La verità secondo Maureen K.: recensione del film con Isabelle Huppert

Jean Paul Salomè racconta la storia di una donna vittima di violenza, non solo fisica, con uno stile originale, tra crime, legale e denuncia sociale.

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A 63 anni sembrano decisamente lontani i tempi del Belfagor – Il fantasma del Louvre del 2001 con cui la maggior parte del pubblico italiano fece la conoscenza del parigino Jean Paul Salomè (La padrina). Che ritroviamo come regista del La verità secondo Maureen K., presentato in concorso nella Sezione Orizzonti di Venezia 2022 e finalmente distribuito nei cinema italiani, dal 21 settembre da I WONDER PICTURES in collaborazione con Unipol Biografilm Collection. Un dramma molto quotidiano – ispirato alla vera storia di Maureen Kearney raccontata nel libro “La Syndicaliste” di Caroline Michel-Aguirre – che grazie a una contenuta Isabelle Huppert riesce a raccontare una violenza, non solo fisica, con uno stile originale, tra crime, legale e denuncia sociale.

 

Maureen Kearney, sola contro tutti

È lei la protagonista, rappresentante sindacale della centrale nucleare di una multinazionale francese in difficoltà per l’arrivo di un nuovo responsabile. Con lui emergono trame segrete che potrebbero cambiare i rapporti di forza dell’intero settore e mettere a rischio 50.000 posti di lavoro, eventualità che la donna denuncia ritrovandosi sola contro tutti. Una storia vera, quella di Maureen Kearney, aggredita nella propria casa da uno sconosciuto che le incide una A (come Areva, la società nella quale lavora) sulla pancia e la lascia sconvolta. È solo l’inizio di una odissea legale nella quale è la vittima della violenza, sessuale e non solo, a essere messa sotto accusa dalle indagini, a non essere creduta, a essere sospettata.

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Una inquietante storia vera, fin troppo credibile

Più che in altri casi, il termine di Odissea si sposa bene con il viaggio faticoso, lungo e disseminato di ostacoli sempre nuovi della protagonista, ché la definizione di “thriller paranoico avvincente e contemporaneo” sembra riduttiva per quella che sappiamo essere una storia realmente accaduta. Soprattutto considerando lo stress emotivo vissuto, le umiliazioni subite, la frustrazione per l’impotenza patita che il film rende alla perfezione nel suo svolgersi.

Via via che emergono nuovi elementi, infatti, e che si affaccia l’ipotesi che la donna sia una mitomane pronta a tutto per raggiungere i propri scopi politici e professionali, il resto inizia a perdere di consistenza. Ovviamente con la complicità di inquirenti e polizia, in questo caso non servi del potere, ma – ancor più drammaticamente – abituati a schemi mentali e pregiudizi che Salomè mette a nudo, senza sottolinearli, rendendoli talmente evidenti da non sentirne il bisogno.

Il ritorno della Lettera Scarlatta

Al pubblico, la sua capacità di empatizzare con la “pessima” vittima che si rivela essere  Maureen, la sua sensibilità o abitudine a vedere il femminile in un certo modo, la possibilità di decodificare i tanti messaggi che una storia – vera, ricordiamolo – del genere porta con sé. Maschilismo strisciante, complottismo, critica sociale e gap generazionale sono ovunque, ma più che l’insistito e onnipresente tema del rovesciamento di vittima in imputata è interessante il concetto di “Buona vittima” al quale si fa riferimento a più riprese. Quella ineccepibile, per la quale addolorarsi oltre ogni possibile e ragionevole dubbio, o scrupolo di coscienza, ma anche la “Sitting Duck” del titolo inglese, un “bersaglio facile” diremmo noi…

Ed è ancora una ‘lettera scarlatta‘ a marchiare la protagonista di questo surreale, a tratti kafkiano, spy movie per il quale il regista ammette di aver pensato a Tutti gli uomini del presidente e Una squillo per l’ispettore Klute. Thriller politici nei quali – inevitabilmente, per cronologia – non si avvertiva così forte la disparità di genere. E tutto quel che spesso ne consegue, dalla tendenza a screditare l’altra (tirando fuori il classico Burnout, versione moderna di quel po’ di stress che non si nega a nessuno da decenni) ad accuse ancora più infamanti e gratuite. Alle quali si spera che sempre più donne, come la Hupper insegna, riusciranno a reagire con il desiderio di lottare per ripristinare una propria verità.

Sommario

Quella ineccepibile, per la quale addolorarsi oltre ogni possibile e ragionevole dubbio, o scrupolo di coscienza, ma anche la "Sitting Duck" del titolo inglese, un "bersaglio facile" diremmo noi...
Mattia Pasquini
Mattia Pasquini
Nato sullo scioglimento dei Beatles e la sconfitta messicana nella finale di Coppa del Mondo, ha fortunosamente trovato uno sfogo intellettuale e creativo al trauma tenendosi in equilibrio tra scienza e umanismo. Appassionato di matematica, dopo gli studi in Letterature Comparate finisce a parlare di cinema per professione e a girare le sale di mezzo mondo. Direttore della prima rivista di cinema online in Italia, autore televisivo, giornalista On Air e sul web sin dal 1996 con scritti, discettazioni e cortometraggi animati (anche in concorso al Festival di Cannes), dopo aver vissuto a New York e a Madrid oggi vive a Roma. Almeno fino a che la sua passione per la streetart, la subacquea, animali, natura e ogni manifestazione dell'ingegno umano non lo trascinerà altrove.

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