Dopo il sincero omaggio a Dante Alighieri e il malinconico La quattordicesima domenica del tempo ordinario, Pupi Avati torna a confrontarsi con il genere che ha segnato la sua carriera: l’horror gotico. Con L’orto americano, tratto dall’omonimo romanzo da lui stesso scritto, il regista bolognese confeziona un’opera densa di riferimenti letterari e cinematografici, in bilico tra la memoria storica e il perturbante.
La trama di L’orto americano
La storia segue un giovane aspirante scrittore bolognese (interpretato da Filippo Scotti) che, poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, si innamora perdutamente di una giovane infermiera americana incontrata per caso in una bottega di barbiere. Il loro fugace incontro segna l’inizio di un’ossessione amorosa che lo porterà fino in Iowa, dove il protagonista si trasferisce per scrivere il suo romanzo. Lì, accanto alla casa della ragazza, si trova uno strano orto abbandonato, nel quale rinviene una teca di vetro contenente i genitali di una donna e una criptica citazione del poeta greco Bacchilide. Da quel momento, il giovane si troverà invischiato in un inquietante mistero che lo costringerà a fare ritorno in Italia, dove l’orrore troverà la sua compiutezza.
L’orto americano riprende molte delle tematiche care ad Avati: la follia come varco tra il reale e il soprannaturale, la memoria storica come terreno fertile per l’orrore, il gotico padano come cifra stilistica inconfondibile. Il protagonista, segnato da un ricovero in un istituto psichiatrico perché sosteneva di parlare con i defunti, incarna un’umanità fragile e tormentata ma comunque aperta alla meraviglia e al richiamo dello extra-ordinario, anche lui porta d’accesso verso un mondo in cui si può trovare la pace solo nelle “vie di mezzo”, “tra l’acqua dolce del Po e il mare”. Un personaggio delicato e sfumato che Scotti ritrae con grande sensibilità.
Il bianco e nero: narrazione e esperimento
Visivamente, Avati compie una scelta audace adottando il bianco e nero, che conferisce al film un’estetica espressionista e sospesa nel tempo. Le atmosfere oniriche e inquietanti, arricchite da un sapiente uso delle ombre e delle inquadrature, rimandano ai maestri del gotico, da Mario Bava a Carl Theodor Dreyer e la scelta fotografica, un unicum nella carriera di Avati, segnala non solo un’esigenza legata al racconto ma anche una volontà di sperimentare viva e propositiva. La fotografia diventa fondamentale per amplificare il senso di straniamento e la tensione narrativa, sostenendo il costante contrasto tra lirismo e brutalità.
Uno degli aspetti più interessanti di L’orto americano è la sua natura metaforica che ripercorre una discesa agli inferi, un percorso di discesa nel lato oscuro dell’animo umano che richiama la tradizione dantesca (un ritorno!). Il protagonista si muove tra l’amore idealizzato e la crudele realtà della morte, tra il Midwest americano e la Bassa Padana, tra il mito dei testi classici e la cronaca nera. Un continuo ossimoro che trova un equilibrio perfetto in un racconto avvincente, oltre che ammaliante.
Con L’orto americano, Pupi Avati rappresenta ancora una volta quanto sia importante raccontare l’inspiegabile, firmando un film che si impone come uno dei suoi migliori lavori in assoluto. Un’esperienza cinematografica sospesa tra sogno e allucinazione, come quegli incubi confusi, che si dissipano al mattino, ma che lasciano un segno di sé sul cuore.
L’orto americano
Sommario
Un’esperienza cinematografica sospesa tra sogno e allucinazione, come quegli incubi confusi, che si dissipano al mattino, ma che lasciano un segno di sé sul cuore.