Sangue del mio Sangue

Qualche chilometro a nord est di Genova, quasi a metà strada con Piacenza, vi è un borgo fra i più caratteristici d’Italia, nell’alto medioevo centro nevralgico della cultura, della politica e della religione del tempo. Bobbio, città natale di Marco Bellocchio che ancora respira restituendo echi di ciò che fu, per diventare cuore pulsante di Sangue del Mio Sangue.

 

Un nodo temporale capace di collegare passato e presente, due dimensioni quasi parallele eppure con elementi comuni, che pongono l’uomo contemporaneo sotto la medesima luce oscurantista degli anni precedenti al 1000. Anni in cui Federico, un giovane uomo d’armi interpretato sullo schermo da Pier Giorgio Bellocchio, giunge alla prigione-convento del paesino romagnolo con il fine di riabilitare la memoria del fratello gemello Fabrizio. Ucciso dai sensi di colpa per aver tradito gli obblighi sacerdotali e aver ceduto alla bellezza di una suora, è condannato a una sepoltura in un luogo infame, vergognosa per l’intera famiglia.

Sangue del mio Sangue

Ha inizio per lo spettatore un viaggio infernale fra credenze popolari e religione militante, violenta, pronta a uccidere pur di smascherare il Demonio. Tutto sotto gli occhi attenti di un conte che dieci secoli dopo abita ancora quelle stanze, ormai in disuso, abbandonate, alla mercé di imbonitori e miliardari russi. Un vampiro, una creatura potenzialmente immortale, che conosce i peccati degli uomini e sa come ammaliarli. Bellocchio però non è Bram Stoker, è un artista che ha ormai il potere dell’anarchia e – come sua tradizione – di attaccare pesantemente istituzioni religiose e schemi sociali.

Nelle strade, oggigiorno, non si aggirano esseri succhia sangue in senso letterale, esistono però sanguisughe, vecchi incartapecoriti che pensano di possedere il mondo fra le dita, ordinamenti che nuotano fieramente contro la corrente del progresso tecnologico; senza accorgersi che il loro perseverare porta sul fondo del fiume tutto il Paese, costringendo le nuove generazioni solo a servire e riverire. Una critica feroce che rappresenta solo la punta di un iceberg, di un lavoro difficile che meriterebbe più di una visione per avere tutti i tasselli al posto giusto, ma che sa perfettamente cosa dire e come. Nonostante qualche falla strutturale e una parte contemporanea dal retrogusto televisivo, lo stile generale ha carattere ed energia da vendere, ma soprattutto appare sovversivo, indipendente, esattamente ciò che il pubblico affezionato vuole da uno degli autori italiani più importanti di sempre.

Tra i tanti volti allegorici che tornano costanti nelle sue opere, oltre al suddetto Pier Giorgio Bellocchio, un Roberto Herlitzka che gioca con le inquadrature come un ragazzino, ringiovanito nell’animo proprio come il suo surreale personaggio suggerisce, e un Filippo Timi nei calzoni comodi e larghi del giullare di corte. Commedianti di una rappresentazione fatta di contrasti, slegata e fuori le righe, destinata a dividere.

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