a un nuovo punto di vista sulle proprie emozioni e sul suo rapporto con l’autorità. Tuttavia, le motivazioni, il modo di agire e lo stesso background di Cécile, terribilmente ostacolato dalla figura paterna, mai mostrata nel corso del film ma che sentenzia e impartisce ordini da dietro la cornetta, rispecchia quasi in toto quello della protagonista di Necropolis, Scarlett Marlowe.
In conclusione, Black Parthenope fatica a trovare la propria identità non solo all’interno del cinema di genere ma anche dell’attuale industria produttiva italiana. Dopo che Paolo Sorrentino è riuscito a raccontarci Napoli con una delicata ed incisiva emotività, filtrata dagli occhi del giovane Fabietto Schisa (Filippo Scotti) in E’ stata la mano di Dio, è impossibile non pensare, e di conseguenza elevare, il Monaciello che guida l’immaginazione di Zia Patrizia (Luisa Ranieri), e che continuerà a vivere nel nostro immaginario, rispetto a un Monaciello utilizzato come puro figurante, in una caccia al thriller che cancella ogni tentativo di sperimentazione narrativa.