Incontro ravvicinato con Tim Burton #RFF16

Tim Burton Dumbo

La Festa del Cinema di Roma omaggia Tim Burton con il Premio alla carriera. Red carpet, foto di rito, con figli e cagnolino al seguito, e poi il regista è pronto per un incontro ravvicinato, occasione per ripercorrere le tappe della carriera che lo ha portato dal disegno per la Disney, dietro a una macchina da presa. Da regista ha potuto dare corpo ad un immaginario unico e sempre riconoscibile, con potenti legami al mondo dell’infanzia, ma anche con quella malinconia, quel senso di inadeguatezza e quelle atmosfere tipicamente dark che lo hanno sempre contraddistinto.

 

Riceve il Premio alla Carriera dalle mani di un maestro della scenografia come Dante Ferretti  – che vinse l’Oscar con Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street – assieme a Francesca Lo Schiavo e alla costumista Gabriella Pescucci, con cui pure ha collaborato per La fabbrica di Cioccolato. “Ricevere questo premio mi riempie di gioia e orgoglio” dice il regista, “E’ un onore riceverlo dalle mani di questi tre grandi artisti. Ho avuto il piacere di lavorare con loro, ma mai abbastanza, spero di avere altre occasioni”. A proposito della città che lo ospita e lo premia afferma: “Roma è una città capace di catturare i sogni”.

L’esperienza alla Disney negli anni Ottanta

La carriera di Tim Burton ebbe inizio proprio come disegnatore alla Disney, in un momento non proprio favorevole: “Terribile! Si tratta degli anni più bui alla Disney. C’erano moltissime persone di enorme talento e creatività, invece si facevano film come Red e Toby nemiciamici, che richiedevano dieci anni di lavorazione. Avevi a disposizione figure geniali come John Lasseter, che poi hanno creato il mondo Pixar, ma non c’erano opportunità per tutti questi talenti. Sono stato fortunato, perchè ero un pessimo disegnatore di animazione. Mi dicevano che la volpe che avevo disegnato sembrava essere stata travolta da un’auto. Per fortuna ero così incapace che poi sono passato a fare altro!”.

L’omaggio a Mario Bava

All’interno del panorama cinematografico italiano, Burton sceglie di omaggiare Mario Bava. La maschera del demonio e Diabolik vengono montati in sequenza con il suo Batman. Le atmosfere oscure e anche una componente ironica sono elementi cari al regista americano.

Riconoscibile dunque una ispirazione al maestro dell’horror italiano, anche per quanto riguarda ambientazioni e scenografie. Burton parla così di Mario Bava: “Negli anni ’80 a Los Angeles andai ad un festival di cinema horror, una maratona di 48 ore. […] Normalmente ti assopisci, mentre io mi ricordo chiaramente il film di Mario Bava, La maschera del demonio, come un sogno. Sapeva catturare questo senso onirico tendente all’incubo. In pochi sono riusciti a catturarlo. Oltre a Bava, Federico  Fellini e Dario Argento”.  

La nascita di Edward mani di forbice

Burton spiega poi così da dove nasce l’idea di un personaggio come Edward, ovvero qualcuno che involontariamente ferisce chi ama: “Sfortunatamente, questa è stata la mia infanzia […] Ho sempre amato favole e fiabe. Le favole permettono di esplorare veri sentimenti aumentandone l’intensità. Io mi sentivo così da ragazzo.”

Allestimento scenografico, sceneggiatura e ispirazione nei film di Tim Burton 

Scenografie, costumi e messa in  scena hanno sempre avuto un ruolo importante nei film di Burton: “Ho avuto la grande fortuna di lavorare con straordinari artisti. Per me scenografia, musica, costumi fanno parte del film, come dei veri personaggi. Avendo avuto il privilegio di lavorare con Dante Ferretti e Gabriella Pescucci, per me la scenografia è fondamentale, penso ad esempio a Sweeney Todd.” Per quanto riguarda la scenggiatura, prosegue Burton: “Non mi reputo uno sceneggiatore. Parto dalle idee e cerco di stabilire dei rapporti di collaborazione con chi sa scrivere. Edward mani di forbice, ad esempio, nasce dalla mia esperienza. Nel caso di Nightmare before Christmas non era materiale mio, ma mi riconoscevo in alcuni suoi elementi. Cerco sempre di trovare qualcosa con cui io possa rapportarmi. 

A proposito poi di ispirazioni anche non convenzionali, su Mars Attacks! dice: “Dimenticate grandi romanzi, grandi opere letterarie. Sono partito dalle carte che avvolgevano le gomme da masticare. La mia è stata un infanzia un po’ contorta…”.

L’esperienza di lavoro con gli studios

Burton nella sua carriera ha sempre lavorato con grandi studi cinematografici. Così racconta la sua esperienza: “Ho fatto solo film con gli studios, sono stato in una posizione un po’ insolita perchè, nonostante questo, sono sempre riuscito a fare ciò che volevo. Ancora non riesco a capacitarmi. La cosa mi sorprende perchè si tratta di business. Ancora mi interrogo su come sia stato possibile. Per fortuna non hanno veramente mai capito cosa stessi facendo”. “Il cinema è un’opera collettiva. […] L’impegno collettivo è fonte di gioia. Quando si parla del budget […] non è mai abbastanza, poco o tanto che sia. È un po’ come cercare di controllare le condizioni metereologiche: ci sono tanti elementi intangibili”.

Tim Burton
Tim Burton – foto di Fabio Angeloni – Disney Italia

L’incontro con Stephen Sondheim per Sweeney Todd

Uno dei lavori forse più complessi di Tim Burton è Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street. Un adattamento del musical di Stephen Sondheim. Racconta Burton: “Fu molto difficile far vedere il film a Stephen. Per fortuna gli piacque, cosa che mi riempì di gioia. E’ una combinazione tra horror e musical. L’ha visto solo alla fine, ed ero molto preoccupato perchè nessuno degli attori era un cantante. Però lui non lo ritenne un problema, anzi. […] È stato di grande sostegno. 

Fare un musical è stato molto divertente. So che può sembrare assurdo, ma per me è stato un po’ come fare un film muto, perchè c’era sempre questa musica.”

 Big eyes, Ed Wood e il senso dell’arte

Nella carriera di Burton, alcuni film rimandano in qualche modo alla domanda su quale sia il senso dell’arte, su cosa si possa definire arte e cosa no. Uno di questi è senz’altro Big Eyes. Al centro del film la figura di Kean e i quadri dipinti da sua moglie, contraddistinti da personaggi dotati apputo di grandi occhi indagatori. “Ricordo quei quadri di Kean” afferma Burton, “si trovavano in tutte le case appesi alle mura del salotto. Io li ho sempre trovati un po’ inquietanti. Mi chiedevo come mai potesse piacere tanto. Questo ci porta a riflettere sul senso dell’arte. È interessante. Veniamo toccati in modo diverso da ciò che vediamo. Per me erano inquietanti. Altri li trovavano così carini da appenderli nelle camere da letto dei loro bambini. Questo ci fa riflettere sul senso dell’essere artista”. Una simile riflessione si può fare anche su Ed Wood, figura su cui Burton ha costruito l’omonimo film. “E’ straordinario”, dice il regista, “perchè Ed Wood pensava di stare girando Guerre Stellari. Aveva una passione tale che ritroviamo anche nei suoi diari. Si reputava tra i più grandi. Questo ci riporta al discorso che facevamo prima, in sostanza, su cosa è arte e cosa è merda”.

La sorpresa di una mostra al MoMA dedicata a Tim Burton

Infine, è interessante scoprire come ci si sente ad essere annoverati tra gli artisti cui è stata dedicata una retrospettiva al MoMA. Burton se ne dice onorato: “Questa retrospettiva è stata una sorpresa straordinaria. Io sono un pessimo archivista. Si è trattato di andare a frugare nei cassetti per trovare le oprere. E’ stato sorprendente e indimenticabile. Sorprese come queste ti riempiono di gioia. È stata la mostra che ha avuto più successo in assoluto tra quelle fatte. Non mi reputo un artista, però fa pensare il fatto che delle opere d’arte riescano in qualche modo ad ispirare gli altri”.

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