E’ stato rilasciato il red band
trailer di 30 Minutes or less, il nuovo film del regista di
Zombieland Ruben Fleischer.
La Warner Bros. ha rilasciato
in via esclusiva su Tiscali.it, il trailer finale in italiano di Lanterna
Verde! Il video è ricco di particolari riguardanti l’alieni e
villain.
Ecco il nuovo trailer internazionale di Conan The Barbarian, vietato ai minori. Nel cast Jason Momoa, Rachel Nichols, Stephen Lang, Rose McGowan, Saïd Taghmaoui, Ron Perlman, Leo Howard, Steve O’Donnell, Raad Rawi Fassir.
“Dreamland, la terra dei sogni è una storia (romantica e di formazione) a cavallo del tempo, per raccontare un classico viaggio di emigranti dal sud Italia nel primo dopoguerra verso la ‘mmerica”. Inizia così la sinossi della pellicola di Sandro Ravagnani, famoso per aver ideato, scritto, realizzato e condotto molti programmi radiotelevisivi come, tra gli altri, “Domenica In” con Corrado, “Tutti insieme alla radio” [Radio 2] e una miriade di trasmissioni sul circo.
In occasione dell’uscita in DVD di Yves Saint Laurent: L’amour fou, è stata organizzata una proiezione speciale del film presso la Sala Cinema del Palazzo delle Esposizioni a Roma. Con questa pellicola, presentata al Festival Internazionale del film di Roma nel 2010, il regista Pierre Thoretton non vuole semplicemente rendere omaggio ad uno dei più famosi stilisti degli ultimi decenni, ma desidera regalarci un affresco dei cinquant’anni di attività di un genio, attraverso gli occhi innamorati di Pierre Bergé, suo compagno nella vita e nel lavoro, che non lo ha mai abbandonato, neanche dopo la sua morte nel 2008. Pierre Bergé racconta appunto le varie fasi della carriera dello stilista, divenuto celebre e conosciuto in tutto il mondo della moda già a 20 anni, per essere stato collaboratore di Dior e averne preso il posto dopo la sua scomparsa nel 1957. Lasciata la maison Dior negli anni Sessanta, crea con Bergé l’omonima etichetta Yves Saint Laurent.
Raggiunge subito il massimo prestigio grazie al suo enorme talento e alla sua passione per l’arte che trasferisce direttamente nelle sue collezioni. Ma questo lato della sua vita è ben noto. Quello invece che Thoretton racconta attraverso Bergé è la storia di un uomo, genio si, ma pur sempre uomo, con le sue passioni, la sua timidezza, le sue paure, la sua solitudine, la sua sofferenza e i suoi eccessi nell’abuso di alcool e droghe. Yves Saint Laurent: L’amour fou si apre con il comunicato che lo stilista fa in occasione del suo ritiro dal mondo della moda. Traspare tutta la sua passione e amore per un mestiere che per lui non era semplicemente un lavoro, ma la vita stessa. Il tono è decisamente sommesso, ma allo stesso tempo è consapevole di aver preso la giusta. Nel film vengono alternate le immagini in bianco e nero con quelle a colori, utilizzando la bicromia per rappresentare la vita passata dello stilista. Bergé descrive l’immagine di un uomo con un grande dono, ma carico di responsabilità fin dalla giovinezza e attraversato da una profonda solitudine da sempre. Le note del pianoforte che accompagnano l’intervista a Bergé sono malinconiche, quasi a volerci far provare gli stessi sentimenti di Yves nei momenti di infelicità che col tempo lo hanno reso schiavo delle droghe e dell’alcool.
In ogni momento Yves Saint Laurent: L’amour fou risulta emozionante rendendo lo spettatore partecipe e sempre attento all’evoluzione della narrazione. Dopo la disintossicazione Yves si ritira lentamente nel suo guscio, allontanandosi dalla mondanità e gettandosi a capofitto nel lavoro. Bergé non nasconde la sua difficoltà nello stare accanto ad una personalità così grande ma allo stesso tempo piena di fragilità ed insicurezze, eppure mai abbandonato, sia nel lavoro che nella vita privata, anche dopo aver lasciato la casa che avevano condiviso a lungo, trasferendosi nell’hotel in fondo alla strada, incapace di spezzare il legame che da sempre li ha uniti. Il carisma di un uomo divenuto una leggenda nel mondo della moda, trasuda nelle parole dell’amante che non vuole ricordare con nostalgia i momenti vissuti col suo grande amore, ma con felicità.
Il regista al contrario sottolinea l’immortalità del mito con le immagini delle sue creazioni, ma allo stesso tempo la morte di un uomo, con scelte cromatiche ben precise e una musica che a dispetto delle parole di Bergé, lascia nello spettatore un sentimento di malinconia. Le opere d’arte che i due hanno collezionato nel corso della loro vita insieme vengono battute all’asta dopo la morte dello stilista. Gli oggetti che, dopo la scomparsa del suo amante, per Bergé non hanno più lo stesso significato meritano di avere una nuova vita. Nel corso di Yves Saint Laurent: L’amour fou la casa si svuota lentamente di tutti i quadri e le sculture, un po’ come metafora della vita e non della morte, infatti gli oggetti racchiudono dei significati che i possessori hanno loro attribuito e che non moriranno mai. Non è morte, ma altra vita, non è perdita ma acquisizione ed evoluzione di significato.
La Warner Bros. ha appena diffuso il Full Trailer di Harry Potter e i Doni della Morte – Parte 2. C’è grande attesa ed emozione nel pubblico. Questo ad un mese dall’uscita è l’ultimo trailer che sarà diffuso dalla produzione. Vi invitiamo a commentarlo visto che sarà l’ultimo.
Ecco il trailer:
Harry Potter e i Doni della Morte – Parte 2 settima e ultima avventura della serie dei film di Harry Potter. Harry Potter e i Doni della Morte – Parte 2 è diretto da David Yates, regista anche di “Harry Potter e l’Ordine della Fenice” e “Harry Potter e il principe mezzosangue”. David Heyman, produttore di tutti i film della serie, ha prodotto il film con David Barron. Steve Kloves ha adattato la sceneggiatura, basata sul libro di J.K. Rowling.
Lionel Wigram è il produttore esecutivo. Daniel Radcliffe, Emma Watson, Rupert Grint, riprendono i ruoli di Harry Potter, Ron Weasley e Hermione Granger, e nel cast ci sono anche Helena Bonham Carter, Gary Oldman, Alan Rickman, Ralph Fiennes, Tom Felton, Bonnie Wright, Jamie Campbell Bower, Michael Gambon, Jason Isaacs, Maggie Smith, John Hurt, Ciarán Hinds, Jim Broadbent, Evanna Lynch, Emma Thompson, David Thewlis, Rhys Ifans, Domhnall Gleeson, Clémence Poésy, Kelly Macdonald, James Phelps, Oliver Phelps, Warwick Davis, Devon Murray.
Dopo film di discreta fattura e di buon successo come Fuori in 60 secondi e Codice: Swordfish, Dominic Sena torna sul grande schermo con L’ultimo dei Templari. Behmen (Nicolas Cage) e Felson (Ron Perlman), cavalieri crociati, disertori a causa della disillusione che il massacro in nome di Dio ha portato su terre lontane, si recano in un tetro villaggio assediato dalla peste , con l’intento di ritrovare le forze per proseguire il cammino.
Qui però vengono riconosciuti come disertori e come unica alternativa alla morte viene proposto loto di accompagnare una ragazza (Claire Foy), accusata di stregoneria e causa principale della pestilenza, in un remoto monastero dove verrà processata. Costretti ad accettare, i due intraprendono il loro viaggio accompagnati da un giovane prete (Stephen Campbell), un nobile cavaliere (Ulrich Thomsen), una guida (Stephen Graham) e un giovane aspirante cavaliere (Robert Sheehan). Ma i sei giorni che li separano dal monastero saranno molto più complicati di quello che si aspettavano. La ragazza si rivelerà presto essere qualcosa di veramente oscuro e i protagonisti della pellicola verranno messi di fronte al re degli inferi: Lucifero.
Il prestigio di Dominic Sena non verrà certo accresciuto dalla sua ultima fatica. Nonostante le tematiche trattate siano interessanti e sempre attuali, questo lavoro non entusiasma rimanendo uno sterile contenitore di effetti visivi che oscurano la trama, in verità abbastanza esile. L’aspettativa creata nella prima parte del film , peraltro ben costruita, non lascerà alcuna traccia nello svolgimento della vicenda, facendo perdere peso all’intreccio e disegnando i due protagonisti come fantasmi senza meta che non lasciano alcun segno rilevante.
Un Nicholas Cage, impegnato a dare sfogo alle sue manie di protagonismo, lascia la scena ad un enigmatico Ron Perlman (Hellboy e Hellboy 2 – The Golden Army), il quale riesce a dare maggior credibilità al suo personaggio. E pensare che invece, tutta la campagna pubblicitaria del film ha posto l’accento sulla presenza nel cast dell’attore de Il Ladro di Orchidee. Inoltre, l’aspetto fondamentale del film, ovvero l’eterna lotta tra il Diavolo e l’Acqua Santa, viene confusa con uno banale scontro tra supereroi, e ne viene annacquato il profondo significato che avrebbe potuto dare alla pellicola uno spessore diverso.
Alla sua seconda fatica il giovane regista Gabriele Albanesi presenta al suo pubblico un’opera mediocre. Ubaldo Terzani Horror Show è un thriller/horror connotato da forti componenti oniriche e visionarie. La storia è quella di un giovane aspirante regista, Alessio Rinaldi (Giuseppe Soleri), che deve scrivere il suo nuovo film con uno scrittore horror affermato, Ubaldo Terzani, che si rivelerà, ma non è una grossa sorpresa, un serial killer.
Emerge prepotentemente una sceneggiatura un po’ troppo banale e semplicistica, nonché prevedibile anche per i non amanti del genere. I dialoghi non coinvolgono lo spettatore e tendono a vertere, purtroppo, verso lo stereotipo, di italico costume, della necessaria raccomandazione nel mondo dello spettacolo e di giovani donne pronte a tutto pur di “sfondare” in questo mondo. La fotografia, amatoriale, non risalta i volti degli attori e le lugubri ambientazioni torinesi e la regia è quasi tutta giocata, veramente troppo, sulla macchina da presa fissa. La recitazione è approssimativa e poco spontanea, fatta eccezione per Paolo Sassanelli (Ubaldo Terzani), che contribuisce ad alzare il livello interpretativo.
Rispetto alla sua prima opera, “Il bosco fuori” (2006) in cui lo splatter non era relegato alla parte finale del film e molto apprezzato all’estero, Albanesi cerca di soffermarsi sulla psicologia dei suoi personaggi giocando molto sull’aspetto onirico senza però trovare la giusta chiave per catturare il pubblico. Da apprezzare lo sforzo di riportare l’horror in Italia, ma siamo davvero lontani da un Lucio Fulci sempre pronto a scioccare lo spettatore inserendo temi e stili personali all’interno del film di genere o da un Mario Bava autore di cult movie come “La maschera del demonio” primo horror gotico italiano.
Uscite 15 giugno 2011-06-11 – L’ultimo dei templari: una chiesa in difficoltà ritiene la stregoneria colpevole della peste e comanda a due cavalieri di trasportare la strega incriminata in una remota abbazia dove i monaci reciteranno un rituale che sperano faccia finire la pestilenza. Un prete, un cavaliere in lutto, un truffatore itinerante e un giovane testardo che può solo sognare di diventare cavaliere partono per la missione.
Quando la compagnia arriva all’abbazia, una tremenda scoperta mette in pericolo il voto del cavaliere di assicurare alla ragazza un giusto trattamento e li mette contro una forza inspiegabilmente potente e distruttiva.
Priest: In un mondo in cui da sempre si combatte una lotta cruenta tra esseri umani e una particolare forma di vampiri-mostri, che poco hanno di raffinato e molto di animale, la Chiesa è riuscita ad avere la meglio addestrando all’arte del combattimento una legione di preti guerrieri. Grazie a loro è stata finalmente debellata la minaccia infernale. Il prezzo da pagare però è un dominio della Chiesa sulle città-roccaforte e sulle vite di tutti gli abitanti, in quanto protettori ufficiali dal male. Ma senza nemici da combattere è duro il reinserimento nella società per i preti-guerrieri, assillati da incubi e sensi di colpa che affondano le radici nei traumi delle molte battaglie combattute. Solo l’imprevedibile ritorno di una nuova orda di vampiri darà nuovo senso alla loro crociata e nuove preoccupazioni a una chiesa più intenzionata a sostenere di aver debellato la minaccia che a prendere le dovute contromisure.
Libera uscita: Rick ha quarant’anni, una moglie, tre bambini e un amico con cui condivide la passione per le donne e la frustrazione di non poterle possedere (tutte). Immaturi e ossessionati dal sesso, consumano le loro esistenze tra i pannolini da cambiare e un gruppo di amici altrettanto infantili, che scommettono ipotetiche somme su immaginarie conigliette e miss maglietta bagnata. Esasperate dai loro atteggiamenti al limite del demenziale e del buongusto, le rispettive consorti decidono di concedere a Rick e Fred una vacanza dal matrimonio e dalle responsabilità, convinte in cuor loro di mettere fine una volta per tutte al loro indecente delirare. Ma la libera uscita, lunga sette giorni e sette notti, non darà ai degenerati coniugi i risultati sperati, appagandone il cuore prima che i genitali.
Uscite venerdì 17 giugno 2011 – I guardiani del destino: La storia è liberamente tratta dal racconto di Philip K. Dick, “Adjustment Team”, ed è incentrata su un membro del Congresso il cui futuro politico è messo in discussione da eventi incontrollabili e dall’arrivo nella sua vita di una misteriosa ballerina. Matt Damon interpreta David Norris, carismatico politico che sembra destinato alla fama nazionale, nonché alunno e giocatore di basket della Fordham University. Incontra una bellissima ballerina di nome Elise Sellas, interpretata dalla Emily Blunt, solo per scoprire che strane circostanze impediscono ai due amanti di stare assieme. Dietro le loro vicissitudini, si nasconde l’agire di quattro personaggi dotati di super poteri e in grado di scrivere il destino del Mondo.
The Hunter – Il cacciatore: Appena uscito di prigione, Ali pensa solo a recuperare il tempo perduto assieme alla moglie e alla figlia di sei anni. I turni di notte come guardiano presso una fabbrica di automobili gli impediscono di essere costantemente presente, ma Ali cerca comunque di fare il possibile per stare accanto alla famiglia. Nei momenti in cui loro sono fuori, attraversa a piedi tutta Teheran per andare a cacciare nei boschi della periferia. Un giorno, di ritorno da una di queste battute di caccia, Ali torna a casa e non trova più né la moglie né la figlia. Quando si rivolge alle autorità per denunciare la scomparsa, viene a sapere di un brutale incidente avvenuto fra la polizia e alcuni manifestanti. Shekarchi comincia e nasce da un’immagine, da una celebre fotografia scattata nel giorno del primo anniversario della fine della Rivoluzione iraniana. I titoli di testa passano su di uno sfondo indiscernibile, che solo il movimento dell’inquadratura finale ci rivela come il dettaglio di un ritratto dei pasdaran khomeiniani che calpestano a bordo di motociclette una gigantesca bandiera degli Stati Uniti.
Venere nera: Nel 1817 all’Accademia Reale di Medicina di Parigi il professor Georges Cuvier discute una tesi sulle somiglianze anatomiche fra gli ottentotti e le scimmie basandosi sugli studi effettuati sul corpo e gli organi di una donna, Sarah Baartman. La storia di Saartjie e dell’esposizione del suo corpo ha però inizio sette anni prima a Londra, dove assieme al suo padrone afrikaner tiene spettacoli di intrattenimento a Piccadilly Street interpretando una selvaggia in catene nota come la “Venere Ottentotta”.
Isola 10: Cile. Settembre 1973. Dopo il colpo di stato militare che rovescia Allende, un gruppo di ministri e di autorità del suo seguito vengono fatti prigionieri e deportati nel campo di concentramento di Dawson Island, nello Stretto di Magellano. Tra loro c’è Sergio Bitar, ministro delle miniere e consigliere economico del presidente, prigioniero numero 10, che di quella prigionia scriverà, una volta libero, dopo un lungo esilio.
6 giorni sulla terra: Il dottor Davide Piso, scienziato e ufologo esperto di rapimenti alieni, ha fatto una scoperta sconvolgente: alcune razze extraterrestri impiantano da millenni le proprie personalità nel cervello degli umani rapiti e si nutrono dell’energia delle loro anime. Per combattere le forze aliene, il dottor Piso ha sviluppato una rivoluzionaria tecnica ipnotica grazie alla quale, oltre a far rivivere ai rapiti le loro esperienze, riesce a comunicare con i parassiti alieni e a cacciarli. Ma tutto cambierà quando la giovane e misteriosa Saturnia, convinta di essere posseduta, chiederà il suo aiuto.
Il pezzo mancante: Dal 1899, anno della sua fondazione, la Fiat costruisce automobili per far andare più veloce l’economia italiana. La storia di questo pilastro del capitalismo industriale è anche la storia di una famiglia molto potente e molto in vista: gli Agnelli. Attraverso cinegiornali, filmati delle teche televisive, interviste esclusive e sequenze animate, si ricostruisce l’albero genealogico di casa Agnelli, soffermandosi in modo particolare sulla vita privata di Gianni, il celebre Avvocato, maestro di eleganza e di mondanità, di suo fratello Giorgio, rinchiuso in un ospedale psichiatrico ancora molto giovane, e del figlio Edoardo, morto suicida a quarantacinque anni. Sempre restio a ereditare la vocazione capitalista e più interessato allo spiritualismo e alle filosofie orientali che alle automobili, Edoardo può essere considerato l’emblema di un meccanismo di rimozione che riguarda le grandi responsabilità delle famiglie più potenti.
L’immagine, da sola, rivela a volte molte più sfumature nella natura umana di qualsiasi attenta analisi psicologica. Venere Nera di Abdellatif Kechiche si apre con il calco del corpo di Saartjie Baartman. Osservandolo attentamente percepiamo la sofferenza, l’umiliazione e il mistero che hanno marchiato la vita di questo essere umano.
Ci troviamo nella Parigi del 1817, accolto da un parterre di distinti colleghi, l’anatomista Georges Cuvier è categorico di fronte alla figura di Saartjie: “ Non ho mai visto testa umana più simile a quella delle scimmie”. Sette anni prima la giovane donna lasciava l’Africa del Sud con il suo padrone, Caezar, per andare a offrire il suo corpo in pasto al pubblico londinese delle fiere, diventando un’icona dei bassifondi.
Un seducente mistero avvolge la vita di Saartjie, un personaggio che lo spettatore non riesce a indagare fino infondo, non gli viene permesso. Del suo passato, di ciò che realmente pensa, la sua comprensione verso gli uomini non è mai esplicitata verbalmente. Sono i gesti, gli sguardi persi nella vastità del vuoto a parlarci dell’angoscia di un essere umano.
Kechiche, con l’utilizzo della macchina a mano e giocando con primi e primissimi piani, riproduce l’oppressione dello sguardo degli altri. Marchiata dal pregiudizio di questi occhi, Saartjie, il cui sogno era quello di poter esprimere la sua arte e i suoi molteplici talenti, si ritrova a illustrare ciò che la gente vede in lei: una caricatura. Non le viene mai chiesto di esprimersi, ma solo di dare ragione alla mentalità di quell’epoca.
Venere Nera è un film che va oltre la penosa storia di un individuo, presto ciò che emerge è una riflessione sulla complessità dei rapporti di dominazione, sul senso della dignità umana. Saartjie è al tempo stesso schiava e libera, conserva una lucida coscienza di sé e degli altri, continuamente pronti a sfruttarla, anche quando smette di lottare per vivere. Ma soprattutto ciò che colpisce di più è la spasmodica ricerca, in particolare da parte degli scienziati, di una giustificazione dello sfruttamento, la necessità di togliere ogni forma di umanità per potersi arrogare il diritto di opprimere. Kechiche tenta una narrazione in assenza di giudizio, ma non è facile.
Alla fine rimaniamo con un’unica domanda: come si può percepire, accorgersi della realtà dell’altro e passare oltre restando fermi sui propri pregiudizi?
Kaspar Toporski è un film-maker, e nella sua idea, il coccodrillo è l’essere più perfetto che esiste al mondo. La sua vita si muove a metà tra realtà e finzione, immerso com’è nei suoi sogni ad occhi aperti, nella sua realtà immaginaria e nelle sue visioni macabre e grottesche di esseri strani che popolano le sue giornate, i suoi schizzi e le sue conversazioni. Con una premesse di questo tipo ci accorgiamo che Krokodyle, l’ultimo lavoro di Stefano Bessoni (Imago Mortis), non è un film convenzionale, anzi lo si potrebbe definire appartenente ad un certo cinema sperimentale che sacrifica la narrazione a beneficio dell’immagine. Sebbene questo può rappresentare un limite per la godibilità del film, Bessoni riesce con un’incredibile forza visiva a portarci dentro il mondo di Kaspar, che probabilmente è in realtà il suo stesso mondo visionario.
Il suo personaggio, o alter-ego, si muove con impalpabile morbidezza tra un piano e l’altro, tra l’immaginazione e la realtà incontrando di volta in volta i personaggi che lui considera suoi amici: c’è Bertold, un suo collega e amico che è stato ostacolato dalla produzione nel suo ultimo lavoro con il risultato di un trattamento molto duro da parte della stampa; poi c’è Helix, affascinante fotografa, che vuole catturare la morte nella fotografia, personaggio decisamente intrigante che agli occhi di Kaspar incarna l’antico conflitto tra Eros e Thanathos che da sempre accompagna la letteratura e l’arte, e forse in maniera meno conscia, la vita di tutti i giorni. Schulz è lo scienziato pazzo, l’alchimista, confidente e amico di Kaspar, che realizza progetti e mette a punto le antiche formule alchemiche per generare la vita, passando al nostro protagonista gli oscuri segreti della sua arte.
Ognuno di questi elementi contribuisce a creare un universo affollato e claustrofobico nel quale Kaspar sembra trovarsi decisamente a suo agio, ma che a tratti inquieta lo spettatore, anche lui smarrito tra ciò che è reale e ciò che invece non lo è. La struttura del film, per dichiarazione dello stesso autore, è quella di un quaderno di appunti che comprende foto, pupazzi, animazioni, disegni, schizzi e appunti, un diario filmato della mente stessa di Kaspar, interpretato da Lorenzo Pedrotti.
E proprio in Pedrotti il film trova la sua vera e propria anima, poiché è dalla sua voce che veniamo guidati attraverso i vari capitoli della storia, una voce calma, dolce, in piacevole contrasto con le atmosfere spesso inquietanti che Bessoni costruisce, soprattutto attraverso l’utilizzo di grandangoli e con il fondamentale contributo di Leonardo Cruciano, realizzatore degli effetti speciali, e anche produttore del film, e della scenografa Briseide Siciliano. Tra gli altri interpreti si distinguono Jun Ichikawa, nel ruolo di Helix, che con la sua delicata bellezza riesce a dare corpo e vita ad uno dei personaggi più affascinanti del film; Francesco Martino è Bertold, in questo caso forse il meno convincente, al quale è affidato la splendida citazione del film di Wim Wenders Il Cielo Sopra Berlino, e il bravo Franco Pistoni, visto già in Imago Mortis, è Schulz.
Korkodyle si presenta con un film privo di narrazione, ma sarebbe più corretto dire che la sua storia non è drammatizzata, poiché è semplicemente raccontata dalla voce del protagonista che nella sua ironica deliranza farcisce il racconto di citazioni fiabesche e grottesce, dall’Alice di Carrol al Pinocchio di Collodi, il tutto accompagnato da una colonna sonora composta da brani classici tra cui il bellissimo Carnevale degli Animali già utilizzato da Terrence Malick nel suo secondo film, I Giorni del Cielo, brano che ben si associa alla sospensione temporale e spaziale che il film suggerisce.
Forte anche della splendida fotografia di Ugo Lo Pinto, Krokodyle può definirsi un coraggioso esperimento di cinema indipendente, un prodotto purtroppo poco vendibile, ma molto affascinante, macabro e ironico allo stesso tempo, animato da uno spirito di ricerca e di onestà che probabilmente il cinema italiano ha smarrito.
The Tree of life è appena uscito negli States in una distribuzione strategica con poche sale mirate e che durerà tutta l’estate,ed ecco arrivare in supporto un’interessante featurette in cui due registi di altissimo livello, ovvero Christopher Nolan e David Fincher parlano del film e di Terrence Malick.
Ecco la featurette:
Fonte: apple.com
Sembra proprio che finalmente un regista sia stato trovato. Dopo l’abbandono di Darren Aronofsky, The Wolverine è stato accostato a numerosi registi ma pare che alla fine la spunterà James Mangold(Innocenti bugie). La sua posizione secondo Deadline è in netto vantaggio rispetto a quelle di Gavin O’Connor e Antoine Fuqua. Se il regista sarà confermato le riprese potrebbero già iniziare in autunno in Giappone.
Russell Crowe è entrato ufficialmente nel cast Man of Steel, il nuovo film della saga di Superman diretto da Zack Snyder. A dare la notizia ci ha pensato Variety, aggiungendo che l’attore interpreterà nientemeno che Jor-El, padre biologico di Superman, che ricordiamo avrà il volto di Henry Cavill. A completare il cast importante anche Amy Adams, Diane Lane, Kevin Costner, Michael Shannon e Antje Traue. Ricordiamo inoltre che a produrre la pellicola saranno Christopher Nolan, Charles Roven, Emma Thomas e Deborah Snyder. Le riprese inizieranno a luglio, mentre il film è atteso nelle sale al fine di Luglio
Fonte:variety
Che fine ha fatto Baby Jane? è il film del 1962 diretto da Robert Aldrich e con protagonisti ette Davis, Joan Crawford, Victor Buono.
Jane è una bambina prodigio, che come la famosa Shirley Temple, incanta migliaia di spettatori con i suoi boccoli biondi e la sua vocina. La sorella quasi coetanea Blanche, al suo opposto bruna e introversa, vive nell’ombra del suo successo, subendo il carattere vivace e viziato della famosa sorella.
Crescendo però le cose si invertono. Jane diventa un’attrice mediocre che nessun regista vuole ingaggiare, mentre Blanche è diventata un’autentica star di Hollywood. Anzi, è quest’ultima che cerca di convincere i registi a far lavorare la viziata sorella. Un misterioso incidente d’auto, proprio davanti al cancello della loro casa, rende paralitica Blanche, che è quindi costretta a dipendere da Jane. Le loro sorti si invertono di nuovo. Un thriller drammatico che tiene lo spettatore col fiato sospeso fino alla fine, tanto da farlo soffrire insieme a Blanche. La pellicola in bianco e nero (stupenda fotografia di Ernest Haller) e le inquadrature (molto vicine alla tecnica televisiva, come i diversi zoom su oggetti chiave delle scene) rendono la storia ancora più emotivamente coinvolgente.
Non manca qualche intermezzo divertente – legato alla buffo aspetto del maestro di piano (classico mammone alto e grasso) e della sua mamma – che interrompe brevemente il pathos generato dal film. Le attrici scelte per questo film non potevano che essere Joan Crawford e Bette Davis, realmente in competizione. Ma oltre a questo fattore legato più al gossip, la scelta è ottimale soprattutto per la bravura delle due interpreti, tra le migliori attrici di Hollywood degli anni ’30-’40.
Che fine ha fatto Baby Jane? è un capolavoro che da il là al genere del melodramma horror, più specificamente di un sotto genere cinematografico impietosamente chiamato “horror geriatrico”, per l’uso che fa di vecchie dive mattatrici che trovano pane per i loro denti in ritratti over the top di anziane psicolabili e/o psicopatiche. Eccezionale anche la fotografia di Ernest Haller che, in un suggestivo bianco e nero, riesce a dare al film il fascino visivo necessario e conferire stile ed eleganza a una vicenda dalle tinte molto forti. Oltre alle due dive protagoniste, nel cast brilla un eccezionale Victor Buono, indimenticabile nel ruolo di un viscido impiccione.
Che fine ha fatto Baby Jane? è lungometraggio alquanto insolito per il regista Robert Aldrich (che ha lavorato come aiuto regista con autori come Chaplin, Renoir, Losey), il quale si è fatto notare per una serie di film polemici nei confronti del cinema hollywoodiano. Iniziò con una feroce requisitoria contro Hollywood in Il grande coltello (1954).
La sua visione critica della storia americana e dei suoi valori si espresse inoltre in alcuni film duri e sferzanti come L’ultimo apache (1954), Vera Cruz (1954), Un bacio e una pistola (1955), Prima linea (1956). Il suo cinema di denuncia continuò con in film sulla violenza collettiva con Quella sporca dozzina (1967), proseguì abbracciando l’universo carcerario con Quella sporca ultima meta (1974) per culminare con un pamphlet sui metodi brutali della polizia con I ragazzi del coro (1977), un film questo che gli attirò gli strali dei moderati del suo Paese. Nel 1981 girò l’ultimo film, California Dolls, sul mondo spietato e primitivo del catch.
In fondo, anche Che fine ha fatto Baby Jane?, seppur in una prospettiva thriller, costituisce una critica al Mondo spietato di Hollywood. Che crea miti con la stessa facilità con cui li distrugge, rovinando intere vite.
Per la canzone I’m written a letter to daddy cantata da Baby Jane all’inizio del film si prese spunto da una canzone cantata Marilyn Monroe (che recitò insieme a Bette Davis in Eva contro Eva (1950)) in Facciamo l’amore (1960). Bette Davis recitò nuovamente insieme a Victor Buono e a Wesley Addy due anni dopo in Piano… piano, dolce Carlotta (1964) diretto sempre da Robert Aldrich. La curiosa teenager che abita nella casa accanto alle sorelle Hudson, era in realtà la vera figlia di Bette Davis, Barbara Davis Hyman. Aldrich ha inserito nel film spezzoni di altre pellicole che le due attrici hanno interpretato veramente negli anni trenta: Tormento (1934) con la Crawford; Uomini nello spazio (1933) con la Davis.
Nel 1991 le due sorelle Lynn e Vanessa Redgrave ne hanno interpretato il remake per una produzione televisiva dall’identico titolo: What Ever Happened to Baby Jane?. Nel 2007 la rockband Demonilla ha inciso nel Cd “Evoluzione” un brano ispirato al film, dal titolo “Baby Jane (che fine hai fatto?)”. Esiste una parodia di Totò di questo film intitolata Che fine ha fatto Totò Baby? diretta da Ottavio Alessi e uscita nel 1964.
Il cinema americano deve molto alla sua zazzera bionda e ai suoi occhi azzurri, al suo volto bello, ma non del tutto convenzionale, che ha utilizzato negli anni per caratterizzare personaggi assai diversi. Dal novello sposo di un’eccentrica Jane Fonda in A piedi nudi nel parco, all’amante inquieto di una volitiva Barbara Streisand in Come eravamo, allo spirito libero de La mia Africa. Ma anche gente di malaffare, come il rapinatore Sundance Kid di Butch Cassidy, o il truffatore de La stangata. E non si è fatto neppure mancare ruoli da onesto cittadino che si batte contro le storture del sistema, come ne I tre giorni del condor e Tutti gli uomini del presidente. Ha prestato la sua espressività a personaggi piuttosto complessi, spesso scomodi: uomini imprigionati in storie d’amore intense, ma impossibili, o in complotti e scandali più grandi di loro. Decisi, ma fragili allo stesso tempo, orgogliosi, ironici, talvolta eroici loro malgrado. Poi è passato dietro la macchina da presa, distinguendosi nella direzione di pellicole di impianto classico, sentimentale, romantico, con una forte presenza della natura, da lui tanto amata. Sempre con un occhio rivolto alla sfera individuale, e uno a quella collettiva. Produttore, con la sua Wildwood Enterprises, scopritore di nuovi talenti e sostenitore del cinema indipendente, ha fondato il Sundance Institute e patrocinato il Sundance Film Festival, rispettivamente fucina e vetrina di giovani attori e registi che vogliono crescere lontano dallo strapotere hollywoodiano. Da interprete ha segnato il cinema di almeno tre decenni (‘60-‘80), da regista ha lasciato la sua impronta negli altri due (’90- ’00).
Charles Robert Redford Jr. nasce a Santa Monica, in California, nel ’37, da madre casalinga e padre lattaio di origine irlandese, poi contabile alla Standard Oil (negli anni ’50). Dopo la morte prematura della madre, avvenuta a soli 41 anni, e dopo essersi diplomato, parte per l’Europa, facendo vita d’artista. Amante della natura, infatti, si è dato alla pittura. Visita Francia e Italia. Nel ’57 è di nuovo negli Stati Uniti, dove decide di iscriversi al Pratt Institute of Arts di New York. Propende per la recitazione, e si iscrive all’Accademia Americana di Arti Drammatiche. In questo periodo conosce Lola Van Wagenen, che sposerà nel ’58. Nel ’59 nasce il suo primogenito Scott, che muore poco dopo. Ma l’attore avrà con Lola altri tre figli – nel ’60 nasce Shauna, due anni dopo James, oggi sceneggiatore, e nel ’70 Amy, attrice.
È il ’59, però, l’anno del suo debutto teatrale a Broadway, con la partecipazione a Tall story. Nei primi anni ’60 inizia a lavorare per la tv e prosegue col teatro. Ma soprattutto, esordisce al cinema nel 1961, in Caccia di guerra di Dennis Sanders, ambientato nel ’53 durante la guerra di Corea. Accanto a lui, tra gli altri, recita l’amico Sydney Pollack, che punterà su di lui per diverse fortunate pellicole, mettendo in luce l’astro Redford nel firmamento hollywoodiano, prima, e ne consoliderà la fama, poi. Nel ’65, sarà in un paio di divertenti commedie: Situazione disperata, ma non seria e Lo strano mondo di Daisy Clover, dove reciterà accanto all’amica Natalie Wood. Il talento di Redford nella commedia è d’altronde noto dalle sue prime esperienze teatrali. Ed è proprio con una commedia di cui era stato già protagonista in teatro, per la regia di Neil Simon, A piedi nudi nel parco, che arriva il primo vero successo sul grande schermo. È il 1967 e il film è diretto da Jamy Saks. La coppia di caratteri opposti formata da Redford e Jane Fonda funziona più che bene nel dipingere la difficile quotidianità di due novelli sposi. Ne scaturisce un godibile ed esilarante racconto di illusioni che cadono e ostacoli da superare: la scoperta dell’altro nel bene e nel male, con pregi e difetti, con cui fare i conti tutti i giorni. A Redford il compito di impersonare il marito compassato e razionale, alla Fonda quello di calarsi nei panni dell’eccentrica e svagata moglie, senza dimenticare Mildred Natwick nei panni della tipica suocera.
Un altro importante incontro nella carriera di Redford è quello con George Roy Hill, che lo sceglie prima per interpretare il ruolo di Sundance Kid in Butch Cassidy (’69), poi per La stangata (’73). Nasce e si consolida così una delle coppie più affiatate della storia del cinema americano: Redford incontra Paul Newman, e il successo è assicurato. Coppia di ladri, assaltatori di treni e banche nel Far West nel primo caso, di truffatori nell’America della Grande Depressione nel secondo. Uno più esperto (Newman), l’altro giovane, ma promettente (Redford). Molta ironia, interpretazioni perfette e ruoli complementari, colonne sonore che restano stampate nella memoria (Raindrops keep fallin’ on my head di Burt Bacharach nell’uno, e il celebre ragtime di Scott Joplin The Entertainer nell’altro). Questi gli ingredienti di sicura riuscita cui Hill s’affida. E non sbaglia, vista la pioggia di Oscar – è proprio il caso di dirlo – che cade sulle due pellicole: cinque statuette per Butch Cassidy e addirittura otto per La stangata. Per il ruolo di Sundance Kid, Redford si aggiudicherà il BAFTA – che spetterà anche alla protagonista femminile Katherine Ross – mentre per quello di Johnny Hooker, l’attore riceverà il David di Donatello come Miglior Attore straniero.
In questi stessi anni la collaborazione con Pollack dà i suoi primi frutti. Se già nel ’66 questi aveva diretto Redford nel suo secondo film, Questa ragazza è di tutti, nel ’72 lo vuole per interpretare Jeremiah Johnson nel western Corvo rosso non avrai il mio scalpo. Ma il primo vero grande successo ottenuto da questa fortunata unione artistica è la commedia sentimentale Come eravamo (‘73) dove l’attore californiano recita al fianco di Barbra Streisand. È un viaggio in un ventennio di storia americana, dagli anni ’30 ai ’50, in cui si dipana la vicenda sentimentale piuttosto tormentata della coppia: Hubbell Gardner/Redford e Katie Morosky/Streisand. Lui, giovane di classe media, che sperimenta esercito e guerra, ma con la passione per la scrittura, finisce a fare lo sceneggiatore a Hollywood, durante il maccartismo. Lei, attivista di sinistra di carattere e convinzioni incrollabili, lotta per le sue battaglie. Pur nell’estrema diversità, si amano e provano ad affrontare una vita insieme. Ma i caratteri opposi alla lunga, nonostante l’amore, si rivelano inconciliabili. Gran successo del film, grazie alle ottime interpretazioni dei protagonisti, alla sapiente regia di Pollack e alla colonna sonora di Marvin Hamlisch – lo stesso che, sempre nel ’73, adatta il ragtime di Joplin per La stangata. Valanga di premi, anche in questo caso: Oscar e Golden Globe per la Miglior Colonna sonora e Canzone originale, The way we were, cantata sul finale dalla stessa Streisand. David di Donatello a lei come Miglior Attrice straniera.
Due anni dopo, Pollack e Redford bissano il successo con I tre giorni del condor. Stavolta siamo in tutt’altro clima. Redford interpreta il tranquillo impiegato Joseph Turner, che fa ricerche per conto della Cia. Scampa per caso a una strage e si troverà nel bel mezzo di una storia di servizi segreti deviati e dossier falsi, creati per far scoppiare una guerra in Medio Oriente. Saprà cavarsela abilmente, anche grazie all’aiuto di Kathy/Faye Dunaway. Qui, Redford è alle prese con questioni di ordine etico, sociale e politico. Interpreta con convinzione ed efficacia il ruolo del cittadino comune, onesto lavoratore, che, venuto a conoscenza di crimini e ingiustizie, fa la cosa giusta, scegliendo di non tacere.
Nel ’76 invece, non sarà Pollack, ma Alan Pakula a dirigere Redford in un altro classico del cinema americano, che stavolta lo vede recitare in coppia con Dustin Hoffman. Si tratta di Tutti gli uomini del presidente, dove l’attore veste i panni del giornalista Bob Woodward. È così che, dopo i politici rampanti stile Kennedy (The candidate), il maccartismo, i servizi segreti deviati, il nostro sarà uno dei due giornalisti del Washington Post che con le loro rivelazioni daranno il via allo scandalo Watergate, che porterà il Presidente Nixon alle dimissioni. Sceneggiatura di William Goldman, premiata con l’Oscar, per l’efficace adattamento del libro, scritto dagli stessi Woodward e Bernstein. Il film è la ricostruzione puntuale dell’inchiesta, cui i volti e le interpretazioni di Redford e Hoffman regalano corpo e passione civile. Passione civile che contraddistinguerà sempre Redford nella vita, oltre che nelle sue interpretazioni e nei suoi lavori da regista.
L’attore californiano interpreta poi il cowboy Sonny Steele, che non sopporta maltrattamenti e sfruttamento dei cavalli, recitando di nuovo per Pollack, ne Il cavaliere elettrico (‘79). Qui, ritrova la collega Jane Fonda. È il direttore di un penitenziario che si finge detenuto per verificare le condizioni del suo carcere in Brubaker di Stuart Rosemberg (’80), e il giocatore di baseball Roy Hobbs ne Il migliore di Barry Levinson (’84). Ma la pellicola più riuscita cui partecipa in questi anni è senza dubbio La mia Africa (’85), ennesimo capitolo del sodalizio con Pollack, che ora lo sceglie per stare accanto a una volitiva Meryl Streep, nei panni di Karen Blixen. Il film è infatti tratto dall’omonimo libro della baronessa danese, che nei primi decenni del ‘900 acquistò, e diresse da sola, una piantagione di caffè in Kenia, eleggendo l’Africa a sua terra d’adozione. Piglio da imprenditrice, indipendenza, filantropia, coraggio le doti principali di questa donna, interpretata magistralmente da una magnifica Meryl Streep. Una donna insoddisfatta della vita, pure agiata, che il marito barone le fa condurre, insoddisfatta di un matrimonio contratto per convenienza, che ha il coraggio di lasciarsi alle spalle tutto, dapprima acquistando la piantagione dove si trasferirà, poi divorziando dal marito, sempre più lontano. Coraggiosa anche nel cercare in questa nuova vita, un nuovo amore, che troverà appunto in Denys/Redford. Altra relazione tumultuosa, non la prima nella carriera di Redford attore, perché i due caratteri non collimano: possessiva lei, che attribuisce l’aggettivo “mio” a tutto ciò che ha intorno e vorrebbe farlo anche con le persone, ivi compreso ovviamente lo stesso Denys. Spirito libero lui, che non vuole rinunciare a un briciolo della sua indipendenza, nonostante l’amore per Karen. Grande successo di critica e pubblico e ancora una volta incetta di statuette (Oscar per Miglior Film, Regia, Sceneggiatura, tra gli altri), Nastro d’Argento e David di Donatello come Miglior Film straniero. Quest’ultimo riconoscimento va anche alla Streep come Miglior Attrice straniera. Nella vita privata, questo per l’attore è l’anno del divorzio da Lola Van Wagenen.
Ormai la fama di Redford è consolidata, ha avuto l’opportunità di farsi dirigere da grandi registi e lavorare al fianco dei più noti volti maschili e femminili di Hollywood. È per questo che, già all’inizio del decennio ’80, cerca gratificazioni anche in altre attività. È il 1980 quando passa dietro la macchina da presa, per dirigere Donald Sutherland, Mary Tyler Moore e Timothy Hutton in Gente comune. Si trova più che a suo agio Redford nella nuova veste di regista, ed è così abile che guadagna quell’Oscar mai ricevuto fin ora come attore. Da regista potrà dedicarsi ad esplorare le tematiche che più gli stanno a cuore: i rapporti familiari, in particolare quelli fra genitori e figli, l’amore per la natura e gli animali, ma anche la passione civile. Quest’esordio ottiene gli Oscar per il Miglior Film, la Miglior Regia e la Miglior Sceneggiatura.
Le capacità registiche di Redford saranno confermate negli anni a venire, specie nei ’90. I larghi paesaggi naturali del Montana faranno da sfondo alla storia di una famiglia americana nei primi trent’anni del secolo scorso, nel film In mezzo scorre il fiume (1992). Di buona fattura, si avvale di una trattazione classica della geografia dei sentimenti, non scevra da retorica. Due anni dopo dirige John Turturro in Quiz show, in cui riflette sul ruolo della tv nella società moderna. Nel ’98 torna al suo amore per la natura e gli animali dirigendo sé stesso e la quattordicenne Scarlett Johansson in L’uomo che sussurrava ai cavalli. Film sentimentale, in cui Redford tocca le corde più facilmente emotive dello spettatore, non rinunciando al suo stile classico, forse un po’ stucchevole, ma alla fine efficace. Ancora una volta, ambientato tra le verdi vallate del Montana. Qui il regista ritaglia per sé la parte del cowboy saggio e piuttosto solitario, che sembra quasi preferire gli animali agli uomini.
Negli anni ’90 e 2000, Redford continua a far film anche solo come attore, ma non di particolare rilievo, scegliendo di concentrarsi soprattutto sulla regia. Da molto, poi, ha creato una sua casa di produzione cinematografica, e si è dato al sostegno e alla formazione di giovani talenti artistici. Ha fondato, infatti, anche il Sundance Institute, nello Utah. Accanto a questo istituto, è nata quella che negli anni è diventata un’importante vetrina per nuove promesse del cinema: il Sundance Film Festival – oggi il maggior festival americano di cinema indipendente. Questo suo impegno nella promozione del cinema indipendente made in Usa è tra le motivazioni alla base dell’Oscar alla carriera, conferitogli nel 2002 dall’Academy hollywoodiana. Il Sundance Film Festival ha lanciato registi come Quentin Tarantino, Robert Rodriguez e Darren Aronofsky.
Tornando al lavoro dietro la macchina da presa, nel 2000 Redford dirige Will Smith e Matt Demon in La leggenda di Bugger Vance. Poi si prende una pausa, per tornare alla politica e all’attualità con Leoni per agnelli nel 2007. Cast stellare che vede, oltre a Redford stesso, Meryl Streep e Tom Cruise, per il ritorno all’impegno politico del regista californiano. Qui, il maturo Redford punta a suscitare dibattito, dubbi, domande, su quella che è forse la più grande questione politica di questi anni: la guerra in Medio Oriente come strumento di lotta al terrorismo. Nei tre episodi del film emerge la posizione nettamente antimilitarista di Redford e la volontà di smascherare la cattiva coscienza, l’ipocrisia e l’opportunismo di quella parte della società americana che sostiene le ragioni della guerra. Ma punta a scuotere anche chi, pur contrario, non fa abbastanza per opporvisi.
E torna ancora alla politica nel 2010 con The Conspirator, per raccontare la storia di una donna, arrestata con altri sette compagni dopo l’uccisione di Abramo Lincoln. Sono tutti accusati di aver tramato per uccidere il Presidente. La pellicola sarà nelle sale italiane dal prossimo 22 giugno. Ancora grandi questioni morali, politica, ma anche affetti e sentimenti, insomma gli ingredienti tipici della cinematografia di Redford, per questo atteso ritorno alla regia
Inizia a prendere forma il cast dell’adattamento del Bestseller di Max Brooks (figlio di Mel Brooks) World War Z. Oltre ai già confermati Brad Pitt e Mireille Enos, il regista Marc Forster potrebbe avere a disposizione anche Ed Harris e Matthew Fox.
Infatti, secondo alcune fonti attendibili, i due attori sarebbero alle fasi finali della trattativa per entrare nel film. Oltre a loro anche l’attrice francese Julia Levy-Boeken. Brad Pitt, interpreterà un membro delle Nazioni Unite che indaga sul conflitto mondiale scaturito dall’epidemia di zombie, accaduto 10 anni prima degli eventi narrati nel libro. Non sono ancora noti i ruoli di Harris e Fox.
Come anticipato sarà Jamie Foxx molto probabilmente il sostituto di Will Smith come protagonista del prossimo film di Quentin Tarantino, Django Unchained. Se verranno confermate le voci insistenti, Foxx interpreterà il ruolo di Django, uno schiavo affrancato che vuole disperatamente riunirsi alla moglie. Ad aiutarlo a liberarla dal perfido proprietario di una piantagione Calvie Candie, Leonardo Di Caprio, un cacciatore di taglie tedesco, interpretato da Christoph Waltz. Ricordiamo nel cast anche Idris Elba e Samuel L. Jackson, mentre Di Caprio è ufficialmente della partita. Le riprese iniziaranno questo autunno.