Continua la pausa nella collaborazione artistica tra Joel ed Ethan Coen, un periodo che va avanti dal 2019 e che si arricchisce ora di un nuovo lungometraggio proprio del secondo dei due fratelli. Dopo aver “debuttato” da solista alla regia di un film di fiction nel 2024 con Drive-Away Dolls (qui la nostra recensione), arriva ora sul grande schermo il suo Honey Don’t, secondo capitolo di quella che Ethan Coen ha descritto come una “trilogia di film lesbici di serie B“. Dopo quel primo titolo uscito lo scorso anno, tanto stravagante e sconclusionato quanto divertente, il regista asciuga invece qui il proprio stile, perdendo però qualche pezzo strada.
In Honey Don’t non mancano infatti il gusto per il grottesco, l’umorismo nero, i personaggi sopra le righe e quel certo no sense che aggiunge un pizzico di gusto in più al tutto. Elementi propri del cinema dei Coen che ritroviamo anche in questo nuovo lavoro in solitaria di Ethan. Indubbio inoltre il talento del regista e di Tricia Cooke (co-sceneggiatrice e moglie di Coen) nel affondare le mani nel genere hard boiled. Ma nel proporre un racconto più contenuto, più “volutamente distratto” e meno incline ad improvvise esplosioni di assurdità o approfondimenti tematici, questo suo nuovo lungometraggio risulta un’occasione parzialmente mancata.
La trama di Honey Don’t
Honey O’Donahue (Margaret Qualley), giovane investigatrice privata, viene coinvolta in un caso che sembra un incidente ma nasconde una rete di segreti. La morte di Mia Novotny, che poco prima le aveva chiesto aiuto, porta Honey a indagare sul Tempio delle Quattro Vie, setta guidata dal carismatico e crudele reverendo Drew Devlin (Chris Evans), in realtà a capo di un traffico di droga. In questa pericolosa vicenda, Honey trova un’alleata ambigua nella detective MG Falcone (Aubrey Plaza), con cui intraprende anche una relazione sentimentale. Tra tradimenti, inseguimenti e scontri mortali, la verità metterà però a rischio la sua stessa vita.
Il cuore degli Stati Uniti
L’obiettivo di Ethan Coen e Tricia Cooke, come dichiarato durante le interviste di accompagnamento a Honey Don’t, era quello di ribaltare il ruolo della femme fatale, rendendo il personaggio di Margaret Qualley una donna pienamente in possesso delle capacità per risolvere le spinose situazioni in cui viene coinvolta. Ed è proprio così che ci viene presentata Honey O’Donahue, che passa da un incontro all’altro senza mai chiedere aiuto, cercando di ricostruire da sola il complesso puzzle composto da omicidi, depistaggi, sparizioni e doppiogiochisti. Condividendo il suo sguardo, facciamo così la conoscenza di una fauna umana che sembra voler replicare in piccolo le tante anime e contraddizioni degli Stati Uniti.
C’è il reverendo con il culto della propria personalità interpretato da Evans (sempre più convincente nei ruoli comici), il poliziotto svogliato e marpione, gli extracomunitari sfruttati per atti illeciti, e ancora giovani sostenitori di Trump e personalità fragili e influenzabili, che diventano portatrici di traumi che si ripercuotono lungo tutta la loro vita, influenzandone le azioni. Un campionario umano che ricorda quello di Fargo (capolavoro dei Coen) con cui il regista sembra attuare una certa critica a questi Stati Uniti così smarriti, divisi e privi di una direzione comune. Smarrimento che viene riproposto anche attraverso una trama che intraprende e abbandona di continuo più percorsi narrativi, rifuggendo dall’intenzionalità in favore della sconclusionatezza.
Seppure intenzionale – o almeno così viene da pensare – questo sfuggire continuamente all’approfondimento di determinate dinamiche porta inevitabilmente ad una certa disaffezione verso i personaggi e le loro vicende. Non c’è infatti tempo per indagare il loro vissuto, i loro traumi (tra i principali temi del film) e quando lo si fa, viene liquidato in poche battute. La conseguenza è una certa difficoltà a riconoscere nei protagonisti, o almeno in Honey, degli “amici”, come invece avveniva in modo più marcato in Drive-Away Dolls, dove ai personaggi di Margaret Qualley e Geraldine Viswanathan ci si affezionava irrimediabilmente. In mancanza di questo, in Honey Don’t si fatica purtroppo a trovare altri elementi memorabili e anche le cifre stilistiche di Coen appaiono più mansuete.
Molto fumo, poco arrosto
Il sentore che Honey Don’t possa essere meno incisivo di Drive-Away Dolls, d’altronde, lo si ha già nella scena d’apertura. Mentre in quest’ultimo si coniugavano brillantemente splatter e comicità, con il cameo di Pedro Pascal a rendere il tutto ancor più buffo, nel nuovo film ci troviamo invece davanti ad una situazione più “tranquilla”, che pur ponendo le basi per una detective story che promette numerosi colpi di scena, manca di quell’elemento vincente che catturi subito l’attenzione dello spettatore. Il film proseguirà così, proponendo una serie di gag che non vanno però da nessuna parte. Non aiuta una Aubrey Plaza sì alle prese con un personaggio molto comico e sensuale, ma sviluppato in un modo che non le permette di dimostrare il proprio talento.
La stessa Honey, detective distratta, risulta inoltre essere più in balia degli eventi di quanto vorrebbe far credere, non avendo così modo di raccontare di più di sé e del proprio vissuto. È anche quando riesce a strappare una risata, a suscitare un brivido di tensione o a rendere piccante la situazione, Honey Don’t passa rapidamente oltre, non riuscendo così – come si diceva in apertura – a lasciare qualche seme nello spettatore in grado di germogliare in un ricordo più duraturo di questa visione. Se ne esce invece con la sensazione di aver avuto solo alcuni sprazzi di un mondo potenzialmente affascinante, reso tale anche da personaggi che potevano avere le carte in regola per farsi ricordare ma che non vi riescono mai davvero.
Honey Don't
Sommario
Seppure presenti sprazzi di un contesto e personaggi potenzialmente affascinanti, Honey Don’t fatica a trovare una quadra, perdendosi tra le tante direzioni del racconto e risultando un’occasione parzialmente mancata.