Il primo Teaser Trailer di Die Hard – Un buongiorno per morire, quinto episodio della saga con protagonista Bruce Willis e Jai Courtney e diretto da Jon Moore.
Il primo Teaser Trailer di Die Hard – Un buongiorno per morire, quinto episodio della saga con protagonista Bruce Willis e Jai Courtney e diretto da Jon Moore.
Arriva il trailer
ufficiale di Il Peggior Natale della Mia Vita, nuova
pellicola che si appresta a invadere i nostri schermi nel periodo
natalizio, diretta da Alessandro Genovesi e con Fabio De Luigi,
Il ritorno di Liam Neeson nei
panni del privato cittadino che si ritrova ad avere a che fare con
dei rapitori turchi, balza al promo posto nella classifica dei film
più visti nelle sale del Nord America. Il film, Taken
2 incassa 50 milioni di dollari. Segue in seconda
posizione il film di animazione Hotel
Transylvania, con un incasso di ulteriori 26 milioni di
dollari che porta il suo totale a 76 milioni. Il terzo posto è
occupato dalla commedia musicale Pitch perfect
che, a leggere la trama sembra un Glee versione cinematografica e
con meno loser protagonisti. Il film incassa quasi 15 milioni di
dollari questa settimana, portando il suo totale a quasi 22.
Looper, in cui Joseph Gordon Levitt si trova
nuovamente dopo Inception e Dark knight rises catapultato in un
futuro sicuramente adrenalinico ma in cui è presente un retaggio
del passato: la mafia che rapisce la co-star Bruce
Willis. Il film è in quarta posizione con un incasso
totale di 40 milioni di dollari. A metà classifica appare
Frankenweenie, il primo cortometraggio di Tim
Burton diventato film, che incassa 11,5 milioni di dollari. In
sesta posizione scende dopo neanche una settimana The
trouble with the curve film sul baseball con protagonista
Clint Eastwood, che incassa solo 4 milioni di
dollari questa settimana per arrivare ad un totale di quasi 30
milioni. In settima posizione troviamo il thriller The
house at the end of the street, questa volta la presenza
di Jennifer Lawrence non ha permesso alla pellicola, in classifica
da tre settimane, di mantenere alti gli incassi come accaduto con
il blockbuster Hunger games. Il film incassa quasi
4 milioni di dollari per un totale di 27.5. In ottava posizione
resta stabile The master di Paul Thomas Anderson,
con un modesto incasso di quasi 2 milioni di dollari che porta il
totale a 12. Scende anche Finding Nemo in versione
rimasterizzata, che troviamo al nono posto con un incasso
settimanale di quasi due milioni di dollari che porta il suo totale
a 39. Chiude la classifica The perks of being a
wallflower, film con Emma Watson su amori adolescenziali,
che incassa 1.5 per un totale di 3.
La prossima settimana usciranno: Smiley un horror sullo stile di So cosa hai fatto , l’attesa commedia con cast stellare 7 Psychopaths e il thriller Middle of nowhere.
Arriva il video musicale della canzone di Adele che sarà la colonna sonora del nuovo film dell’agende Bond, intitolato 007 Skyfall diretto da Sam Mendes con Daniel Craig, Judi Dench, Ralph Fiennes, Javier Bardem, Naomie Harris, Rhys Ifans, Bérénice Marlohe, Albert Finney.
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Da sempre fiore all’occhiello del Festival di Roma, la sezione dedicata ai giovani e giovanissimi, Alice nella Città, cambia pelle e diventa autonoma, maggiorenne,
Nel primo weekend di quattro giorni,
L’Era Glaciale 4 rimane in testa,
seguito dagli esordi di
Ted e
Step Up Revolution 3D. Incassi in
crescita con la nuova strategia distributiva.
Un incrocio per certi versi prevedibile: da una parte Terrence Malick che, dopo avere per decenni fatto attendere tempi biblici ai propri fan tra un film e l’altro, ha improvvisamente preso un ritmo da centometrista, sfornando film in quantità (per lui) industriale; dall’altra, Michael Fassbender, uno dei nomi ‘caldi’ di Hollywood, anche lui impiegato in progetti a ritmo serrato.
I due lavoreranno insieme in occasione del prossimo progetto di Malick, che seguirà Knights of Cup e ancora senza titolo, dopo che per diverso tempo era stato battezzato Lawless (titolo poi gentilmente ‘liberato’ da Malick e usato da John Hillcoat). Sul set a fianco di Fassbender ci sarà anche Ryan Gosling, altro astro nascente del firmamento hollywoodiano; del cast faranno parte anche Rooney Mara, Holly Hunter e Natalie Portman.
La tabella di marcia di Malick prevede l’uscita di To the wonder (presentato a Venezia) tra fine 2012 e inizio 2013; sarà poi la volta di Knights of Cup (che a quanto si sa sarà una satira sul mondo delle celebrità). Michael Fassbender sarà prossimamente sugli schermi in The Counsellor di Ridley Scott, prima di reindossare l’elmo di Magneto in X-Men: Days Of Future Past e, probabilmente, di tornare ad essere diretto da Steve McQueen in Twelve Years A Slave.
Fonte: Empire
Sienna Miller si aggiunge al cast di Foxcatcher, nuova opera di Bennett Miller (Moneyball), dedicata al campione olimpico di lotta libera Dave Shultz, che sarà interpretato da Mark Ruffalo. Sienna Miller (nessuna parentela col regista) interpreterà il ruolo – chiave della moglie del protagonista.
Foxcatcher seguirà la vicenda della tragica morte di Shultz, ucciso dal suo amico John DuPont (erede della dinastia dei magnati della chimica), colpito da un attacco di schizofrenia paranoide. DuPont, che nel film verrà interpretato da Steve Carell, era stato infatti un entusiasta fan della lotta libera olimpica, fino a creare e finanziare una sua squadra privata, la Foxcatcher, dal quale deriva il titolo del film. Del cast farà parte anche Channing Tatum, nel ruolo del fratello di Shultz, Mark, lottatore a sua volta. L’inizio delle riprese è previsto per fine ottobre.
Fonte: Empire
Nate Parker riprende il volo: dopo aver interpretato un aviatore della Seconda Guerra Mondiale in Red Tails, l’attore (quest’anno sugli schermi anche in Arbitrage e in Red Hook Summer di Spike Lee) salirà a bordo di Non-Stop, thriller aereo che tra l’altro vedrà il protagonista Liam Neeson tornare ad essere diretto da Jaume Collet-Serra, riformando la coppia di Unknown (Senza Identità). Neeson sarà un agente dell’aeronautica federale che si troverà a dover fronteggiare un dirottatore. Parker interpreterà un altro viaggiatore a bordo, che darà una mano al protagonista. La sceneggiatura è stata scritta da John Richardson e Chris Roach, le riprese dovrebbero cominciare entro qualche settimana a New York. Parker potrebbe tornare a breve sul set per Spike Lee, nel remake di Oldboy.
Fonte: Empire
Mentre è alle prese con Alex Cross, che potrebbe segnare l’avvio di una nuova serie di film d’azione, Rob Cohen potrebbe essere coinvolto anche in altre due ‘saghe’ di successo, quelle di Fast and Furious e di xXx, entrambe peraltro con protagonista Vin Diesel. Cohen ha recentemente affermato che sarebbe entusiasta di mettere le nuovamente le mani su Fast and Furious, che considera una sua creatura, pur criticando il lavoro fatto coi sequel, con l’unico scopo di fare soldi: il regista ha affermato che è un miracolo se la serie non sia ancora stata affossata. Per quanto riguarda l’eventuale terzo capitolo di xXx, invece, tutto tace, anche a causa dello scarso interesse di Vim Diesel, che, attualmente impegnato proprio su Fast and Furious, sembrerebbe piuttosto interessato a riprendere il personaggio di Riddick. Nel frattempo, Cohen va avanti sulla sua strada: dopo Alex Cross sarà la volta di un film ambietato durate la guerra di Corea che spera di girare nel 2013.
Fonte: Cinema Blend
Patricia Clarkson e Zachary Booth sono le più recenti ‘new entries’ in Last Weekend, commedia nera firmata da Tom Dolby e Tom Williams, che per entrambi segnerà il debutto alla regia. Il resto del cast include Joseph Cross, Devon Gray, Jayma Mays, Chris Mulkey, Alexia Rasmussen, Rutina Wesley. Il film seguirà il fine settimana di una coppia e dei suoi figli che ospiteranno un gruppo di amici nella loro casa sul Lago Tahoe; da qui prenderà il via una serie di eventi che finiranno per sconvolgere la breve vacanza, attentamente pianificata dalla padrona di casa.
La casa in cui sarà ambientata la vicenda è la stessa che nel 1951 venne utilizzata per le riprese di A Place In The Sun (Un posto al sole), con Elizabeth Taylor. Patricia Clarkson è recentemente apparsa in Friends with Benfit con Justin Timberlake e Mila Kunis, oltre che nella sitcom della NBC Parks and Recreation e sarà prossimamente in The East di Zal Batmanglij a fianco di Alexander Sarsgard, Ellen Page, Brit Marling and Julia Ormond.
Fonte: Cinema Blend
Trainspotting è il film culto di Danny Boyle del 1996 con protagonisti nel cast Ewan McGregor, Ewen Bremner, Jonny Lee Miller, Kevin McKidd, Susan Vidler
Edinburgo, cinque amici Mark Renton, Sick Boy, Spud, Tommy e Francis vivono di espedienti, ognuno con i propri eccessi: i primi tre sono tossicodipendenti; Tommy è un palestrato salutista fissato per la cura del corpo e non vuole saperne di droghe, così come Francis, un violento ladro abituale.
Trainspotting è un film del 1996 diretto da Danny Boyle, tratto dall’opera omonima di Irvine Welsh del 1993. Un lungometraggio diventato un cult degli anni ’90, molto amato dai giovani dell’epoca. Il film affronta in modo ora drammatico, ora ironico, ora grottesco, il dramma della dipendenza dall’eroina, in una Scozia degradata e socialmente disagiata. La pellicola riesce in modo perfetto a descrivere il rapporto dei giovani con la droga; cosa li avvicina ad essa, cosa può farli allontanare, cosa li fa ritornare nel tunnel. Solo la morte di un innocente li fa ragionare e provare a vivere diversamente.
Scene forti si alternano a sequenze drammatiche; il risultato finale è un film che fa riflettere, ma non bacchetta, né mitizza l’eroina. E’ proprio il caso di dirlo: una giusta dose. Più che i giovani o l’eroina, ad essere criticata è la società, che a partire dagli anni ’90 è diventata sempre più smarrita, svuotata di ideali e punti di riferimento. Nel libro a cui si ispira invece, c’è una maggiore crudezza; come ad esempio accadde per Christiane F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino (1981), snellito nella trasposizione cinematografica ma rimasto immutato quanto a durezza delle immagini.
Tra le sequenze più suggestive di Trainspotting certamente va annoverata quella in cui Mark, preso da crisi di astinenza, vede la piccola Dawn, morta tragicamente, camminare sul soffitto e poi girare la testa al contrario verso di lui. Una scena ripresa più volte in modo ironico, come vedremo, specie nei cartoon.
La scena più divertente è invece quella in cui le feci di Mark, racchiuse in un lenzuolo, finiscono sui genitori della fidanzata.
Per il regista inglese Danny Boyle si tratta del secondo film e in fondo anche il più noto, nonostante ne abbia girati successivamente altri dieci. Quanto al cast, nei ruoli principali troviamo Ewan McGregor – Mark Renton, Ewen Bremner – Spud, Jonny Lee Miller – Sick Boy, Kevin McKidd – Tommy, Susan Vidler – Allison.
Particolarmente
apprezzata è anche la colonna sonora
di Trainspotting, racchiusa in 2 volumi,
quest’ultimo di difficile reperimento. In esso si trovano anche le
canzoni che il regista avrebbe voluto inserire nel film o che
comunque, per usare parole sue, “hanno ispirato il film”. In
particolare il regista si duole di non aver inserito questi due
brani: The Passenger di Iggy Pop
e Atmosphere dei Joy Division, la
band da cui, dopo la morte del loro leader Ian Curtis, sono nati i
New Order.
Trainspotting è stato più volte oggetto di citazioni o riferimenti. In una scena del film Dobermann, del 1997, compare proprio la locandina di Trainspotting. Nel 3º episodio della quindicesima stagione de I Simpson Bart e Lisa hanno un’overdose di “zucchero”, e vedono Maggie camminare sul soffitto e girare la testa, proprio come la neonata Dawn. Lo stesso succede nel 5º episodio della seconda stagione de I Griffin, alla fine della puntata Stewie è nel suo lettino in preda a crisi d’astinenza, e vede se stesso gattonare sul soffitto e girare la testa. Nel 2009 il rapper italiano Fabri Fibra si è ispirato alle scene finali di Trainspotting per girare il videoclip della canzone Incomprensioni. Nella serie TV Chuck, il 2º episodio della prima stagione inizia con la stessa scena di corsa e la stessa canzone di Trainspotting.
Infine, una curiosità. Nonostante il film sia ambientato ufficialmente a Edimburgo, quasi tutte le scene sono state girate a Glasgow; tranne la scena di apertura, girata proprio a Edimburgo, e quella finale, girata a Londra.
Più volte succede che l’approccio filosofico all’esistenza quotidiana ci riveli l’arbitrarietà dei pregiudizi mentali, tramite cui crediamo di vivere autenticamente. Spesso, i grandi artisti vogliono indirizzare lo spettatore verso una consapevolezza così impegnativa. Se consideriamo, ad esempio, il film di Stanley Kubrick, 2001: Odissea nello spazio, si giustificherà che l’intero montaggio delle scene sia volto a suscitare la nostra interrogazione sopra tutto ciò che appare ovvio. A testimoniarlo concorrono soprattutto le situazioni limite, quelle per cui noi restiamo vittime di qualche evento, angoscioso o doloroso.
Pure il fenomeno artistico può diventare un utile viatico verso la migliore e più esaustiva conoscenza di sé. Nel film 2001: Odissea nello spazio, ogni desiderio umano d’apprendere la Verità si concentrerà simbolicamente nella figura del misterioso monolite. Esso all’inizio è contemplato dalla scimmia, e successivamente dagli astronauti. Il monolite sembra un oggetto assolutamente estetico, in quanto ci chiederebbe di stravolgere i vincoli con le categorie del nostro vissuto, date dai pregiudizi quotidiani. Questi saranno finalmente ripensati, di fronte alla meraviglia dell’inesprimibile. Ci abbandoniamo allo stupore dell’ignoto, il quale si pone, tramite l’opera d’arte, come simbolo d’una dimensione divina, sempre più pura. Se ammettiamo questo, dobbiamo anche concludere che l’uomo, finché sarà vivente e quindi caduco, difficilmente raggiungerà una sapienza perfetta del Mistero che lo circonda. Naturalmente, il fenomeno artistico si percepirà allo stesso modo. Un lettore che razionalmente pretendesse di violare tale condizione, si troverebbe a dover comunque dire qualcosa, ma, nello stesso tempo, le sue risposte resterebbero ancora riduttive, e magari facilmente opinabili.
In fondo, nel film di
Kubrick il monolite uccide tutti coloro che tentano di
svelarne i segreti. Giustamente, potremmo interpretare quegli
assalti come azioni babeliche. Il filosofo tedesco Martin
Heidegger intravide nel fenomeno estetico l’abilità da parte della
Dimensione Assoluta di celarsi e insieme svelarsi nella sapienza
completa del Mistero. Kubrick trasportò la medesima dialettica in
campo cinematografico. Una vera e propria odissea della conoscenza
attende l’astronauta che s’appresti a ricercare la Verità. Una tesi
che rientrerebbe nella filosofia di Platone. Lui ci ricorda che nel
fenomeno artistico l’ideale astratto della sapienza è trasmissibile
solo attraverso la materia, lavorata dal pittore o dallo scultore.
Quest’ultima, però, già riduceva le speranze che il contemplatore
colga il suo significato più autentico, ben al di là del mero
prodotto fabbricato. Infatti, la materia veniva riconosciuta in
quanto tale attraverso lo sguardo di chi volesse studiarne
l’artisticità. Ma, facendo questo, il lettore/contemplatore avrebbe
forzatamente applicato i propri pregiudizi intellettuali di
riferimento.
In 2001: Odissea nello spazio, la scimmia che impara ad usare gli arnesi per vivere, sfrutta un processo conoscitivo del tutto intuitivo ed ipotetico. Essa si aiuta con la contemplazione del raggio solare, che emerge dietro al monolite, perciò a causa del Divino. Nel contempo, però, lì la scimmia non deduce in via perfetta alcuna sapienza. Qui torna la dialettica propugnata da Heidegger, dentro il vero fenomeno estetico. Comunemente, si obietta che la cultura contemporanea curi poco l’espressione artistica, preferendo che si sviluppino abilissime maestranze nel campo della tecnologia. Si crede poi che il linguaggio estetico, libero dalle convenzioni arbitrarie (per cui abbastanza metaforico da rivelare l’Assoluto), abbia ormai ceduto il passo a quello standardizzato o banale, della multimedialità. Heidegger temeva questo, benché gli antichi greci non opponessero nettamente la tecnica all’artisticità. In effetti, loro riconoscevano che qualunque fenomeno estetico fosse pur sempre costruito, dunque materiale, distanziandosi immediatamente dal divino. Faremmo meglio a rivalutare il prodotto tecnico, come un ulteriore viatico per raggiungere la Verità.
Il misterioso monolite scoperto dagli astronauti sulla nuova luna è perfettamente geometrico. Quello ci sembrerebbe proprio un prodotto standardizzato. In primo luogo, poi, il monolite possederà una chiara materialità. Tuttavia, questa risulta piuttosto particolare, perché eterea e capace di dare le allucinazioni a chi voglia conoscerla, come gli astronauti. E’ anche così che uno di loro, Bowman, compirà il suo reale cammino d’introspezione autocritica. Qualcosa che a buon diritto percepiremo con più motivazioni etiche. A fondamento del monolite, non può esistere la mera materialità geometrizzante del prodotto (come nella serialità industriale). Il film di Kubrick ci insegna l’infinitezza del nostro cammino conoscitivo, verso la Sapienza Assoluta. Esso necessariamente diventerà sempre più pratico, lungi dal mero intellettualismo.
Il film si conclude con
l’immagine molto vissuta delle tre età, che si succedono
l’una sull’altra. L’adulto (l’astronauta Bowman) che ha potuto
entrare nelle quattro pareti del monolite divino
diventa nello stesso tempo bambino e vecchio.
L’intellettualismo della contemplazione si risolve nel punto
massimo della pratica vitale (se questa riguarda l’intera
esistenza, dalla nascita alla morte). L’impulso etico delle persone
si libera forse più dall’anima che dalla mente razionale, spesso
astratta. Un’idea che noi troveremmo all’inizio del film, quando la
scimmia scopre il sapere molto pragmatico dell’arnese. Quella
procede da una serie di pensieri ipotetici. Spesso, il cuore sa
porsi in maniera autocritica molto prima della ragione. Nel film
2001: Odissea nello spazio, il celebre computer Hal 9000
acquista svariate capacità emotive, senza che i suoi programmatori
le avessero previste. Lui saprà ridiscutere ogni pregiudizio
personale. E’ il momento in cui la razionalità programmatica,
all’origine stoltamente sopravvalutata come infallibile, sceglie di
vivere secondo una sua morale (sfortunatamente per gli astronauti,
contro di loro).
Hal 9000 subisce la disconnessione da parte del solo astronauta sopravvissuto ai suoi inspiegabili omicidi. La memoria informatica si vede configurata tramite una fila di sottili barre rosse. Forse per Kubrick il monolite è una fessura perché il suo assalitore deve letteralmente ritagliarsi uno spazio visivo. Ciò varrebbe sotto le coperture del mondo solo materiale.
Nel 1964, il regista Michelangelo Antonioni gira il suo nono lungometraggio, dal titolo Il deserto rosso. Ci ricordiamo la storia, incentrata sul personaggio di Giuliana. Moglie del dirigente industriale Ugo, il quale pare incapace di capirla, lei, complice un incedente d’auto, comincia a vivere una fase depressiva, che neppure l’amicizia (prima) ed il tradimento (dopo) con l’Ing. Corrado salveranno dal suo acuirsi.
Il film s’intitola Il deserto rosso, con due sole parole. Un sostantivo, che rinvia alla fredda o meglio scheletrica architettura del Polo petrolchimico a Ravenna, e poi un aggettivo, che rinvia all’unica tonalità (presente dappertutto: negli abiti, nelle pareti, nelle condutture, nei parapetti ecc…) almeno teoricamente in grado di rivitalizzare lo spleen esistenzialistico dei personaggi. Antonioni ama le carrellate che portano la macchina da presa a risalire, o di contro a ridiscendere, i vari edifici. Il film Il deserto rosso inizia mostrandoci il fumo industriale, da una coppia di soffioni. Contraddicendone la risalita, tramite il vento, la macchina da presa si sposta in discesa, inquadrando gli operai, i quali dovrebbero andare a lavoro (siccome in quelle ore la Cgil ha indetto uno sciopero). E’ la prima testimonianza estetica dell’incomunicabilità visiva, la quale supporterà i dialoghi mai conclusi fra i vari personaggi, in tutto il film.
La metafora del fumo industriale è interessante: nel film i personaggi dialogano in maniera confusionaria; il fumo degli scarichi industriali risale in aria formando delle volute, molto lente e pesanti da percepire; i dialoghi dei personaggi hanno spesso un’ambizione intellettuale, alla fine, però, ne escono solo dei giri di parole. Gli esempi sono numerosi, anche il personaggio in apparenza più stabile (assumendosi le responsabilità che gli competano, quantomeno in ambito lavorativo), ovvero l’Ing. Corrado, giunge a dire: “Io nasco a Trieste, ma la mia famiglia s’è trasferita a Bologna; da solo ho vissuto prima a Milano, poi a Bologna, mentre adesso non saprei dove andare”. La protagonista Giuliana (con la grande recitazione di Monica Vitti, musa di Antonioni sia dentro sia fuori il set, per dieci anni) pensa nella confusione di se stessa in specie quando racconta i propri sogni. Abbiamo l’impressione che lei non concluda un vero discorso perché si sente letteralmente in un altro mondo.
Ricordiamo una scena in cui la protagonista ha la testa quasi nascosta, dentro la tappezzeria del divano: di nuovo, è la metafora del fumo industriale che, pericolosamente, non risale per disperdersi in aria, ma rimane a contorcersi, nel piano orizzontale del vissuto materiale. La regia poi rinforza la nostra comprensione inconcludente di Giuliana, con la sinestesia. La sirena di una nave mercantile va virtualmente a perforare la testa della donna, impedendole persino di vivere. Le onde sonore sostituiscono il fumo industriale. L’intero film è montato per inquadrature i cui elementi tagliano continuamente se stessi. Nella scena iniziale, ad esempio, gli operai passano da destra a sinistra (in orizzontale), mentre Giuliana ed il figlio Valerio s’avvicinano a noi, dalla profondità (dunque in verticale). L’incomunicabilità visiva del film presuppone che i loro incroci saranno solo fittizi. Il gruppo degli operai non si fermerà innanzi a Giuliana e Valerio, o viceversa e le persone rinunceranno al contatto reale (conoscendosi).
Più in generale, è caratteristico che Antonioni in molti film inquadri i protagonisti a sfuggire gli uni sugli altri. Giuliana pronuncia la sua frase sconclusionata, e quando l’Ing. Corrado le si avvicina, lei ha già camminato oltre. Soprattutto, nel film Deserto rosso, l’incomunicabilità dello sfuggire ci pare insistita, per la complicità dell’architettura industriale. Le tubature inevitabilmente seguono un percorso a zig-zag, nel contrasto fra le pareti ed i piani. Qualcosa di simile accade nel continuo stop and go di Giuliana, che si riverserà sull’Ing. Corrado. Antonioni insiste molto a mostrare che le persone si appoggiano alle pareti, inquadrandole in diagonale, perché quelle potrebbero cadere da un momento all’altro. Quando Giuliana ha un momento d’intimità, sia col marito sia con l’Ing. Corrado, innanzi ai loro corpi può comparire il più freddo e striminzito parapetto del letto. Torna la metafora estetica del taglio, per avvertirci che la passione della protagonista è solo momentanea.
Per il filosofo Sartre, se qualcuno immagina, accade che la sua coscienza diventi essenzialmente libera. Così l’io soggettivo si renderebbe del tutto autonomo, rispetto all’alterità. Invece, se la coscienza stesse a percepire, le mancherebbe la sua libertà. Un’opera d’arte si pone in via certamente materiale, così, noi ci aspetteremmo che essa vada unicamente percepita. Invero, l’arte per Sartre sarà fruita con la sola facoltà dell’immaginazione. Sappiamo che lui segue un indirizzo filosofico di tipo essenzialmente esistenzialistico. Ciò significa che tutta la realtà si fa come tale solo in quanto essa appare nella coscienza d’un certo (singolo) uomo. L’io soggettivo che definisce una qualunque persona va costituendo ogni ente del mondo. La realtà si fa come tale perché un certo individuo ne ha la sua coscienza.
Questa conclusione definisce il tema filosofico della cosiddetta intenzionalità, che ciascuna mente umana porta sempre con sé. Sartre spiega che noi abbiamo inevitabilmente coscienza di qualcosa. Ciò vale sia per gli enti di tipo astratto, sia per quelli più semplicemente materiali. La necessità che noi ammettiamo il medium del di spiega il classico tema fenomenologico dell’intenzionalità. Però, nell’opera d’arte resta accettato che nessuno ha coscienza di quella in via solo percettiva. Un fenomeno estetico ha pure una dimensione concretamente materiale. Questa va intrinsecamente a richiamare un atto intenzionale, il quale risulta di stampo sempre immaginario.
Nel film
Il
deserto rosso, sarebbe facile limitarsi a
percepire il suono della nave mercantile. Durante la scampagnata
dei dirigenti industriali, nella casetta del pescatore, solo
Giuliana ha voglia d’immaginarlo, in maniera creativa. La sirena
della nave letteralmente si trasferisce dentro la testa della
donna. Giuliana è quasi un’esistenzialista, se in lei la realtà
circostante deriva dall’apparenza della sua immaginazione. Nel
contempo, la regia insiste a visualizzare il posizionamento della
scenografia, più che i singoli oggetti. L’Ing. Corrado cerca
d’avvicinarsi a Giuliana, ma lei ha già camminato oltre. Così, noi
vediamo solo il posizionamento del primo sulla seconda. Le tubature
industriali si percepiscono per i loro incroci spezzati (a
zig-zag). Di nuovo, conta il loro posizionarsi. E’ il problema
dell’intenzionalità, se parliamo di filosofia. La scelta
fotografica di colorare alcuni elementi col rosso spinge
l’osservatore ad isolarli, nel loro ipotetico calore.
Presumibilmente, quelli avrebbero dovuto simboleggiare la rinascita
(la rivitalizzazione) dal grigio mondo industriale. In realtà, i
personaggi del film alla fine continueranno ad evitarsi. Giuliana
non rinasce nemmeno sognando la sabbia rosa dell’isola Budelli, a
La Maddalena.
Per Sartre, la coscienza di chi concettualizza può conoscere (grazie alla sua riflessione intellettuale) quella che, inizialmente, aveva soltanto percepito qualcosa. Invece, l’immaginazione si definisce come tale quando una persona prova a capire unicamente la mera intenzionalità. La coscienza di chi fantastica si delinea sempre riguardando l’inevitabilità della mente che si posizioni. Con l’immaginazione, succede che il fenomeno estetico venga inteso unicamente perché lo si deve intendere. Tramite l’opera d’arte, la coscienza contemplativa si riferisce solo al suo inevitabile farsi di se stessa. Non ci sono altri rimandi.
Con la fantasticheria, la coscienza si fa del tutto autonoma, attiva e spontanea. Di contro, percependo, accade che noi restiamo passivamente condizionati dal mondo in cui ci troviamo, tramite una precisa situazione esistenziale. Per Sartre, l’immaginazione si darà avendo la coscienza d’un fenomeno esteriore, che sfugga sia alla sensazione sia al pensiero. Innanzi all’opera d’arte, l’intenzionalità è letteralmente di tipo impercettibile. Ma essa non può unicamente (essenzialmente) riflettere. Ciò avviene dal momento che l’immaginazione si pone in via sempre esteriore, laddove il pensiero si trova necessariamente interiorizzato. L’intenzionalità, di stampo appena impercettibile, per Sartre va a nientificare la più immediata sensibilità del corpo. Con l’opera d’arte, il contemplatore sa finalmente che la coscienza è unicamente di se stessa. Allora immaginare significa intendere con la mente un oggetto che risulti solo posizionato dall’Io. Qui la coscienza non si fa più condizionare dal piano della realtà materiale (che invece va sempre percepita). L’immaginazione diventa per Sartre una vera e propria forma di negazione universale, ossia tanto del mondo concreto quanto di ciascuna riflessione intellettuale.
Nel film Deserto rosso, la protagonista Giuliana all’improvviso chiede all’Ing. Corrado se lui vota a destra oppure a sinistra. Lui rilancia: quella prima domanda ne aprirebbe una seconda, anche più importante: “Credi o non credi in Dio?”. L’Ing. Corrado ritiene che in ogni caso loro siano innanzi ad “un problema troppo grande da risolvere”. E’ il momento in cui la riflessione intellettuale si fa inutile, in mezzo ad una natura (la materia del mondo) che si percepisce come squamosa e viscida, complici gli scarichi industriali. Nel film Deserto rosso, la battuta del “Credi o non credi in Dio?” si risolve forse laicamente nel “Mi pare un problema che noi possiamo solo porre”. Alla nientificazione degli affetti fra le persone, s’accompagna la nientificazione dell’ambiente.
Non sarà un Godzilla simile a tutti quelli che siamo stati abituati a vedere. Parola del regista Gareth Edwards che si appresta a dirigere le avventure del mostro più spaventoso di tutti i tempi.
Nell’intervista al Coventry Telegraph, infatti, Edwards ha parlato del taglio che vorrebbe dare al film: “Godzilla e le sue avventure hanno attirato la mia attenzione e la mia curiosità da sempre”, ha detto. “La mia idea principale sarà appunto immaginare: cosa succederebbe se tutto questo accadesse davvero? Voglio avere un approccio molto concreto e realistico nei confronti del film”.
Ma quali saranno gli effetti speciali, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto che avrà il mostro? “Non ho mai lavorato così duramente, così a lungo” risponde Edwards, e aggiunge: “Non mi era mai capitato di essere stato così emotivamente coinvolto in qualcosa che è durato solo pochi secondi, da quando ho perso la mia verginità! Ma la reazione è stata incredibile e non vedo l’ora per tutti i fan, di vedere il nostro prodotto finale”.
Godzilla è stato creato dal giapponese Tomoyuki Tanaka, ed è il ‘risultato’ dei disastri nucleari. Il primo remake americano su di lui fu diretto da Roland Emmerich nel 1998.
Vi ricordiamo che Godzilla, diretto da Gareth Edwards, comprende nel cast attori del calibro di Aaron Taylor-Johnson, Bryan Cranston, Elizabeth Olsen David Strathairn, Juliette Binoche e la new entry Ken Watanabe. La pellicola arriverà in Italia il 15 Maggio 2014. Akira Takarada, protagonista della pellicola originale, dovrebbe, inoltre, avere anche una piccola parte in questa rivisitazione, tornando sul set di Godzilla a sessanta anni di distanza dalla sua interpretazione.
Scritto da Max Borenstein, che ha rielaborato uno script di David S. Goyer e David Callaham, Godzilla sarà il film di punta della Warner Bros dell’anno 2014, visto che la data di uscita preventivata è stata infatti individuata nel 16 maggio 2014. Un film da cui la produzione si aspetta molto che, però, dovrà scontrarsi al botteghino con altre pellicole in uscita nello stesso periodo, quali The Amazing Spiderman 2, il reboot delle tartarughe ninja e il sequel dell’Alba del pianeta delle scimmie.
Tutti ne parlano e non stanno più nella pelle. Sarà perché ha compiuto 50 anni o forse solo perché è un mito intramontabile, ma in questi giorni le notizie sul nuovo James Bond Skyfall non sono affatto mancate. Dopo quella che riguarda la partecipazione di Adele nella colonna sonora, adesso sul sito Film Music Reporter, potete controllare tutta la lista delle canzoni che saranno presenti nel film.
In Skyfall Daniel Craig veste di nuovo i panni dell’agente che in questo 23ma avventura si troverà a dover dimostrare la sua lealtà ad M (interpretata da Judi Dench) nonostante il suo passato continui a perseguitarla. Intanto l’M6 è sotto attacco e Bond dovrà fare di tutto per distruggere la minaccia e il prezzo da pagare coinvolgerà anche la sua vita personale… Il film uscirà in Gran Bretagna il 26 ottobre e in Italia il 31.
Intanto, eccovi la lista delle canzoni che accompagneranno le avventure dell’agente meno segreto del mondo.
1. Grand Bazaar, Istanbul
(05:14)
2. Voluntary Retirement (02:22)
3. New Digs (02:32)
4. Severine (01:18)
5. Brave New World (01:50)
6. Shanghai Drive (01:26)
7. Jellyfish (03:22)
8. Silhouette (00:56)
9. Modigliani (01:04)
10. Day Wasted (01:31)
11. Quartermaster (04:58)
12. Someone Usually Dies (02:29)
13. Komodo Dragon (03:20
14. The Bloody Shot (04:46)
15. Enjoying Death (01:13)
16. The Chimera (01:58)
17. Close Shave (01:32)
18. Health & Safety (01:29)
19. Granborough Road (02:32)
20. Tennyson (02:14)
21. Enquiry (02:49)
22. Breadcrumbs (02:02)
23. Skyfall (02:32)
24. Kill Them First (02:22)
25. Welcome to Scotland (03:21)
26. She’s Mine (03:53)
27. The Moors (02:39)
28. Deep Water (05:11)
29. Mother (01:48)
30. Adrenaline (02:18)
Arrivano nuove foto dal set di RoboCop, il nuovo film di José Padilha. Nelle immagini delle riprese di Toronto vediamo anche uno dei protagonisti Michael Keaton che interpreta il CEO della OniCorp, Raymond Sellars.
“La mamma è faticosa.” Dice perentorio il buttafuori Sergej al suo collega Cianca, che gli racconta del suo difficile rapporto con la medesima, in una serata di lavoro come tante, fuori dalla discoteca UFO. I due bizzarri personaggi sono interpretati rispettivamente da Marco Giallini e Valerio Mastandrea e danno vita a una esilarante miniserie comico-demenziale-filosofica in onda su Rai 3: Buttafuori. È il 2006. Torna in mente ora, non solo per la sua ingegnosità, ma perché in effetti, stare dietro alle innumerevoli declinazioni di Valerio Mastandrea è faticoso: il cinema, il teatro, la letteratura, l’impegno civile, il pessimismo, l’ottimismo, Roma e la Roma. Ma lo si fa con piacere, perché si da il caso che sia uno dei più bravi attori italiani in circolazione.
L’ultimo Festival di Venezia l’ha visto protagonista della pellicola di Ivano De Matteo Gli equilibristi, ora nelle sale, in cui veste egregiamente i panni drammatici, ma anche ironici, dell’impiegato statale Giulio, in equilibrio precario sull’orlo dell’indigenza. A Locarno invece, è andato con l’opera seconda di Edoardo Gabriellini I padroni di casa, in uscita il prossimo 4 ottobre. Mentre, sempre a ottobre, lo vedremo nel nuovo film di Silvio Soldini Il comandante e la cicogna.
In circa vent’anni di carriera ha interpretato giovani in cerca di sé, trentenni in crisi, ladri, poliziotti, sindacalisti, scrittori, ex mariti ossessivi, ex pugili depressi, per citarne solo alcuni. I suoi personaggi sono disillusi, pessimisti, tristi, con un disagio, un malessere esistenziale più o meno pronunciato, ma sono anche – quasi sempre – ironici, sarcastici, a volte comici e buffi. Ed è proprio questo mix a renderli unici. Per interpretarli, ha messo a frutto la sua indole da romano doc, fatta di disincanto e pungente ironia, ma in fondo, non priva di un cauto ottimismo. Tuttavia, ha dimostrato negli anni di saper anche prendere artisticamente le distanze da quella romanità che incarna così bene, ma che rischiava di intrappolarlo in un cliché. Così sono nati personaggi come il protagonista de La prima cosa bella di Virzì, o quello di Un giorno perfetto di Ozpetek, che ne hanno rivelato la versatilità.
Oltre a recitare,
produce, dirige – finora solo un cortometraggio e uno spettacolo
teatrale – e scrive, ma sempre mantenendo nell’atteggiamento quel
basso profilo che è dote piuttosto rara nel panorama
cinematografico nostrano. Non è da lui auto incensarsi, anzi,
semmai il contrario. Partecipa e si spende in opere di registi
emergenti. È attore, ma anche cittadino, volto noto che si impegna
in iniziative culturali e sociali: presiede la Scuola Provinciale d’Arte
Cinematografica Gian Maria Volontè, che offre corsi
gratuiti a chi vuole imparate “i mestieri del cinema”; ha
collaborato a un documentario sull’Aquila post terremoto e diretto
il corto Trevirgolaottantasette riguardo le morti
sul lavoro; ha prestato il suo volto per spot pubblicitari a scopo
benefico e di sensibilizzazione (Amref, FAO, test HIV); non teme di
metterci la faccia, quando c’è da schierarsi e manifestare le
proprie idee (a sostegno della legge 194, del Teatro Valle,
del Cinema Palazzo e di altri centri culturali occupati, perché
restino tali e non vengano sottratti alla loro funzione, o contro i
tagli al FUS).
Valerio Mastandrea nasce a Roma, alla Garbatella, il 14 febbraio del 1972. Frequenta la scuola fino al diploma, poi due esami all’università e lascia gli studi per intraprendere il percorso da attore. Esordisce in teatro nel ’93 e l’anno successivo al cinema, con una commedia di Piero Natoli, seguita da una piccola parte in Cuore cattivo di Umberto Marino. Poi è ospite in alcune puntate del Maurizio Costanzo Show. Ed è il primo incontro con la notorietà.
Nel ’95 entra a far parte della scorta che conduce un ragioniere della mafia e sua figlia da Palermo a Milano per un processo in Palermo – Milano solo andata di Claudio Fragasso. Interpreta Tarcisio: il più fragile del gruppo, il più giovane, quello con meno esperienza, che guadagna e perde di più da quel viaggio. La sua scena finale è drammaticamente ironica. L’anno successivo, si fa notare nell’esordio di Fulvio Ottaviano, Cresceranno i carciofi a Mimongo.
Ma il primo film a vederlo protagonista indiscusso e a far emergere in maniera inequivocabile il suo talento è l’intelligente e originale commedia Tutti giù per terra di Davide Ferrario (1997). Qui, è estremamente convincente nel dare corpo ai tormenti del giovane Walter, ventenne degli anni Novanta non molto dissimile da tanti ventenni di oggi, senza particolari ideali od orizzonti, a disagio in famiglia e nella società, che mal si adatta al conformismo e vive con apprensione l’imminente passaggio all’età adulta. L’andatura dinoccolata, l’espressione sconsolata e rinunciataria che Valerio Mastandrea dà al personaggio già dicono tutto, ma a rendere il film divertente e godibilissimo sono anche una brillante sceneggiatura e una sapiente regia, che consentono all’attore di dare il meglio di sé in un’interpretazione senz’altro memorabile. La colonna sonora, affidata ai CSI, non poteva essere più azzeccata. Così Valerio conquista il pubblico, specie quello più giovane: impossibile per molti adolescenti dell’epoca non identificarsi, almeno in parte, col suo personaggio. Ma convince anche la critica, che gli assegna il Pardo e la Grolla d’Oro.
Conferma le sue doti lo stesso anno nella commedia-dramma In barca a vela contro mano, di cui è protagonista nei panni di un giovane laureato in medicina che si trova ad indagare su presunti traffici tra le corsie di un ospedale romano. E non sfigura affatto, accanto ad attori del calibro di Antonio Catania e Maurizio Mattioli. L’atmosfera del nosocomio romano è resa in modo del tutto realistico grazie alla perizia nelle caratterizzazioni, mentre la trama oltre che divertire, avvince e fa riflettere. Il ’98 è un anno di prove dagli esiti discontinui, ma due sono da segnalare: L’odore della notte di Claudio Caligari e Barbara di Angelo Orlando. In entrambi i film vediamo Valerio Mastandrea affiancato da Marco Giallini inaugurare un sodalizio artistico che li vedrà insieme su molti set e regalerà al pubblico momenti impagabili. La pellicola di Caligari è drammatica e illustra le gesta di una banda di rapinatori, sulla scorta di vicende di cronaca di fine anni ’70, primi ’80.
Il capo è il poliziotto Remo Guerra (Valerio Mastandrea), che lungi dall’essere un fedele servitore dello Stato, riversa al sua rabbia, la sua frustrazione, il suo sentimento di rivalsa e una certa presunzione di superiorità sulle ricche famiglie della “Roma bene”, che deruba e terrorizza con i suoi compagni di borgata. Per lui quelle famiglie sono l’emblema del conformismo perbenista e ipocrita al quale non si vuole arrendere fino in fondo, pur facendone già parte come poliziotto. Ribellione, dunque, ma non più come fisiologica fase adolescenziale, bensì come unico orizzonte nel quale sentirsi vivi. Valerio Mastandrea è perfetto in questa ulteriore declinazione del disagio esistenzial-sociale con deriva violenta. E non manca neppure lo spazio per ironia e sarcasmo.
Di tutt’altro tenore invece, la commedia dai toni surreali e dagli echi letterari diretta da Angelo Orlando, che vede il duo Valerio Mastandrea-Giallini in una prova comica esilarante e stralunata, basata su una situazione costrittiva (i due sono legati a un letto) e claustrofobica (lo spazio è quello di una stanza) e sull’estenuante attesa di un personaggio – la Barbara del titolo. A completare il tutto, una galleria di personaggi improbabili che entrano ed escono dalla stanza.
Nel frattempo, l’attore dà prova di saper incarnare più d’ogni altro della sua generazione la romanità autentica e verace – sbruffona, irridente, al solito ironica, ma anche tragicamente dolente – anche in teatro. Ottiene infatti una vera e propria consacrazione con Rugantino, commedia musicale di Garinei e Giovannini, ambientata nell’800, che lo vede protagonista nel ruolo già affidato ai grandi Manfredi e Montesano. Accanto a lui Sabrina Ferilli, Maurizio Mattioli e Simona Marchini. Lo spettacolo viene replicato per due anni con grande successo di pubblico. Atmosfere di una Roma che fu si respirano anche nell’ultima opera di Luigi Magni, La carbonara, cui Valerio Mastandrea partecipa unendosi a un variegato cast.
Il nuovo millennio inaugura anche un nuovo sodalizio: quello tra l’attore romano e il regista Daniele Vicari. Infatti, quest’ultimo sceglie proprio Valerio per il suo esordio nel lungometraggio Velocità massima, e gli affida il ruolo di Stefano: inaridito e cinico meccanico, con la passione per la velocità, che modifica macchine nella sua officina assieme al neoassunto Claudio. I due si danno alle corse clandestine. Non può mancare una donna da contendersi. Vicari punta il suo obiettivo sul mondo delle corse, mostrando una capitale per molti inedita e un’umanità squallida, grigia, greve, che cerca di sentirsi protagonista almeno sulle quattro ruote. David di Donatello per la regia. Del cast del film fa parte come attore Ivano De Matteo, che a sua volta esordirà dietro la macchina da presa con Ultimo stadio, avvalendosi della collaborazione di Valerio Mastandrea e lo ritroverà in seguito in Codice a sbarre (2004) e ne Gli equilibristi (2012).
Ettore Scola lo vuole
per un affresco di Roma e della sua gente. Partecipa a
Lavorare con lentezza di Guido Chiesa ed è nel
nuovo film di Vicari, L’orizzonte degli
eventi, che però non bissa il successo dell’esordio. Lo
ritroviamo ne Il Caimano di
Moretti. E poi, da amante del pallone (è indefesso
tifoso della Roma) Valerio
Mastandrea non si lascia sfuggire un film a episodi
sul gioco del calcio, opera prima di quattro registi esordienti
(Michele Carrillo, Claudio Cupellini, Francesco Lagi e Roan
Jhonson). Così è nel cast di 4-4-2: il gioco più bello
del mondo, nei panni di un portiere che vende la gara decisiva
dei suoi.
Nel 2007 lo troviamo in due riuscite commedie. La prima è Notturno bus (2007), dove caratterizza al meglio un malinconico e disincantato autista di bus, Franz, coinvolto in un rutilante vortice di eventi dall’incontro con la bella ladra Leila/Giovanna Mezzogiorno, sullo sfondo di una intrigante Roma by night. La coppia funziona, coadiuvata da ottimi comprimari in un’originale commistione di generi. L’altra commedia, in cui l’attore dà vita a uno dei suoi personaggi più riusciti, è la divertente Non pensarci, di Gianni Zanasi. Il personaggio di Stefano Nardini sembra cucito addosso a lui (che è anche un appassionato di musica). Trentaseienne musicista punk frustrato e sfortunato, che in un momento di crisi esistenziale torna nel natio e operoso nord, a cercare conforto nella famiglia, salvo scoprire che lì tutti hanno problemi anche più grossi dei suoi, e che sembrano fare affidamento proprio su di lui per risolverli. Situazione paradossale, quindi, una famiglia sconclusionata, stravagante, ma alla fine unita da un profondo affetto.
Inoltre, un’evoluzione rispetto ai ruoli precedenti: se infatti finora i personaggi di Valerio Mastandrea erano stati contestatari, ribelli, fieri nemici del perbenismo e del conformismo, chiusi in una loro presunta superiorità, qui il protagonista – che pure parte da questi presupposti e critica aspramente la famiglia – vedrà alla prova dei fatti che questa non è un mondo non così chiuso e lontano da lui, anzi, per certi aspetti è certo più autentico di quello che ha lasciato a Roma. Si troverà a dare una mano per risolvere i problemi reali, anziché limitarsi alle critiche auto compiaciute: un proficuo scambio d’esperienze che prende il posto della mera contrapposizione. Il tutto, sorretto non solo dalla sua magistrale interpretazione – per la quale è candidato al David e al Nastro d’Argento e si aggiudica il Ciack d’Oro – ma da un’ottima sceneggiatura, che lo rende protagonista di gag esilaranti e dà il giusto ritmo all’azione, e da un cast di ottimo livello – basti pensare a Giuseppe Battiston nel ruolo del fratello maggiore. Il film diventerà poi una serie televisiva diretta da Lucio Pellegrini e Gianni Zanasi, che lo vedrà ancora protagonista.
Nel 2008 partecipa al
fortunato Tutta la vita davanti di Paolo Virzì, tra le
prime pellicole a prendere di petto il problema della precarietà
tra i giovani, protagonista Isabella Ragonese nei panni di una
giovane laureata che trova lavoro in un call center. Virzì ci fa
entrare in questo mondo spietato, dominato da un’agguerrita
competizione, da ipocrisia e logiche da sfruttamento selvaggio,
dipingendolo nei particolari, con personaggi assai
vividi. Valerio Mastandrea interpreta il
sindacalista che aiuterà la protagonista a denunciare gli abusi
commessi dall’azienda. Ma questo è soprattutto l’anno in cui
l’attore romano affronta un’ardua sfida. Ozpetek gli affida infatti
un personaggio che non ha nulla a che vedere con quelli da lui
interpretati finora: è Antonio, l’ex marito ossessivo e violento di
Un giorno perfetto.
È un percorso complesso negli abissi della follia umana, anzi, al limite dell’umano, come l’attore stesso ha affermato: “è un personaggio al limite tra l’animale-uomo e l’uomo, un personaggio devastante” ma dal quale, dice, “non mi sono fatto devastare”. Antonio non accetta la realtà – la separazione da sua moglie Emma/Isabella Ferrari, la rottura del nucleo familiare che lo allontana anche dai due figli. La rabbia e il desiderio di possesso e controllo esploderanno nella maniera più devastante. Pur con qualche ingenuità e qualche caduta nel melodramma, specie nelle storie che ruotano attorno alla principale, la vicenda dei due protagonisti non può che impressionare lo spettatore, con un inedito Valerio Mastandrea che brilla in questo ruolo cupissimo, da orco, da incarnazione del male, dando prova di grande versatilità – è premiato con il Golden Graal come miglior attore drammatico. Mentre Isabella Ferrari rende ottimamente lo spaesamento stralunato, lo scollamento da una realtà che nonostante tutte le prove, non riesce a guardare col necessario realismo.
Altro ruolo di simile cupezza, e pari straziante efficacia, dove però la violenza si rivolge più contro sé stesso che contro altri, è quello dell’ex pugile depresso di Good morning Aman, esordio del regista Claudio Noce e primo lungometraggio di cui Valerio Mastandrea è anche produttore – “ho dato una mano”, perché “oggi non basta più fare i film solo con la propria faccia”. È la storia di due vite ai margini – l’ex pugile Teodoro e il giovane italo-somalo Aman/Said Sabrie – e di un’inattesa amicizia. Crudo realismo, assenza di retorica, di pietismo; rabbia esibita o repressa, desolazione sono le chiavi del film, che nonostante le buone prove, non ha avuto un gran riscontro.
Il 2010 invece, è
l’anno del grande successo che mette d’accordo pubblico e critica.
Arriva grazie ad una nuova collaborazione con Virzì, nel suo film
forse più personale: La prima cosa bella,
ambientato nella sua città natale, Livorno. Con un ottimo cast,
tutto straordinariamente in parte: oltre a Valerio
Mastandrea, Stefania Sandrelli, Micaela
Ramazzotti, Marco Messeri, Claudia Pandolfi. Tutti assieme
a colorare una commedia che è un affresco della provincia italiana
degli ultimi quarant’anni, che parla di affetti e legami familiari
in modo non banale o stereotipato, ma ironico e disincantato e vede
il figlio Bruno/Valerio Mastandrea, insegnante
quarantenne perennemente a disagio, introverso e con molti
“vuoti” da colmare, fare i conti con la figura dell’ingombrante,
esuberante, affettuosa mamma Anna/Ramazzotti e Sandrelli, da cui si
era allontanato tanti anni prima. Il risultato fa sorridere e
commuove al tempo stesso. Il film fa incetta di David e Nastri:
finalmente il nostro ottiene il David di Donatello, con cui sarà
premiata anche Micaela Ramazzotti. Nastro d’Argento per Ramazzotti
e Sandrelli, ma anche per il miglior film, sceneggiatura e
costumi.
Nel 2011 l’attore romano partecipa a diversi progetti, spaziando dalla commedia al dramma – da Nessuno mi può giudicare e Cose dell’altro mondo a Ruggine. Ed esordisce anche come scrittore con lo pseudonimo di Saverio Mastrofranco, firmando assieme a Francesco Abate il romanzo ispirato dalla vicenda di quest’ultimo, Chiedo scusa.
Quest’anno, lo abbiamo visto in quello che definisce “il lavoro più difficile che ho fatto finora”, ovvero vestire i panni del commissario Luigi Calabresi nel film di Marco Tullio Giordana Romanzo di una strage. Nella ricostruzione storica che Giordana fa della strage di Piazza Fontana, delle indagini e dei processi che la seguirono, dei personaggi che in tutta questa complessa e lunga vicenda ebbero un ruolo, il controverso personaggio del commissario capo della questura milanese esce come avvolto in una nebbia, resta in gran parte oscuro. La morte di Pinelli, che vola dalla finestra della questura, proprio quella dell’ufficio di Calabresi, mentre lui non c’è. La violenta campagna di stampa e d’opinione contro di lui che ne consegue, infine l’agguato di cui rimane vittima. Ma dell’uomo Calabresi, di come viva tutto ciò, sappiamo poco, restiamo distanti, non possiamo approfondire. Forse un eccessivo pudore del regista, che però influisce sulla resa del personaggio: freddo, trattenuto.
Con Gli equilibristi di Ivano De Matteo siamo in tutt’altro ambiente, epoca e situazione, ma c’è anche tutt’altro coinvolgimento: pur nella chiave estremamente misurata, fatta di sguardi più che di parole, mai sopra le righe, qui passa tutta l’emozione necessaria a farci soffrire con l’impiegato Giulio, che sbaglia e paga caro, non riuscendo poi a sopportare il peso economico ed esistenziale di una separazione ai tempi della crisi. Se all’inizio ridiamo amaramente con lui di una realtà cinica, che non perdona, poi viviamo la sua vergogna, il senso d’indegnità che lo portano a chiudersi sempre più in sé. Con lui riflettiamo sul momento che stiamo vivendo e di cui finalmente negli ultimi tempi si parla anche al cinema. Anche se, dice Valerio Mastandrea, “la crisi c’è sempre stata, c’è da quindici anni. Per questo non condivido chi parla di nuova povertà. Ciò che colpisce oggi, invece, è la normalità con cui ci si può sprofondare. Oggi tutto è pronto per tirarti giù. È questa la novità”. Con questa interpretazione si è guadagnato il Premio Pasinetti al Festival di Venezia, dove il film, attualmente nelle sale, è stato accolto con dieci minuti di applausi.
Dal prossimo 4 ottobre lo vedremo invece ne I padroni di casa di Edoardo Gabriellini, assieme ad Elio Germano, mentre dal 18 ottobre sarà nelle sale con l’ultima fatica di Silvio Soldini Il comandante e la cicogna. Nel cast con lui, Alba Rohrwacher, Giuseppe Battiston, Claudia Gerini, Luca Zingaretti.
Chi invece volesse vederlo sul palcoscenico, dovrà aspettare il prossimo febbraio. Debutterà infatti il 14 al Teatro Ambra Jovinelli di Roma con uno spettacolo da lui anche diretto e scritto da Mattia Torre: Qui e ora, in scena fino al 3 marzo.
Arriva il primo trailer di Beautiful Creatures – La Sedicesima, la saga che erediterà con ogni probabilità il vuoto lasciato dalla fine della Saga di Twilight. Protagonisti del romanzo sono Ethan, un normale ragazzo che abita in una sonnecchiosa cittadina del Sud Carolina e Lena Duchannes, la ragazza dei suoi sogni (letteralmente) appena arrivata in città. Tra i due si instaura subito un legame (sono connessi tra loro con il Metapensiero e ognuno sente i pensieri dell’altro), che sfocia in amore. Ben presto Ethan scoprirà che la famiglia di Lena è tormentata da una terribile maledizione e che lui è l’unico in grado di proteggerla.
Beautiful Creatures – La Sedicesima è scritto e diretto da Richard LaGravanese (P.S. I Love You). Nel cast, oltre ai due protagonisti interpretati da Alden Ehrenreich e Alice Englert, ci sono anche Viola Davis, Jeremy Irons, Emma Thompson, Thomas Mann ed Emmy Rossum.
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Gael García Bernal (Ernesto “Che” Guevara per Walter Salles ne I diari della motocicletta) affiancherà Matthew McConaughey in The Dallas Buyer’s Club di Jean-Marc Vallée. Ispirato ad una storia vera, il film è incentrato sul personaggio di Ron Woodroof, interpretato da Matthew McConaughey. Woodroof, elettricista texano con diagnosi di AIDS, inizia un traffico di medicine alternative per aiutare se stesso ed altre persone affette dalla medesima patologia. Le sue azioni però lo portano presto in rotta di collisione con al Us Food and Drug Administration, contraria all’uso di farmaci alternativi sul suolo americano. Gael Garcia Bernal interpreterà uno dei malati di AIDS riforniti da Woodroof. Le riprese del film inizieranno il prossimo novembre.