Everything Everywhere All At Once: recensione del film con Michelle Yeoh

Everything Everywhere All At Once, film dei The Daniels con Michelle Yeoh, Key Huy Quan e Stephanie Hsu protagonisti.

Everything Everywhere All At Once recensione film
Photo credit: Allyson Riggs - Courtesy of A24

Prima di arrivare – finalmente – in Italia, Everything Everywhere All At Once del duo registico The Daniels è stato il film dei record negli Stati Uniti. Presentato in anteprima al South by SouthWest, ha superato la soglia dei 100 milioni di dollari in tutto il mondo, diventando il primo film indipendente dopo la pandemia e nella storia dell’A24 – che si è occupata della sua produzione e distribuzione – a riuscirci. È diventato il film con la media più alta di sempre su Letterbox, app social incentrata sulla condivisione di opinioni per i film, sorpassando Parasite di Bong Joon-ho che, fino ad allora, deteneva il record di 4.6/5 di media.

 

Si è presentato inoltre al pubblico come primo film in cui figura un cast di attori protagonisti “all-asian“, conferendo a Michelle Yeoh il ruolo di attrice protagonista (ha sempre avuto ruoli da comprimaria, anche se è quasi impossibile crederci) e riportando in scena dopo ben 30 anni di assenza dagli schermi Ke Huy Quan, lo Short Round di Indiana Jones e il Tempio Maledetto e Data dei Goonies.

Una nuova frontiera del cinema indipendente

La trama di Everything Everywhere All at Once segue Evelyn Wang (Yeoh), una donna che annaspa sotto lo stress della lavanderia a gettoni in fallimento della sua famiglia, del suo matrimonio in crisi con Waymond (Ke Huy Quan) e dell’anziano padre (James Hong) che disapprova le sue scelte di vita. Ma è il crescente divario tra Evelyn e sua figlia Joy (Stephanie Hsu) che minaccia di disfare il tessuto della sua esistenza, almeno fino a quando la donna scopre di essere solo una delle molteplici versioni di Evelyn presenti nel Multiverso – e l’unica che può salvarlo. Il film, che arriverà nelle nostre sale dal 6 ottobre 2022, è stato prodotto dai fratelli Russo.

Con Everything Everywhere All At Once gli eclettici Daniels sono riusciti a sfruttare un budget di appena 25 milioni di dollari per realizzare un vero e proprio kolossal d’autore e dare vita a una personalissima idea di Multiverso, in cui l’incontro di altre versioni del sè è funzionale al ristabilirsi di un dialogo famigliare totalmente offuscato dalla frenesia quotidiana. Ci troviamo di fronte a un film unico nel suo genere, rivoluzionario, delirante nella sua struttura narrativa e con un cast praticamente perfetto per come deve adeguarsi ad ogni singolo cambio di registro.

Incredibile a dirsi, ma il film è stato girato in una singola location; tutto il budget a disposizione è stato utilizzato per esplorare mondi paralleli ma a cui è stata data conformazione visiva in un semplice capannone abbandonato. Il livello di creatività dei Daniels è alle stelle in Everything Everywhere All At Once, percepiamo chiaramente l’urgenza creativa di un duo che si era già fatto notare per la regia di coloratissimi video musicali e per Swiss Army Man (2016), in cui avevano già inglobato in una cornice fantastica il racconto di un’amicizia grottesca ma paradossalmente tenerissima.

Everything Everywhere All At Once film recensione
Michelle Yeoh, Jamie Lee Curtis Photo Credit: Allyson Riggs

Benvenuti nell’Evelyn-verso

Everything Everywhere All At Once è a tutti gli effetti un film sensoriale, in cui siamo chiamati ad attivare la nostra capacità di giudizio confrontandoci con ogni sperimentazione di reparto che ci viene proposta: gli effetti visivi, le transizioni, i volti che lasciano il segno; le battute precisissime che ci danno fin dall’inizio un’idea sommaria e poi totale di cosa può essere il Multiverso con le sue infinite potenzialità. Sfidando le leggi della probabilità, plausibilità e coerenza – parti fondamentali della costruzione di un mondo narrativo – i Daniels confezionano una storia in cui è la specificità della famiglia protagonista a trasferirci un senso di universalità, tramite l’esposizione di sensazioni e la messa in scena di circostanze in cui chiunque può riconoscersi.

Il Multiverso è nella quotidianità di Evelyn, Raymond e Joy, nella caoticità straziante di una famiglia che deve cercare di salvare un’attività in fallimento, un confronto dialogico mancante, pensieri che viaggiano a velocità elevata ma in menti diverse, senza mai riuscire a trovare un punto di incontro. Scelte di vita, potenziali cambi di rotta, molteplici “what if”, proiezioni siderali che portano ad una sensazione di benessere per poi rimpiombare nel caos che abbiamo creato noi stessi: tutto il film è ovunque e in molti momenti di un’esistenza che deve riprendere forma con i rinnovati legami familiari.

Impossibile non soffermarsi sulla performance esemplare di Michelle Yeoh in Everyhting Everywhere All At Once, che si è cimentata personalmente con gli stunt, confermandosi una meravigliosa star del cinema d’azione, ma non solo. Attraverso il personale viaggio di Evelyn nel Multiverso, tra la donna che era e che è diventata, riesce a consegnarci il ritratto a tutto tondo di una madre che deve mettersi costantemente in discussione, sospesa tra un retaggio che la costringe alla diligenza e al dovere, e un presente talmente fluido che le risulta impossibile trovare dei punti di appiglio, immersa com’è in una quotidianità miope, che ci domina con routine prestabilite, con compiti da assolvere e ruoli in cui siamo costretti a identificarci.

Un frame di Jobu Tupaki in Everything Everywhere All At Once
Stephanie Hsu Photo Credit: Allyson Riggs

La circolarità del bagel di Joy/Jobu

Il caos è sempre presente nella vita di Evelyn, ma assume carattere e forma visuale grazie alla creazione lungimirante di una villain che parla tanto alle giovani generazioni: Jobu Tupaki. Tutto ciò che è contenuto nella mente di una giovane creativa, variopinta, gioiosa ragazza ma contenuta in una gabbia di percezioni e pregiudizi esplode in maniera dirompente tramite questo personaggio. Così, Evelyn è costretta a rivedere e ricalibrare la propria opinione rispetto alla psicologia di una figlia che conosce a fondo ogni sfumatura di un mondo in costante cambiamento. Tra i mille universi di Everything Everywhere All At Once inizia a propagarsi uno scontro diretto fra vecchio e nuovo, fra realtà vissuta dagli adulti e fantasie generate dalla nostra generazione o a quelle dopo la nostra. Il Multiverso è la resa dei conti per Jobu, un tentativo di trasferimento di conoscenze e significati a chi ci sembra abbia vissuto in un tempo lontano, scevro dalle molteplici possibilità legate alle nostre abilità o alla sensibilità con cui vorremmo metterci in gioco, ma che spesso siamo costretti a occultare, soprattutto con chi ci sta più vicino.

Non bisogna smettere di respirare, perché nel Multiverso non si è mai soli. Certo, siamo inseguiti da una temibilissima villain, potremmo perdere tutto da un momento all’altro – professionalmente ed emotivamente – eppure ci rendiamo conto che in nessuna dimensione del Multiverso dobbiamo caricarci il peso di mille domande solo sulle nostre spalle. Siamo costantemente alla ricerca dell’altro, di chi potrà vedere e capire cosa abbiamo affidato al nostro Everything Bagel, commistione delle voci che sembrano distanti ma che provengono dalla nostra coscienza, paure che si concretizzano in un senso di ribellione ancorato ad un buco nero che risucchia qualsiasi imperfezione.

Il Bagel è un cerchio perfetto, che sta sulla testa di Jobu, narratrice onniscente del multiverso, ed è conformazione geometrica ultima di un simbolo che torna ripetutamente nel film: dall’oblò delle sfilze di lavatrici in lavanderia, passando per i Google Eyes, l’angosciante cerchio nero con cui Jamie Lee Curtis sottolinea su carta tutto ciò che i Wang devono all’Agenzia delle Entrate, fino allo specchio di casa Wang, che racchiude simbolicamente uno dei frame più memorabili del film: mamma, papà e figlia insieme, a suggellare come questo sia – prima di tutto – un film sulla circolarità, anche simbolica, delle unioni famigliari e dei viaggi che siamo portati a compiere insieme.

È proprio attraverso il movimento, questo dialogo multiversale tra individui, generi cinematografici e comparti tecnici, che il cinema indipendente compie un salto potentissimo, mostrandosi vigorosamente in tutte le sue possibilità produttive, come una Evelyn Wang pronta a saltare da una dimensione all’altra per ricodarci che il cinema deve essere, soprattutto, condivisione.

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