Come pecore in mezzo ai lupi, la recensione del crime di Lyda Patitucci

La regista di Curon dirige Isabella Ragonese e Andrea Arcangeli

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Continua – e felicemente – la collaborazione di Lyda Patitucci con Matteo Rovere e la sua Groenlandia, almeno a vedere il Come pecore in mezzo ai lupi dal 13 luglio nelle sale distribuito da Fandango. Già regista di seconda unità, specializzata in scene d’azione, in film Veloce come il vento e Il Primo Re (ma anche nei vari Smetto quando voglio e la serie Vostro onore), la ferrarese dietro la macchina da presa di Curon passa al lungometraggio vero e proprio per chiudere un cerchio aperto molto tempo fa. E ci regala un crime a tinte forti con una durissima Isabella Ragonese e un Andrea Arcangeli sempre più lontano dal Baggio de Il Divin Codino.

 

Come pecore in mezzo ai lupi, tutto in famiglia

Lei è Vera, agente di polizia sotto copertura sulle tracce di una banda internazionale di criminali serbi. Isolata da tutto e impermeabile a ogni possibile emozione o affetto, la corazza costruita in anni di solitudine viene messa a rischio da un incontro che potrebbe vanificare tutti gli sforzi fatti fino a quel punto. Quello con Bruno, suo fratello minore, che dopo un matrimonio fallito, con la instabile madre di sua figlia Marta, ormai ha solo la bambina come ragione di vita.

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Lui, da poco uscito di prigione, fa coppia fissa con un partner che lo trascina in un colpo troppo più grande di loro, proprio quello che stanno organizzando gli slavi. Il comune doloroso passato familiare, che ancora tiene legati i due fratelli al padre predicatore e anaffettivo (un magnetico Tommaso Ragno), continua a fare da collante, e nonostante le vecchie ferite e la paura di essere scoperti, il desiderio di qualcosa di più – o di poter cambiare per sempre la propria vita e il destino che sembrava essere segnato – dà loro forza. Anche se le scelte davanti alle quali si troveranno metteranno a dura prova il raggiungimento dei reciproci obiettivi.

Final Girl all’italiana

L’esperienza maturata sui set citati, come anche la professionalità nella coreografia e organizzazione di sequenze spesso molto affollate, sono evidenti anche in un film che sceglie di rinunciare alle scene d’azione tipiche del crime che avrebbe potuto essere per puntare su altro. Ed è probabile che proprio la possibilità di confrontarsi con un aspetto complementare a quelli tanti praticati sia quello che ha attratto Patitucci nella sceneggiatura di Filippo Gravino (La terra dei figli, Il Primo Re) che Matteo Rovere le aveva proposto.

Come pecore in mezzo ai lupiQuella di un poliziesco moderno, ambientato in una Roma criminale diversa e soprattutto con una donna tanto dura nel suo lavoro quanto sempre a un passo dal crollo definitivo. Ma le ferite personali, i fallimenti sentimentali o familiari, restano accenni, ché al centro della storia stavolta troviamo il rapporto con il fratello. Che pur condividendo molti di quei traumi, non ha nulla dell’apparente solidità della sorella.

Entrambi sembrano rinnegare ogni legame col passato, nella speranza di poter avere un futuro, ed è sulla continua oscillazione tra la possibilità e la disperazione che si crea la tensione di Come pecore in mezzo ai lupi, un film asciutto ed essenziale come molte delle scenografie e delle location scelte, dalle case dove nessuno sembra vivere ai marmi del cimitero e dell’architettura fascista dell’EUR. La direzione degli attori è perfettamente coerente con il contesto creato, un pregio che non sempre il cinema italiano sfoggia, soprattutto quello ‘di genere’, il ritorno del quale sembra ormai una realtà grazie anche e proprio a film come questo.

Nella quale anche l’importanza di una tale protagonista femminile (spesso definita “unica” non senza retorica e con poco tatto nei confronti del Bruno di Arcangeli) è evidente senza aver bisogno di esser sottolineata. E si inserisce in un intreccio la forza del quale sono tutti i personaggi, nessuno escluso. Oltre alla coerenza data al risultato finale da quella che qualcuno già chiama la ‘Kathryn Bigelow italiana’ – attualmente al lavoro sul prossimo

Obliquo 616 – e che forse ha fatto bene ad aspettare questa storia per esordire come regista, senza nulla togliere alla Mila del fumetto di Mirko Giacchetti che avrebbe dovuto adattare quando sembrava che il suo debutto sarebbe stato quello anticipato dal pitch trailer datato 2013, al quale però non seguì lo sviluppo di un lungometraggio.

Sommario

L'esperienza maturata sui set citati, come anche la professionalità nella coreografia e organizzazione di sequenze spesso molto affollate, sono evidenti anche in un film che sceglie di rinunciare alle scene d'azione tipiche del crime che avrebbe potuto essere per puntare su altro.
Mattia Pasquini
Mattia Pasquini
Nato sullo scioglimento dei Beatles e la sconfitta messicana nella finale di Coppa del Mondo, ha fortunosamente trovato uno sfogo intellettuale e creativo al trauma tenendosi in equilibrio tra scienza e umanismo. Appassionato di matematica, dopo gli studi in Letterature Comparate finisce a parlare di cinema per professione e a girare le sale di mezzo mondo. Direttore della prima rivista di cinema online in Italia, autore televisivo, giornalista On Air e sul web sin dal 1996 con scritti, discettazioni e cortometraggi animati (anche in concorso al Festival di Cannes), dopo aver vissuto a New York e a Madrid oggi vive a Roma. Almeno fino a che la sua passione per la streetart, la subacquea, animali, natura e ogni manifestazione dell'ingegno umano non lo trascinerà altrove.

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