Per analizzare al meglio El Jockey, il nuovo film di Luis Ortega in Concorso all’81esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, possiamo iniziare da Luigi Pirandello e il suo concetto di maschere. Queste rappresentano le molteplici identità che ogni individuo adotta per vivere e integrarsi nella società, ma non sempre la maschera che si indossa, o in cui ci si è trasformati, ci soddisfa. Quando la crisi esistenziale bussa alla porta, l’unica via d’uscita sembra essere la liberazione da quell’identità costruita nel tempo, per evitare l’autodistruzione e ricominciare d’accapo. “Morire per rinascere”, come afferma Abril a Remo in El Jockey, è il cuore pulsante dell’intera pellicola, tema cardine che funge da apertura e chiusura di una storia destinata, però, a ripetersi all’infinito.
Scritto a sei mani dal regista insieme a Rodolfo Palacios e Fabián Casas, il film offre una potente riflessione sull’importanza di cercare il proprio io, anche a costo di trasformarsi profondamente, esplorando il bisogno di spogliarsi di quelle identità imposte dalla vita, quegli abiti che, col tempo, smettono di calzare a pennello, soffocandoci. Nel cast spiccano l’argentino Nahuel Pérez Biscayart, premiato come Migliore promessa maschile ai César 2018, e Úrsula Corberó, che dopo il successo de La Casa di Carta è riuscita a guadagnarsi nuovi ruoli di valore, impedendo così di rimanere impigliata nel solo personaggio di Tokyo.
El Jockey, la trama
Remo Manfredini è un fantino di grande successo, acclamato da tutti e considerato la carta vincente di Sirena, un gangster e imprenditore che gestisce la scuderia per cui Remo gareggia. Se sul piano delle performance Remo è imbattibile, il suo animo è tutt’altro che saldo. Ed è proprio questo che lo conduce in una spirale autodistruttiva, segnale di un crollo imminente, il quale si manifesta in tutta la sua drammaticità il giorno della gara più importante della sua carriera—quella che potrebbe liberarlo dai debiti. L’incidente che subisce durante la competizione, invece di segnare la fine, si trasforma però in un’opportunità: dall’ospedale in cui viene ricoverato, Remo fugge, determinato a cercare il suo vero io.
Cercare se stessi, cersarsi in altre vite
I novantasette minuti di El Jockey si fanno sentire intensamente. Fin dalle prime inquadrature, il film ci immerge nella vita di Remo, intrappolato in un’identità che non gli appartiene. Questo dramma surreale, ricco di metafore e simboli, dipinge il ritratto di un uomo che vede nel suo incidente un’opportunità irripetibile: abbandonare il vecchio sé per esplorare nuove versioni di sé stesso, nella speranza di trovare la libertà. Libertà, soprattutto, dal dolore profondo generato da una frattura interiore che non sa come sanare.
La fuga dall’ospedale, con indosso un cappotto e una borsa da donna, segna il punto di svolta in un’esistenza ormai al collasso, che solo una trasformazione radicale può salvare. Il peso che lo ha consumato e logorato ha un nome: Sirena, il gangster a capo della scuderia per cui lavora. È proprio quando Remo inizia a distaccarsi dalle dinamiche del mondo equestre e, soprattutto, dalla mafia che gli ruota attorno, che ritrova forza e determinazione. Si sente così leggero che persino una bilancia non registra più il suo peso, che ritorna solo quando gli scagnozzi di Sirena salgono con lui: una metafora tagliente di una società che tiene tutti in una morsa spietata.
El Jockey ci dice dunque che combattere per riconquistare sé stessi è possibile, sia sperimentando nuove sfaccettature della propria personalità, sia riscoprendo versioni passate di chi eravamo, o riprendendo il filo da dove si era spezzato. Nonostante ciò, questo processo è ciclico, perché prima o poi sentiremo di nuovo il bisogno di cambiare. È una spirale infinita, parte integrante dell’essere umani. Il film ci suggerisce così che la continua scoperta di sé non si interrompe nemmeno con la morte, perché c’è sempre una rinascita. E il gioco ricomincia. Ma non per questo bisogna smettere di farlo.