Il bambino nascosto, recensione del film di Roberto Andò

Il film di Roberto Andò è stato scelto come evento di chiusura, Fuori Concorso, alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2021.

Il bambino nascosto

Roberto Andò torna a Venezia per il suo Il bambino nascosto, presentato fuori concorso alla 78esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Il regista viene da un’esperienza lunga quasi quanto la sua vita, che affonda le radici nel teatro, nella scrittura e, naturalmente, nella regia.

 

Già a metà degli anni 90 era iniziata la sua avventura con la Mostra al Lido di Venezia, dove aveva presentato  diversi documentari. Fino ad arrivare al 2018 quando porta Una storia senza nome, sempre fuori concorso. Nel corso di tutti quegli anni, si aggiudica una grande quantità di premi e candidature tra Nastri d’argento e David di Donatello. Un percorso professionale ricchissimo, dunque, quello di Andò, fatto anche di maestri e guide dai nomi altisonanti (da Leonardo Sciascia a Francesco Rosi, passando per Fellini e Harold Pinter), che contribuiscono alla sua formazione artistica, ai suoi interessi e allo stile che via via avrebbe raffinato nel tempo.

Il bambino nascosto, la storia

La storia de Il bambino nascosto è tratta da un suo stesso libro dal titolo omonimo, nel quale chiaramente ci sono tanti più dettagli di contorno rispetto al risultato finale scritto in sceneggiatura. Il film parla del professore Gabriele Santoro (Silvio Orlando) che insegna pianoforte al Conservatorio San Pietro a Majella e che un giorno, dentro casa propria, si trova un giovane sugli undici anni (Giuseppe Pirozzi) che riconosce essere il figlio di una coppia che vive nel suo palazzo (Imma Villa e Sasà Striano). Il tutto è ambientato a Napoli, in un quartiere popolare, in cui il maestro Santoro – così è come viene chiamato in zona – abita da diverso tempo, nonostante potrebbe permettersi di vivere in zone ben più ricche, ma al regista è proprio questo che vuole combinare.

La soddisfazione nel far confluire insieme mondi così tanto diversi è il flusso primario della corrente del film. Il desiderio di Andò è quello di mettere in scena due correnti dall’impeto opposto che si scontrano, ma che scatenano l’apertura verso la libertà, proprio quella che per vie legali non è ancora realizzabile a causa della mancanza di preparazione del nostro sistema giuridico.

Il bambino nascosto castIl piccolo e sfrontato Ciro, così si chiama il giovinetto che irrompe nella vita del professor Santoro, è dovuto fuggire dalla sua stessa famiglia a causa di una situazione non chiara, ma evidentemente molto grave, che ha combinato con un suo amichetto, e che ha scatenato le ire della Camorra.

Il bambino non ha protezione, se dovesse ritornare a casa sa che potrebbe essere ucciso, nonostante la sua sia ancora un’età in cui di morte e sparatorie non se ne dovrebbe capire nulla. Eppure tant’è. Il maestro è chiuso, intimidito, al limite dell’asociale. Ma forse è questa l’occasione che la sua personalità ripiegata in sé stava giusto aspettando per uscire all’aria aperta.

Un incontro tra due solitudini

Roberto Andò si appoggia completamente all’insolita coppia di attori nella strutturazione del progressivo sviluppo della storia. E sarebbe l’ideale in base a come l’idea originale è stata pensata, al modo in cui la trama viene tessuta su carta, nella scrittura del film. È evidente l’intento del regista-scrittore, così come dell’ausilio dello sceneggiatore Franco Marcoaldi: l’incontro dell’intellettuale un po’ burbero, reso legnoso dalla vita solitaria, si schiude davanti alla semplicità sfacciata e vitale del piccolo Ciro, finché l’uno salva l’altro.

Il problema è solo che la chimica e la sintonia interpretativa non sono così immediate e, tra l’altro, traspaiono da così tanti elementi che è praticamente impossibile recitarle, anche se parrebbe un paradosso.

Silvio Orlando e il giovane Giuseppe Pirozzi portano loro stessi e le loro reali fragilità davanti alla macchina da presa, e il gioco risulta efficace fintanto che è funzionale all’impaccio della prima parte del racconto. Ma quando si arriva al nocciolo della questione, la relazione vacilla e rimane la poca armonia. Per quanto sia innegabile la buona intenzione dell’autore.

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