Sick of Myself: recensione del film di Kristoff Borgli

Body horror e satira pungente si uniscono in questo studio sul narcisismo dell'oggi.

Sick of Myself, una scena del film

Nessuno ci aveva preparato alla vittimizzazione come mezzo per costruire una nuova identità di successo. Tuttavia, basta un rapido sguardo a Instagram o TikTok per convincerci della certezza di questo assioma. Questo è il tema di fondo di Sick of Myself, film horror tanto esilarante all’esterno quanto putrido al suo interno, che arriva oggi nelle sale italiane dopo il passaggio nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes 2022.

Sick of Myself, la trama: horror vacui

L’opera prima di Kristoffer Borgli ci presenta Signe (Kristine Kujath Thorp, in un ruolo accessibile a pochissime attrici), una giovane donna che ha bisogno di essere al centro dell’attenzione. Questa peculiarità convive malamente con la ritrovata fama del suo ragazzo nel settore dell’arte contemporanea, un mondo che Borgli dipinge in modo spietato e divertente come la bolla speculativa e vacua che, ci lascia intendere, appare nella maggior parte dei casi. Signe desidera l’attenzione che lui riceve e, in maniera piuttosto distorta o “malata”, riprendendo il termine del titolo, si convince che il modo migliore per ottenerla sia sfigurarsi il viso – in un inquietante parallelismo con un incidente vissuto al bar dove lavora.

Sebbene la premessa ci faccia sprofondare nell’orrore corporeo e Sick of Myself sia in gran parte incentrato sulla repulsione di guardare un volto in decomposizione, Borgli è attento a controbilanciare questo azzardo con una regia e un montaggio estremamente eleganti, musica classica e una Oslo squisitamente fotografata che collega il film a una delle grandi sorprese norvegesi recenti, La persona peggiore del mondo – titolo che, tra l’altro – si adatta perfettamente a Signe.

La nuova persona peggiore del mondo

La fama, nell’era dei social media, di Internet e degli influencer disperati, dura sempre meno. L’arte, che un tempo poteva durare decenni, oggi è solo un altro effimero prodotto di consumo. Vediamo ogni giorno fino a che punto le persone possono sacrificare la propria intimità in cambio di fama e, per così dire, di potere: è una prigione di autostima in cui viviamo tutti rinchiusi. E Sick of myself riesce a racchiudere un sentimento unico del XXI secolo, tra filtri di Instagram e il fare di tutto per raggiungere il successo.

È curioso che Julie si considerasse la persona peggiore del mondo nell’omonimo film, perché dalla Norvegia arriva anche qualcuno disposto a lottare per il titolo. Solo senza essere consapevole del proprio labirinto emotivo. Signe è una donna che vive con il suo fidanzato, un artista che usa solo materiale rubato per le sue opere, e vuole solo che qualcuno si accorga di lei. In qualsiasi modo. E se non ci riesce inventando malattie o disturbi, dovrà crearli artificialmente.

Sick of Myself è una commedia nera come la notte che coglie anche l’occasione per riflettere sul mondo di oggi grazie a una protagonista che deve essere l’eterno centro dell’attenzione, anche a costo di fingere allergie, malattie o raccontare storie incredibili che non sono mai accadute: è affascinante come una persona con una bussola morale così compromessa possa essere così prepotentemente vicina a noi. Ma il film di Kristoffer Borgli è anche incorniciato da un accurato stile visivo che delinea perfettamente un universo a sé stante tra il kitsch, l’ostentazione della falsa upper class e la discesa negli inferi della moda del XXI secolo, in cui dobbiamo essere disposti a vedere le miserie che ci circondano.

Sick of Mysel (2023)

Signe: puro solipsismo

Signe non vi piacerà. Non è pensata per essere una protagonista carismatica ed empatica con cui tenersi per mano per 95 minuti. Per di più, racchiude in sé tutti i mali (e, in parte, gli aneliti) del mondo contemporaneo con un atteggiamento assolutamente indecoroso e privo di qualsiasi moralità. È puro narcisismo travestito da miseria. Tanto che, quando arriva il momento di provare compassione per lei, diventa impossibile.

I segmenti di finzione che Signe immagina nella sua testa, nel più puro stile “Scrubs” ma con una componente aggiuntiva di derealizzazione, sono il modo in cui il film cerca di farci capire che nessuna delle sue azioni deriva dalla cattiveria, ma dal bisogno di essere compresa anche dal suo stesso ragazzo. Una coppia tanto infelice quanto impossibile in cui nulla può finire bene. Fin dall’inizio, gli eroi di questa storia sono i cattivi stessi, che scoprono troppo tardi che le azioni hanno delle conseguenze e che forse la fama non valeva poi così tanto.

Signe è un personaggio problematico e una protagonista insopportabile, ma già solo questo la rende ancora più interessante; l’interpretazione di Kristine Kujath Thorp (“Ninjababy“) è impeccabile e restituisce allo stesso tempo la finzione e la veridicità di Signe, estremamente confuse ma molto umane; tutti noi abbiamo avuto momenti in cui abbiamo sperimentato un impulso corrotto a essere riconosciuti anche se non lo meritiamo pienamente, soprattutto se abbiamo subito continue delusioni.

Forse, la consapevolezza più cruda a cui arriviamo guardando Sick of Myself è che, in fondo, la distanza tra la storia di Signe e la maggior parte di noi non è molta. L’estremismo con cui la protagonista compie le sue azioni non è forse dovuto al bisogno di riconoscimento, ma alla costante approvazione e frustrazione che il continuo rifiuto porta con se. L’autodistruzione riuscita lascia la sua eroina scioccata al suo destino nel tumulto di un fermo immagine campeggiante, mentre si trova con i suoi sprezzanti colleghi a una seduta di “terapia alternativa“. Mostruosamente euforica e ancora una volta beatamente autocelebrativa, come se avesse appena coniato il felice concetto della sindrome da Sick of Myself. O forse l’avevamo già creata e Signe è una semplice infetta?

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