Arriva al cinema Femmine
contro Maschi, contraltare di rito a
Maschi contro Femmine uscito lo scorso ottobre, sempre
per la regia di Fausto Brizzi e sempre incentrato
sulle relazioni di coppia, più o meno verosimili e più o meno
apprezzabili sullo schermo.
Se Femmine contro
Maschi ha sicuramente il buono ed onesto proposito di far
ridere, purtroppo l’intenzione resta tale senza un vero e proprio
slancio di comicità che possa aiutare lo spettatore a godersi il
film. Dei tanti attori che compongono il cast forse solo
Emilio Solfrizzi riesce a strappare qualche
sorriso, soprattutto nei suoi pseudo-razzisti discorsi iniziali e
nella sua messa in scena di difetti e manie così comuni
nell’italiano medio da far pensare allo spettatore: “Sembra mio
zio!” e simili. Il resto del cast, purtroppo, è sacrificato
sull’altare della sceneggiatura, che a detta del regista è
l’elemento fondamentale per un buon film, ma che a ben vedere il
prodotto finale, non sembra poi così sicuro che il nostro Fausto
tenga presente questa dichiarazione!
Femmine contro Maschi, il film
Forse mai così sacrificati,
Claudio Bisio, Ficarra & Picone,
Luciana Littizzetto e tutti gli altri offrono
interpretazioni mediocri: il primo troppo intento a fare se stesso
su un testo che forse non gli suggeriva altro, la coppia di comici
messa alla prova su un banco che davvero non gli appartiene,
essendo la dimensione televisiva molto più consona ai loro modi. La
strizzata d’occhio alla coppia Totò e Peppino, mentre scrivono la
lettera d’amore per il ragazzino non eguaglia certo l’altro omaggio
che i comici napoletano ebbero da
Benigni e Troisi! Ed infine Luciana
Littizzetto che tanto diverte con la sua tagliente e
spietata ironia, ma che così poco bene sta al cinema, anche lei in
un ruolo e una sceneggiatura che assolutamente non si adattano al
suo personaggio.
E che dire di Serena
Autieri, Nancy Brilli e Francesca Inaudi?
La prima sembra poco più che una comparsa così come la più giovane
e meno brava Inaudi, per quanto riguarda la Brilli forse ha troppo
sacrificato la sua espressività facciale in nome dell’eterna (o
quasi) giovinezza per sembrare ormai un’attrice a tutti gli
effetti! Purtroppo questa volta Fausto Brizzi fa
un buco nell’acqua, né forma né sostanza accorrono in soccorso ad
un film che invece come formula produttiva (due film girati back to
back) ha dell’innovativo, almeno per quello che riguarda il nostro
lato dell’oceano (Atlantico).
Iniziano in questi giorni
a Barcellona le riprese del film 11/11/11 prodotto da Capacity
Pictures, Canónigo Films e la Stars Pictures di Valeria Marini per
la regia di Darren Lynn Bousman, uno dei più importanti registi del
genere horror (Saw II, Saw III, Saw IV).
Maschi contro Femmine è uscito qualche mese fa, ed ora
anche Femmine contro Maschi, il suo completamento
(parlare di sequel sarebbe sbagliato) è stato presentato alla
stampa. Il cast al completo, con un Brizzi in forma smagliante ha
presieduto l’incontro. Come sempre più spesso accade la conferenza
si è risolta in un’allegra chiacchierata tra la stampa e questa
famiglia allargata che ha realizzato il film.
A quanto pare Joe Manganiello è
sempre più lanciato per il ruolo da protagonista nel nuovo Superman
di Zack Snyder. Ora arriva anche Il Los Angeles Times a dare
sostegno ai rumors che nei giorni scorsi si erano susseguiti.Si
apprende che il protagonista di True Blood è definitivamente in
lizza per il nuovo Superman”. Questa tesi è stata avvallata da Hero
Complex, blog del Times che alcuni giorni fa aveva twittato:
Il lupo mannaro di True Blood
Joe Manganiello è il frontrunner per interpretare Superman? Questo
è il rumour del giorno a Hollywood.
The Envelope invece sostiene: Al Bake Off dell’Academy della
settimana scorsa, un evento legato al mondo degli effetti visivi
cinematografici, in molti (specialmente chi fa parte del team al
lavoro sul nuovo Superman) parlavano del fatto che Manganiello
continua a essere citato nelle conversazioni legate al nuovo volto
che avrà l’eroe del franchise.
Manganiello stesso, ultimamente ha
dichiarato più volte ai media: Sarei onorato. Adoro Zack
Snyder e Christopher Nolan.
Du tutto questo susseguirsi di voci
una verità è certa. Visto l’imminente inizio delle riprese,
previste per l’inizio della prossima estate, certamente il casting
per il ruolo principale inizia ad intensificarsi e sicuramente a
breve, massimo qualche mese sapremo chi sarà il nuovo Clark
Kent.
Superman, scritto da David S. Goyer
e diretto da Zack Snyder, uscirà a natale 2012.
Secondo Variety lo sceneggiatore
David Lindsay-Abaire sta lavorando all’adattamento cinematografico
di una serie di libri per bambini scritti da William Joyce dal
titolo The Guardians of Childhood.
Il film in progetto che si
intitolerà probabilmente Rise of the Guardians, sarà prodotto dalla
DreamWorks Animation e racconterà le storie di un gruppo di ‘eroi’
per bambini che uniscono le forze per impedire ad uno spirito
maligno chiamato Pitch di conquistare il mondo. Numerosi sono i
nomi degli attori in lizza, tra questi Hugh Jackman per la parte di
Bunnymund (il coniglietto pasquale), Alec Baldwin come Nord (Babbo
Natale), Chris Pine nei panni di Jack Frost e Isla Fisher come
Tooth (la fatina dei denti). Ovviamente stiamo parlando di
doppiatori, poichè il progetto è un film d’animazione, e tra questi
ci potrebbe essere anche Jude Law che sarà la voce del cattivo
Pitch, un personaggio simile all’Uomo Nero.
Joyce sarà co-dirigerà il film
accanto a Peter Ramsey, mentre in veste di produttori esecutivi ci
saranno Guillermo del Toro e Michael Siegel.
Giornaletti con le foto di
body-builder dal fisico oliato e poster di uomini palestrati
affissi alle pareti avevano destato i sospetti della madre
Chi lo avrebbe mai detto. Il simbolo della mascolinità per
eccellenza negli anni ’80-’90, creduto un gay dalla madre quando
era adolescente. Parliamo di Arnold Schwarzenegger, che da poco ha
concluso (con scarso successo) il suo mandato come Governatore
della California.
A destare i sospetti della madre sono stati i tanti giornaletti
attraverso cui Schwarzy ammirava omaccioni muscolosi dal fisico
oliato; dei quali possedeva anche molti poster che aveva affisso
fieramente sulle pareti della sua camera. Normali passioni di un
adolescente, che di lì a poco avrebbe cominciato a frequentare
assiduamente la palestra, trasformando il suo fisico in un
invidiabile corpo statuario. Lo stesso che ha dato la sagoma a
personaggi quali Konan il barbaro o Terminator.
La madre di Schwarzy non si è limitata alle preoccupazioni, ma
lo ha portato anche da un medico. Quest’ultimo però le ha
scherzosamente risposto: “non si preoccupi signora, tanti hanno i
poster dei Beatles nella propria stanza, ma non per questo sono
gay. Eppure quelli sì che sono uomini”.
Il monello è il
film culto del 1921 di Charlie Chaplin con
protagonisti lo stesso Charlie Chaplin con
Jackie Coogan, Edna Purviance.
Una lacrima e un sorriso. Questo è
il cinema di Charlie Chaplin. E questo film del 1921 ne è
la massima riprova. Chaplin comincia ad andare oltre i
cortometraggi divertenti; comincia a proporre film dalla media
durata o veri lungometraggi (il presente dura 83’) che fanno
riflettere su tematiche sociali.
Il monello, la
trama
In una Londra divisa tra
ricchi e poveri, una giovane madre sola dalla disperazione
abbandona il suo neonato, e vive nel rimorso anche quando arriverà
per lei il successo e diventerà ricca. Un povero vetraio trova il
fagotto abbandonato e decide, nonostante il proprio stato di
povertà, di allevarlo.
Quando poi il neonato diventa un
po’ più grande, si fa aiutare dal piccolo monello facendogli
rompere i vetri delle case che egli poi ripara, guadagnandosi un
minimo per vivere. Dopo una rissa con un altro monello, il bimbo si
sente male e chiamato il medico, quest’ultimo decide di chiamare
l’orfanotrofio per far vivere il piccolo in condizioni più consone.
Il vetraio però riesce a riprenderselo, ma la legge ha la meglio.
Non fino in fondo però, e al povero ma ricco di amore, alla donna
disperata e al piccolo orfanello, il destino sorriderà…
Il monello
richiese complessivamente diciotto mesi di lavoro, dalla prima
scena girata alla prima proiezione, un periodo non particolarmente
felice per la vita privata di Charlie: poco prima dell’inizio della
lavorazione perse il primo figlio avuto dalla prima moglie (Mildred
Harris), Norman Spencer, nato con gravi deformazioni e
sopravvissuto solo tre giorni. Il matrimonio non fu mai felice,
fallì nel corso della lavorazione del film; l’opera stessa rischiò
di finire sotto sequestro unitamente ai beni di Charlie nella causa
di divorzio intentatogli dalla moglie: Charlie, previdente,
consegnò in custodia una copia dei negativi al fratello Sidney,
terminò il montaggio della pellicola spostandosi in incognito (per
quanto la sua popolarità lo consentisse) in diverse località, tra
alberghi e studi tecnici.
Secondo alcuni fu proprio
la perdita del figlio ad ispirargli il soggetto. L’incontro tra
Chaplin e Jackie Coogan fu un colpo di fulmine,
nacque prima un’amicizia speciale tra i due, solo in seguito pensò
di scritturarlo nella sua compagnia, e quando la lavorazione del
film iniziò Jackie fu perfetto: Chaplin, non potendo interpretare
lui il ruolo, così come desiderava per tutti i ruoli dei suoi film,
lo trovò spontaneo, naturale e perfettamente plasmabile alle sue
indicazioni. Probabilmente, l’intesa tra i due, fu dovuta anche
alla peculiarità della personalità di Chaplin capace di vedere gli
aspetti della vita attraverso gli occhi di un bambino. Un film
toccante, con una tenera interpretazione del piccolo Jackie Coogan.
Un attore che però non ha fatto molta strada da allora, essendo
anche immischiato in una vicenda giudiziaria per sfruttamento dei
suoi diritti da parte dei genitori. Grazie alla sua vicenda, la
California emise “The Child Actors Bill”, meglio conosciuto come il
“Coogan Act”, nel quale venivano tutelati i diritti dei minori
impegnati nel cinema.
Il monello
Oltre al Il
monello, nel 1930-31 Coogan interpretò i popolari
personaggi di Mark Twain: Tom Sawyer e Huckleberry Finn. Poi una
serie di film minori, tornando alla popolarità indovinate come?
Interpretando il turpe Zio Fester nella famosissima serie tv “La
famiglia Addams” del 1964 (trasmessa anche in Italia).
Charlie
Chaplin inizia a trattare struggenti tematiche
sociali con “Charlot emigrante” del 1918, in cui mette in scena la
scandalosa «quarantena» cui venivano sottoposti gli immigranti a
Ellis Island prima di sbarcare a New York. Seguiranno “Vita da
cani” e “Charlot soldato”: col primo pone sotto i riflettori la
vita dei senzatetto, perseguitati dalla legge disuguale e accanita
verso i poveri. Col secondo ironizza sulla guerra, nella
fattispecie l’intervento americano in Europa durante la Prima
guerra mondiale. Un tema che riprenderà con un capolavoro del
1940 “Il
grande dittatore”, dove sbeffeggerà Hitler e il suo
folle progetto di sterminare gli ebrei; ma lancerà anche uno
struggente messaggio finale di speranza ai popoli in guerra. I
dittatori i sovrani sono ridicolizzati anche nel film “Un Re a New
York” del 1957.
La filmografia di
Chaplin ha prevalentemente preso di mira i
potenti, ironizzando su di loro fino a ridicolizzarli. In tal modo
tratterà anche il capitalismo, in modo lapalissiano nel film
“Monsieur Verdoux”, che ha come protagonista un bancario (dal quale
prende il nome il film) che con l’arrivo della crisi finanziaria
del 1930 divenne disoccupato. Per mantenere il tenore di vita della
propria famiglia che ormai vede molto poco, ma soprattutto, per un
acquisito sadismo ed egoismo innescato in lui da una società post
crisi sempre più egoista ed arrivista, nonché violenta dati i
regimi dittatoriali che si diffondevano nel mondo, Verdoux da tre
anni si da alla truffa sposando donne ricche per poi ucciderle e
derubarle. Chaplin voleva dimostrare come la società capitalista ed
egoista potesse ridurre gli uomini, renderli avidi e alienati. Per
queste sue posizioni, fu mal visto dall’America e dall’Inghilterra.
Siamo negli anni ‘50, in piena Guerra Fredda, ed in pieno
maccartismo. Chaplin decise di stabilizzarsi in Svizzera con la
famiglia dove morì nel 1978.
Il Grinta dei Coen
è certamente uno dei film più attesi di questo inizio di nuovo anno
come del resto gran parte dei loro film da Fratello
dove sei? in poi. E tornano in grande spolvero dopo
la parentesi un po’ sottotono di A serious
Man. Tratto dal romanzo di Charles
Portis, da cui fu tratto anche l’omonimo classico del
cinema western che nel lontano 1969 fruttò l’unico Oscar della sua
carriera all’icona hollywoodiana John Wayne, il
film è un’avventurosa storia di vendetta e coraggio impregnata del
loro schietto umorismo e da un capacità narrativa coraggiosa,
supportata da un intreccio classico di genere che impreziosisce il
tutto rendendolo un film di raffinato gusto.
La storia racconta le vicende della
quattordicenne Mattie Ross (Hailee
Steinfeld) che ha perso di recente il padre ucciso
vigliaccamente da un certo Tom Chaney (Josh
Brolin), uno sbandato col vizio del gioco e
dell’alcool che dopo avergli sparato a bruciapelo fugge per unirsi
ad una banda di rapinatori di treni. Spinta dalla sete di vendetta
la piccola Mattie si rivolge ad un vecchio sceriffo federale di
nome Marshall Rooster Cogburn (Jeff
Bridges), che oltre ad avere una passione smodata per
la bottiglia ha anche un pessimo carattere, ma in quanto ad
acciuffare criminali sa il fatto suo. I due accompagnati da un
terzo personaggio, un Texas Ranger chiamato LaBoeuf (Matt
Damon), anch’egli in cerca di Chaney per un omicidio
commesso in Texas, daranno la caccia al fuorilegge per le strade
dell’America di Frontiera.
Il Grinta, il western secondo i
Fratelli Coen
Uno dei punti forti è senza dubbio
una messa in scena di grande levatura che ha il pregio di
facilitare il processo immersivo e accompagna con algida spinta le
vicende narrate, impreziosita ancora di più dalla stupenda
fotografia di Roger Deckins, ormai avvezzo a casa
Coen e che ci ha abituato a splendidi colori nella sua
straordinaria carriera. Sono degne di nota anche le notevoli
interpretazioni di tutto il cast a partire dalla piccola
Hailee Steinfeld, coraggiosa e naturale, per
passare dal Jeff Bridge e il sempre verde
Matt Damon. Una nota di merito va anche a Barry
Pepper che riesce sempre ad essere strepitoso nonostante i ruoli da
comprimario.
Dal canto loro i Coen non sono da
meno. La loro regia è sobria ed attenta, meticolosa ed equilibrata,
accorta al susseguirsi delle vicende dando sempre un impronta
leggera e visibile, facilitati anche da una buona sceneggiatura che
è dosata al punto giusto, arricchita da un umorismo che non invade
mai ma rimane sempre in un perfetto equilibrio. Il tutto su uno
sfondo classico di un genere, quello western, che tanto splendore
ha dato alla storia del cinema e che, ahimè, è un po’ dimenticato
oggi giorno, anche se recentemente ci ha regalato bei film come
l’Appaloosa
di Ed Harris.
In conclusione i Fratelli
Coen sono capaci di regalarci splendidi film quando
decidono di abbandonare un atteggiamento un po’ presuntuoso e
pretenzioso nei confronti del cinema e del pubblico che finora in
alcuni loro film li ha accompagnati. Il grande cinema che è in loro
si mostra proprio in questi momenti, celato da un loro apparente
capriccio.
Andy è ormai cresciuto e Woody,
Buzz e gli altri giocattoli sono molto incerti riguardo al loro
futuro: finiranno sul marciapiede (nella spazzatura) o in soffitta?
Sicuramente non potranno seguire il loro padrone al college!
Comincia così la terza avventura dei giocattoli più famosi del
grande schermo, che si troveranno a dover combattere contro dei
bambini dell’asilo SunnySide, dove finiranno per sbaglio, ed a
sventare gli oscuri piani di Lotso, un orsacchiotto peloso e rosa
che profuma di fragole, ma che ha un cuore nero…
La recensione del film d’animazioneDragon
Trainer, diciassettesimo film della
DreamWorks Animation.
«Questa è Berk. È dodici giorni a
nord di disperazione e pochi gradi a sud di morire di freddo, si
trova esattamente sul meridiano della miseria. Il mio villaggio, in una parola: solido, ed è qui da sette
generazioni, ma ogni singola costruzione è nuova. Abbiamo la pesca, la caccia e un’incantevole vista del
tramonto, l’unico problema sono le infestazioni: In molti posti
hanno topi, zanzare, noi abbiamo… i draghi! »
Hiccup all’inizio del
film
In un non meglio identificato
estremo nord c’è un’isola, su quest’isola c’è un villaggio
vichingo, in questo villaggio vichingo ci sono delle infestazioni …
di draghi! Questa la premessa semplice ed esilarante di
Dragon Trainer (How to Train Your Dragon)
17esimo film della DreamWorks Animation, fondata
da Steven-prezzemolino-Spielberg, e seconda opera in 3D dopo Mostri
contro Alieni.
Tratto da una serie di libri per
bambini (“Come addestrare un drago” di Cressida Cowell)
Dragon Trainer riesce con semplicità e
spirito a raccontare una storia di crescita, di rispetto del
diverso, di rapporto conflittuale tra padre e figlio e
dell’importanza di restare sempre fedeli a se stessi e alle proprie
inclinazioni. Troppe cose per un film d’animazione? Non credo,
perché questa volta la DreamWorks ha fatto
tombola. Il giovane Hiccup (“Vi pare brutto il nome? Ce ne sono di
peggiori al villaggio!”) è un adolescente che per molti versi
ricorda un suo predecessore forse più famoso, quel mingherlino e
smidollato Semola, protagonista de La Spada nella Roccia e destinato a
diventare Re Artù; anche lui, come Semola prima, imparerà che è
quello che c’è dentro che conta, non tutti i muscoli che si vedono
dal di fuori. Lo spettatore – adulto o bambino che sia – può
benissimo affezionarsi ai personaggi, anche ai comprimari che sono
tutti caratterizzati molto attentamente, a partire dal piccolo
esemplare di Terribile Terrore che insegnano al protagonista che ‘i
draghi bruciano dal di dentro’ fino all’amico fabbro e istruttore
Skaracchio, particolarmente attento alla sua … igiene intima! Ogni
elemento ha il suo valore e la sua importanza, dal rapporto trai
due gemelli coetanei di Hiccup, ai diversi esemplari di drago.
E proprio a questo mitologico
rettile il film rende giustizia, reinventandolo in forme e colori
differenti, rendendolo protagonista del film e lasciando
affezionare lo spettatore anche alla bestia e non solo all’uomo. In
particolare il piccolo Sdentato, l’esemplare di Furia
Buia che Hiccup addestra, risulta un disegno
particolarmente riuscito a partire dagli occhi felini e dai
comportamenti canini: un mix inedito ma vincente. Nel film varie
sono le similitudini tra i draghi e i gatti soprattutto, che si
notano soprattutto quando Hiccup addomestica Sdentato ed adotta le
tecniche apprese nell’arena: i draghi infatti adorano essere
accarezzati sulla testa e sotto il collo, quando vengono
accarezzati emettono versi simili alle fusa, seguono oggetti che si
muovono ed infine concedono parte del proprio cibo a coloro che
vengono considerati padroni. Ma non c’è solo la Furia
Buia, molte sono le specie di drago che vengono realizzate
e mostrate nel film, ognuna con caratteristiche specifiche oltre a
quelle comuni appena elencate. Ad esempio il
Gronkio è uno dei draghi più forti, ha una
testa enorme e un corpo minuscolo. È noto per essere capace di
dormire mentre vola. Per sconfiggerlo basta bagnargli la testa
mentre dorme; poi c’è l’Incubo Orrendo che ha coda
e collo molto lunghi, è uno dei più feroci e temuti draghi del
mondo.
La sua strategia d’attacco è quella
di darsi fuoco, abilità che lo rende un avversario affrontabile
solo dai vichinghi più esperti come Stoick (il padre di Hiccup).
L’Orripilante Bizippo invece è uno dei draghi meno
comuni che si possano incontrare al mondo. Ha due teste
completamente indipendenti, una produce scintille e l’altra gas;
per sconfiggerlo basta bagnare la testa che fa scintille. Le ali
del Bizippo non sono sufficientemente grandi per mantenerlo in volo
per lungo tempo, così questi preferisce l’attacco sulla terraferma.
Il Terribile Terrore è il più piccolo tra tutti i
draghi. Il Terribile Terrore ha un corpo da
serpente e due piccole ali. I Terribili Terrori
combattono spesso tra di loro come bambini e hanno una grande
potenza e precisione di fuoco. L’Uncinato Mortale
è uno dei draghi più belli del mondo, ha solitamente un
comportamento aggressivo ed ha un temperamento molto suscettibile.
Facile da sconfiggere grazie al punto cieco posto davanti a lui,
possiede il fuoco più caldo di tutti i draghi, capace di fondere
all’istante l’acciaio o di carbonizzare un vichingo. Come se ciò
non bastasse sulla coda possiede spuntoni retrattili che possono
essere lanciati come proiettili contro l’avversario. Infine c’è
Morte Rossa. È il più mostruoso e gigantesco di
tutti i draghi, enorme, con una grossa mazza chiodata sulla coda e
sei orribili occhi, il suo unico scopo è nutrirsi del cibo rubato e
procreare altri draghi. Per questo motivo si può definire “la
regina” e gli altri draghi gli “operai”. Chi non adempie al compito
di nutrirla viene a sua volta mangiato.
Ma nonostante questa nutrita e
variegata fauna fantastica il film ha forti ancoraggi con il reale,
poiché ripresi in maniera un po’ (e inevitabilmente) didascalica
sono intrecciate alla trama le problematiche adolescenziali
dell’accettarsi e dell’accettare ciò che è diverso da noi, ma
soprattutto importante è la dinamica padre single/figlio ribelle,
che nel film viene affrontata con chiarezza, ma con irriverenza e
tanto spirito comico. Esemplare è la scena di passaggio di consegna
tra generazioni, nel momento in cui il padre Stoick consegna al
figlio l’elmo che ha fatto realizzare apposta per lui, c’è un
connubio perfetto tra solennità e umorismo.
Il 3D è uno spettacolo per gli
occhi e aumenta la magnificenza della visione soprattutto nelle
sequenze di volo che per diversi elementi paesaggistici o forse
semplicemente per memoria collettiva ricordano i paesaggi del
pianeta Pandora inventato da James Cameron. Sembra che ormai la tecnica
della realizzazione di film in computer grafica non sia più un
problema e quindi i realizzatori (registi e sceneggiatori) possano
dedicare più attenzione alla storia e alla scrittura. La regia è
firmata dai due ‘profughi’ della Disney Chris Sanders e
Dean DeBlois, ideatori e co-registi di Lilo & Stitch, film al quale
Dragon Trainer deve qualcosa soprattutto
in termini di dinamiche tra ‘animale e padrone’; mentre la
sceneggiatura è affidata al trio William Davies, Dean
DeBlois e Chris Sanders. In questo caso, se la
storia è classica nel suo sviluppo di premessa, svolgimento,
conflitto e (semi)lieto fine, la scrittura e i dialoghi in
particolare condiscono di sano e pungente umorismo tutto il film,
rendendolo divertente e commovente, una vera delizia che riempie il
cuore e gli occhi.
La brava e bella Kristen
Stewart, idolo delle teenagers grazie al suo ruolo di
Bella nella saga di Twilight, è in
trattative per interpretare il ruolo principale nel prossimo film
di Rupert Sanders, che sarà nient’altro che una nuova versione di
Biancaneve e i sette nani intitolata Snow White and the
Huntsman, almeno stando a quanto dice Deadline.
Sono in circolo delle voci che
vorrebbero anche Viggo Mortensen nel progetto, nel ruolo del
cacciatore ovviamente! Anche Riley Keough, ex compagna di set di
Kristen in Runaways, è stata inserita nella short list delle
pretendenti al ruolo lo scorso mese, mentre da un po’ si sa che la
splendida Charlize Theron interpreterà la regina cattiva.
Psycho è il film
culto del 1060 diretto da Alfred Hitchcock e
con protagonisti nel cast Anthony Perkins, Janet
Leigh, Vera Miles, John Gavin, Martin Blasam.
Alfred Hitchcock è senza dubbio il
Re dei film gialli. Molti di questi sfociano nel genere thriller,
lasciando lo spettatore in balia dell’inquietudine e della
suspance. Aiutato in ciò da una pellicola in bianco e nero che dà
ai suoi lungometraggi un maggiore alone di mistero.
Tra i suoi film,
Psycho è forse il più conosciuto. Benché sia
uscito nel 1960, turbando milioni di americani e venendo perfino
censurato per diversi anni in vari Paesi, questo film è tutt’oggi
insuperato. Le tecnologie moderne non potranno mai colmare
quell’aura di mistero che con pochi trucchi il regista inglese
sapeva dare ai suoi film.
Un’impiegata di una società
immobiliare, Marion Crane, sogna un futuro migliore con il suo
compagno, Sam, e così fugge con 40 mila dollari di un cliente
anziché depositarli in cassaforte. Si dirige con l’auto verso il
suo compagno, venendo anche pedinata da un’inquietante poliziotto
che ha dei sospetti su di lei. Dato il forte temporale in corso,
decide di passare la notte in un Motel. Viene accolta da uno strano
receptionist, che pare non andare d’accordo con la madre.
Psycho è un film
thriller del 1960 diretto da Alfred Hitchcock, tratto da un romanzo
di Robert Bloch del 1959. Candidato a quattro Oscar, nel 1992 è
stato scelto per la preservazione nel National Film Registry della
Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. Il film venne girato
negli Universal Studios di Hollywood dalla fine di novembre del
1959 fino al 1 febbraio del 1960. Non si sa ancora con certezza
perché, nel titolo italiano, la ‘h’ sia scomparsa, diventando
Psyco. Il film fu una miniera d’oro per la
Universal: girato con un budget di 800.000 dollari, incassò 40
milioni. Per le riprese Hitchcock si avvalse della troupe della
serie tv Alfred Hitchcock Presenta per risparmiare tempo e denaro.
Pochi, malgrado il successo commerciale, i riconoscimenti ottenuti
dal lungometraggio: 1 Golden Globe 1961: miglior attrice non
protagonista (Janet Leigh) e 4 nominations ai Premi Oscar 1961.
Anche in Psycho, non può mancare il
solito brevissimo cameo del regista: con in testa un cappello
texano, fa la sua apparizione sul marciapiede davanti alla società
dove lavora la protagonista Marion. La scena del film passata alla
storia è senza dubbio quella della doccia; la quale, si racconta,
spaventò milioni di spettatori, che non volevano più compiere
quell’atto elementare timorosi che qualcuno arrivasse con un
coltello dietro le loro spalle. Pare che il film sia proprio in
bianco e nero per ovviare alla scena del sangue, ed evitare
censure.
Il liquido che scorre nella doccia
è cioccolato fuso. Inizialmente Hitchcock voleva che la scena non
fosse accompagnata da commento musicale, ma Bernard
Herrmann (autore della colonna sonora anche di
Taxi Driver) gli fece cambiare subito idea dopo
avergli fatto ascoltare una sua composizione. Fortunatamente se ne
convinse. Furono apportate molte modifiche alla scena in cui Marion
Crane appare già morta sul bordo della vasca da bagno col viso sul
pavimento, perché durante le anteprime, quindi a pellicola quasi
ultimata, la moglie di Hitchcock, Alma Reville, fu
l’unica ad accorgersi che si poteva vedere l’attrice Janet Leigh
respirare. Per girare i 45 secondi della scena della doccia, su uno
storyboard di Saul Bass, occorsero sette giorni di lavorazione, 72
posizioni della macchina da presa ed una controfigura per
Janet Leigh. L’accoltellamento dura 22 secondi,
per un totale di 35 inquadrature. In nessuna delle numerose scene
montate per l’omicidio nella doccia si può vedere il coltello
affondare nel corpo di Marion; è il montaggio serrato che fa
supporre allo spettatore quello che non si vede.
Altre ancora sono le curiosità.
Durante le riprese dell’arrivo di Marion Crane al Motel Bates, in
cui la sceneggiatura aveva previsto un forte temporale (simulato),
Hitchcock si accorse che sullo sfondo si
intravedeva la Luna. Alcuni degli attrezzisti dovettero coprirla
con delle pertiche e dei drappi neri seguendone lo spostamento nel
cielo. Ancora, Hitchcock decise di strutturare il film facendo
uccidere la protagonista Marion a un terzo dall’inizio, cosa che
non capitava normalmente nel cinema classico, ma che rese
l’assassinio della donna ancora più sorprendente e inaspettato. È
per questo motivo che il regista insistette inoltre per vietare
l’ingresso in sala al pubblico e ai critici dopo l’inizio del film,
per concentrare l’attenzione dello spettatore sull’importanza del
denaro sottratto e per rendere più forte la scena dell’assassinio,
affinché costituisse una sorpresa assoluta.
Qualche aneddoto riguarda anche
Casa Bates: l’inquietante abitazione posta su un colle e dalla
quale si ode la voce stridula della mamma di Norman, compare in un
episodio de La Signora in Giallo, con un omicidio simile a quello
del film. Nell’episodio della terza stagione del telefilm “Supercar
Un gorilla a Los Angeles” sono presenti molti riferimenti al film,
tra cui la stessa casa Bates.
Il personaggio psicopatico di
Norman Bates è ispirato alla figura di Ed Gein che, nel periodo tra
il 1947 e il 1957, uccise due persone nella zona di La Crosse e
Plainfield (Wisconsin), creando decorazioni casalinghe con i resti
delle vittime. La sua figura viene ripresa anche in altri tre film:
ne Il silenzio degli innocenti dove è
rappresentato dal personaggio di Jame Gumb (detto Buffalo Bill e
interpretato da Ted Levine), in Deranged, rappresentato dal
personaggio Ezra Cobb (detto Macellaio di Woodside e interpretato
da Robert Blossom) e in Non aprite quella porta
(1974) dove è rappresentato dal personaggio
Leatherface, interpretato da Gunnar Hansen. In
Psycho, Norman Bates è un appassionato
impagliatore di uccelli. Alcuni di questi fanno subito pensare ai
minacciosi volatili del film Gli uccelli, sempre di Hitchcock.
Poiché Gli uccelli uscì tre anni dopo “Psycho“,
Hitchcock potrebbe aver già avuto in mente di realizzare questo
film. Nell’inquadratura finale, quella che ritrae Norman Bates
sorridente, si può notare la sovrapposizione sul suo volto di una
figura simile al teschio della madre: questo fu uno dei primi
“messaggi subliminali” inseriti in un film per aumentare il senso
di orrore trasmesso dal personaggio.
Psycho: recensione del film di
Alfred Hitchcock
Il film ha avuto anche un remake
nel 1998. Il regista Gus Van Sant Jr., nominato
come miglior regista due volte all’Oscar, la prima per Will
Hunting, Genio ribelle nel 1998 e la seconda per
Milk nel 2009, ed ha vinto il premio per la
miglior regia e la Palma d’oro al Festival
di Cannes 2003 per Elephant, inoltre
con Paranoid Park ha vinto il Premio speciale per
il 60º Festival di Cannes e per l’insieme
dell’opera. Van Sant ha seguito minuziosamente il
film originale, attenendosi totalmente ad esso. Non si è fatto
mancare neppure il cameo, posizionandosi nello stesso posto di
Hitchcock.
Le differenze rispetto
all’originale comunque sono diverse, sebbene trattasi di
particolari: innanzitutto, l’azione è spostata dall’originale 1960
al contemporaneo 1998, forse per giustificare il passaggio dal
bianco e nero al colore: un altro aggiustamento “cronologico” è la
somma di denaro, che dai 40’000 dollari del primo film si decuplica
diventa 400’000, decisamente più credibile nel 1998. Poi, la
versione di Van Sant è decisamente più esplicita di quella di
Hitchcock: nella scena iniziale, per esempio, Sam (Viggo
Mortensen) è mostrato completamente nudo a letto con
Marion, mentre nell’originale erano in piedi, lui indossava i
pantaloni e veniva solo suggerito che i due avessero fatto sesso.
Allo stesso modo, nella scena in cui Norman spia Marion mentre si
spoglia, si capisce chiaramente che nel farlo si masturba, cosa che
non avveniva nella prima versione. Ancora, nella scena
dell’uccisione di Arbogast, Norma/Norman colpisce quest’ultimo non
con una, bensì con numerose coltellate per farlo cadere dalle
scale.
La scena della scoperta del
cadavere di Norma e della susseguente rissa è poi decisamente
diversa: la cantina è molto più grande di quella della prima
versione, nella quale non c’era nemmeno il laboratorio da
impagliatore di Norman; l’apparizione di Norman travestito è più
lenta e la rissa molto più lunga e violenta, mentre nel 1960 si
vedeva solo Sam che toglieva a Norman parrucca e vestito. Infine,
Van Sant ha inserito di sua iniziativa delle
brevissime immagini subliminali, fotogrammi “nascosti” all’interno
delle scene clou (i due omicidi e la scoperta del cadavere): quando
Marion viene uccisa, si vedono immagini di una violenta tempesta,
quando viene ucciso Arbogast si vede prima una donna nuda con una
maschera sul volto e poi quella di un vitello nel mezzo di una
strada, ed infine quando viene scoperta Norma Bates, si vedono
delle colombe volare via.
Oltre ad un remake, il
lungometraggio ha avuto anche 3 sequel: nel 1982, nel 1986 e
nel 1990. Il primo, Psycho II, diretto da
Richard Franklin, ebbe anche un inaspettato
successo ai botteghini. Nel sequel, lo psicopatico protagonista del
primo film, Norman Bates, esce dall’istituto psichiatrico ritenuto
ormai guarito 22 anni dopo. Ma tornato a casa, risente la voce
della madre e riprende la sua vita turbata. Il suo personaggio è
interpretato sempre da Anthony Perkins. Alcune
curiosità legate al film: lo pseudonimo che Meg Tilly usa nel film,
Mary Samuels, è ispirato a quello con cui Janet Leigh si registra
in Psyco nel motel Bates. Il set originale della casa e del motel
Bates è stato appositamente ricostruito per le riprese. Il regista
Richard Franklin, emula il maestro Hitchcock anche in fatti di
cameo: è l’uomo seduto al gioco da bar nella tavola calda dove
lavora Norman. Infine, in una scena Norman vuole dare a Mary la
stanza numero 1. È la stessa in cui è avvenuto l’orrendo omicidio
nella doccia del primo film.
Meno successo ebbe il terzo
episodio, Psycho III, che risente un po’
dell’inevitabile ripetitività. Diretto dallo stesso attore
protagonista, Anthony Perkins, ancora nel ruolo di Norman, vede
quest’ultimo riprendere il suo lavoro e innamorarsi di una ex-suora
che contraccambia il suo amore. Ma esso sarà ostacolato di nuovo
dall’istinto di sdoppiare la sua personalità e a tenere il cadavere
impagliato della madre che lo induce ad uccidere i suoi clienti
fino ad uscire nuovamente completamente di senno. Vediamo anche per
questo episodio alcune curiosità. Anthony Perkins,
che s’assunse come detto anche la responsabilità della regia,
decise di tornare con questo terzo capitolo alle atmosfere dello
Psyco originale, distaccandosi quindi dalle
situazioni splatter del precedente Psycho II
(1983). Perkins voleva che l’attore Jeff Fahey
apparisse completamente nudo nella scena dell’incontro fra Duke e
Red, ma lui rifiutò perché non si sentiva a suo agio davanti alla
telecamera. Il regista e attore cercò di convincere la Universal a
girare il film in bianco e nero, ma la casa di produzione si
oppose. Nella parte della “madre” di Bates compare lo stuntman Kurt
Paul, ma nella scena finale, quando Norman è vestito da donna, è
Perkins a interpretarla. Kurt Paul ha interpretato Norman Bates nel
film TV Il motel della paura.
Il quarto invece (Psycho
IV) è un film per la televisione diretto da Mick
Garris, incentrato sull’infanzia del pluriomicida Norman
Bates. Quest’ultimo racconta la sua infanzia passata con la perfida
madre, rivivendo ogni momento di quel tragico periodo ad una
stazione radiofonica, e presto tornerà a minacciare ancora. Il film
fu girato nel giugno del 1990 agli Universal Studios Florida a
Orlando (Florida). La facciata del Bates Motel e la casa sono state
ricreate nel parco a tema. Dopo le riprese, la facciata del Bates
Motel fu utilizzata per un labirinto stregato durante la
Halloween Horror Nights del 1993 intitolata “The
Psycho Path Maze”. I set furono demoliti nel 2000 per la
costruzione del campo giochi “Curious George Goes to Town”. Durante
la prima trasmissione del film fu Janet Leigh, interprete del film
originale, a presentarlo.
I Fantastici Viaggi di
Gulliver racconta la storia di Gulliver (appunto!) che
lavora presso un importante giornale, ma si occupa “solo” della
consegna posta. Segretamente innamorato di Darcy Silverman,
responsabile della sezione viaggi (e di cos’altro si poteva
occupare?), Gulliver si fingerà un grande appassionato di
esplorazione per fare colpo sulla sua bella, ma si troverà
coinvolto in un ‘piccolo’ incidente di percorso.
Comincia così il film che vede il
comico Jack Black portare al cinema uno dei
personaggi più amati della letteratura classica dell’800, il
Gulliver di Jonathan Swift. Per quanto l’operazione sia chiaramente
ed esclusivamente ludica, il risultato è purtroppo terribile, a
tratti imbarazzante per un cast di attori che potrebbero esprimere
ben altro e per una storia che ha sicuramente fascino e potenziale
d’attrazione.
I Fantastici Viaggi di Gulliver, il film
Com’è ormai ovvio, non c’è niente
che non vada nella verosimiglianza della messa in scena, anzi un
grande pregio del film è proprio la messa in scena, e soprattutto i
costumi della bella Principessa Maria, interpretata da Emily Blunt (ma come ci sarà finita la bella
Emily in quel carrozzone?); il grande problema del film è la
sceneggiatura sciatta che non rende giustizia all’originale, dal
quale ovviamente si discosta per ovvi motivi di complessità
narrativa che per questo tipo di film non interessava mettere in
gioco.
Ma la più grande lacuna de
I Fantastici Viaggi di Gulliver va ricercata nel
montaggio, il film si presenta infatti letteralmente ‘tagliato con
l’accetta’, infarcito di ellissi che non spiegano né raccontano in
maniera adeguata i vari passaggi narrativi: siamo d’accordo che gli
abitanti della gloriosa Lilliput siano costruttori formidabili, ma
costruire dal nulla una splendida e gigantesca villa sul mare in
più o meno 5 secondi di film appare decisamente un passaggio troppo
veloce! Per non parlare poi della velocità con cui il nostro
protagonista entra ed esce dal regno di Brogdignag, il paese dei
giganti, con una facilità tale da chiedersi per quale motivo quel
posto sia considerato irraggiungibile dai lillipuziani.
Eppure il film poteva essere
salvato, anche solo per un cast davvero interessante che non è
stato sfruttato nel suo potenziale comico, a partire dal fantastico
Billy Connolly nel ruolo di Re Teodoro e Chris
O’Dowd che interpreta in maniera magnificamente imbecille il
Generale Eduardo. E che dire di Jason Segel, l’Orazio innamorato? L’attore
sconosciuto o quasi in Italia è uno dei volti emergenti nel nuovo
cinema comico americano che dalla Tv (è il protagonista della
geniale serie How I Met Your Mother) è passato
al cinema ed è stato protagonista nella scorsa stagione di un film
molto bello passato in sordina in Italia, I Love You,
Man, con Paul Rubb.
I Fantastici Viaggi di
Gulliver si risolve quindi in un maldestro tentativo di
intrattenimento, il tutto aggravato da un montaggio pessimo e
dall’aggiunta di un 3D che come sempre più spesso accade, risulta
inutile e fastidioso, penalizzante per il portafogli e per la
godibilità dello spettacolo.
Esilarante, selvaggio e
spregiudicato: è Jack Black, l’erede di John
Belushi. Protagonista assoluto del 2011 come interprete di un
elenco impressionante di lungometraggi, Jack Black è il comico
hollywoodiano del momento; il più ricercato, il più scritturato.
Cerchiamo di capire cosa c’è dietro a questo scapestrato
quarant’enne dal fascino animalesco che molti vedono come l’erede
naturale del mitico “blues Brothers”.
Nato a Hermosa Beach il 28 agosto
del 1969 da due ingegneri aereospaziali mostrerà da subito la sua
natura eccentrica ed estroversa arrivando già all’età di 13 anni a
partecipare ad uno spot per l’Activision Game, primo di una lunga
serie. Dopo aver frequentato la Crossroads High School per le Arti
e le Scienze si iscrive all’Università della California dove avrà
la fortuna di fare l’incontro che cambierà la sua vita: quello con
il già affermato attore e regista Tim Robbins. Seguendo i consigli
e gli insegnamenti del collega e maestro, Black esordirà sul grande
schermo proprio in un film diretto da Robbins, “Bob Roberts” del
1992. Il film parla di un uomo politico e della sua storia di vita:
l’adolescenza in una comune hippie, il successo come cantante folk
prima e come uomo d’affari poi, per concludersi con l’avvento in
politica e le indagini di un tenace giornalista che intravede in
Roberts un misterioso lato oscuro. Sempre sotto la regia di Tim
Robbins, Jack Black otterrà piccole parti in altri due importanti
film di successo: “Dead man walking” e “Cradle will rock”.
E’ proprio a metà degli anni
novanta che Black insieme ad altri giovani attori comici americani
quali Ben Stiller, i fratelli Luke e Owen Wilson oltre a Vince Vaughn, crea una
sorta di gruppo comico non ufficiale ma notoriamente identificato
con il nome di “Frat pack”. Nel 1996 ritroveremo Black interprete
di due film ed uno proprio diretto da Stiller, “Il rompiscatole”
mentre l’altro vedeva alla regia
Tim Burton, “Mars Attack”.
Dopo una serie di interpretazioni
minori e di scarso profilo, Jack Black comincia a
imporsi seriamente alla ribalta con “Alta fedeltà” film del 2000
diretto da Stephen Frears e tratto dall’omonimo
romanzo di Nick Hornby. La trama racconta la storia di Rob Gordon
(John Cusack) proprietario del Championship Vinyl, un negozio di
musica, in cui lavorano come “dipendenti” Barry e Dick (Jack Black
e Todd Luoiso). I due più che lavorare sono avventori del negozio e
trascorrono ore e ore con il protagonista stilando improbabili
classifiche “top five” su qualsivoglia argomento. Bob pur tentando
timidamente di licenziarli ne condivide una sfrenata passione
musicale oltre che un sapere enciclopedico sull’argomento. Il film
narra delle sfortune amorose di Bob ripercorrendo le varie storie
passate e finite male e Bob che, interloquiendo spesso con la
telecamera, cercherà di capirne i motivi.
Dell’anno successivo, 2001, è
“Amore a prima svista” il primo vero film da protagonista di Jack
Black. Diretto dai fratelli Farrely, il film narra la storia di
Harold (Jack Black) il quale a prescindere dalla sua mancanza di
avvenenza è abituato a considerare le donne come oggetti e
collezzionando di conseguenza una conquista dopo l’altra.
L’incontro casuale con il suo guru Tony Robbins gli cambierà la
vita in quanto lo stesso santone sconvolto dalla visione di Hal
verso il gentilsesso lo sottoporrà ad una seduta di ipnosi che lo
porterà a vedere “solo” la bellezza interiore delle donne. E’ così
che Harold si innamorerà di Rosemary (Gwyneth
Palthrow) che lui vedrà come una bellissima e longilinea
ragazza bionda quando in realtà è una giunonica presenza di 120
kg.
E’ proprio in questi anni in cui si
apre ad una maggiore popolarità, che Jack Black
inizia ad affiancare alla propria attività di attore quella di
musicista professionista, essendo la musica la sua prima e forse
più grande passione. Con Kyle Gass crea il gruppo
rock “Tenacious D” che produrrà il primo album da studio nel 2001
con il titolo omonimo di “Tenacious D”. Anche Gass è un attore e la
genesi del gruppo diverrà una serie tv trasmessa nel 1999 dalla
HBO. Per realizzare il primo album collaborarono al progetto
artisti musicali dal calibro internazionale come il bassista Steve
Mc Donald, il chitarrista Warren Fitzgerald dei The Vandals, il
tastierista Page Mc Connell dei Phish oltre che il cantante dei Foo
Fighters ed ex batterista dei Nirvana Dave Grohl. La storia del
gruppo è recentemente diventata un film sotto la regia di Liam
Lynch e con la presenza degli stessi Black e Gass nel ruolo di loro
stessi, il titolo “Tenacious D e il destino del rock” è del 2007.
La musica è la grande protagonista anche di ” School of Rock” film
del 2003 diretto da Richard Linklater che probabilmente segna la
consacrazione a livello internazionale di Jack
Black, mattatore indiscusso del film.
La trama sarebbe di per se banale e
scontata: un giovane e scapestrato musicista rock ( Jack
Black) viene cacciato dal suo gruppo e tramite un abile
raggiro si presenta come insegnante di musica, al posto di un
amico, in una delle scuole più conformiste dello stato. Black
strabilierà gli attoniti studenti con metodi di insegnamento
quantomeno originali e abbattendo la noia regnante, insegnerà
l’amore per la musica e la forza di volontà da non abbandonare mai.
A prescindere da un canovaccio come detto scontato, la bravura
degli interpreti, una colonna sonora eccezionale ed un Jack
Black mai visto rendono la commedia un classico pedagogico
ormai diventato mito per i ragazzi più giovani. Jack
Black nel film ha la possibilità di abbinare le sue due
più grandi passioni: recitare e suonare, cinema e musica. Da qui
un’interpretazione gagliarda, intensa, vera e di altissimo livello
che, come detto, lo consacrano definitivamente.
Non può essere un caso che nel 2005
Peter Jackson lo voglia nel suo cast dell’attesissimo quanto
costosissimo remake di “King Kong”; Black interpreta la parte di
Carl Denham il torbido regista che convince Ann Derrow ( Naomi Watts ) ad unirsi alla sinistra
spedizione della Venture, la nave che dovrebbe condurre su una
presunta isola tropicale il cast di un nuovo film. In realtà Carl è
in combutta con altri componenti della troupe per utilizzare il
materiale del film per girare un documentario sulla sperduta e
mitica isola di Skull Island. Sarà proprio su quest’isola che la
comitiva finirà per fare il terribile incontro con la scimmia
preistorica.
Con “L’amore
non va in vacanza“, film diretto nel 2006 da
Nancy Meyers, Jack Black si
avventura per la prima volta e con un sostanziale successo in una
commedia romantica. Il film narra le storie incrociate di quattro
trentenni: due giovani donne, Iris ( Kate Winslet ) e Amanda (
Cameron Diaz ) dopo rispettive delusioni amorose decidono di
scambiarsi reciprocamente le proprie case per un breve periodo di
vacanza.Così Iris sbarcherà nella lussuosa Los Angeles dove Amanda
vive mentre quest’ultima si ritroverà nella tranquilla quanto
noiosa provincia inglese.
Quasi in procinto di tornare
immediatamente a casa, Amanda avrà invece modo di conoscere Graham
( Jude Law ) fratello maggiore di Iris con il quale scatterà
immediatamente un’istintiva attrazzione non solo fisica. Iris dal
canto suo conoscerà Miles ( Jack Black ) amico di Amanda e
compositore musicale, che nonostante una relazione con
un’attricetta di Hollywood capirà che è Iris la donna adatta a
lui.
Per Black un ruolo diverso in un
film diverso rispetto i suoi canoni precedenti e nonostante questo
un’interpretazione convincente che soddisferà la critica. Una linea
di continuità la si può facilmente trovare nelle caratteristiche
del personaggio il quale è ancora una volta fortemente legato alla
musica.
Nel 2007 l’incontro con uno dei
registi più eccentrici e geniali del momento: Michel Gondry, che
chiamerà Jack Black per il suo “Be kind Rewind. Gli
acchiappafilms”. In questa divertente quanto riuscita commedia
Black ha l’occasione di recitare con attori dallo spessore
importante come Denny Glover, Mia Farrow e Sigourney Weaver oltre
al bravo Mos Def che interpreta il suo amico Mike. La storia narra
le vicende di un anziano proprietario di una vecchia videoteca, il
signor Fletcher ( D. Glover ), il quale si rifiuta di aprire il
proprio commercio al progresso dei moderni dvd, e continua così a
commerciare e noleggiare solo vhs.
I proprietari dell’immobile e un
nuovo negozio all’avanguardia tecnologica appena aperto nello
stesso quartiere minaccieranno la sopravvivenza del “Be Kind
Rewind” (il nome del negozio in questione ). Minaccia ancor più
concreta quando Jerry ( Jack Black ) amico del commesso Mike
smagnetizzerà tutte le cassette per essere a sua volta contaminato
dalla vicina centrale elettrica, la fine degli affari per il sig.
Fletcher sembra ormai certa.
La soluzione la troveranno proprio
i due giovani ed eccentrici amici che reinterpreteranno uno ad uno
tutti i film in vendita, riscuotendo un inaspettato quanto
provvidenziale successo. Quando tutto semba sistemato però si
presenteranno nuovi ostacoli e per i tre ci sarà da trovare nuove
quanto improbabili idee. Con “Tropic Thunder” del 2008, Jack Black
torna sul set insieme al vecchio amico Ben Stiller, regista e
interprete di questa dissacrante commedia d’azione che si e ci
diverte prendendo in giro lo starsystem hollywwodiano e i più
celebrati film di guerra. Black si rituffa quindi nel genere a lui
più congeniale ossia la commedia farsesca e demenziale dove può
esaltare ed esprimere senza riserve la sua esuberante quanto
spontanea comicità.
Come detto nell’incipit
dell’articolo sarà però questo 2011 appena iniziato che vedrà Jack
Black assoluto protagonista della scena cinematografica a
testimonianza di quale livello di celebrità e richiamo abbia ormai
raggiunto il non più giovanissimo attore californiano. Il prossimo
4 febbraio esordirà in Italia “I fantastici viaggi di Gulliver”
film diretto nel 2010 da Rob Letterman e che vedrà Black impegnato
ad interpretare la parte del protagonista di questo classico della
letteratura e del cinema mondiale. Le vicende di Gulliver, che dopo
un naufragio si troverà improvvisamente sperduto in un mondo di
uomini minuscoli, sono in realtà fortemente rivisitate in chiave
moderna ed in funzione di questo non poche sono le varianti
rispetto la sceneggiatura originale. Anzichè essere ambientato nel
XIX sec. il film è ambientato nei giorni nostri e Gulliver/Black
non è un medico di bordo, come nella versione originale, bensì uno
scrittore indipendente che si diverte a giocare a calciobalilla con
i malcapitati lillipuzziani o a improvvisare improbabili lotte con
robot giganti. Non può ovviamente mancare la musica ed il rock in
particolare di cui il moderno Gulliver sarà ovviamente uno sfrenato
ammiratore.
Sempre nel corso del 2011
incontreremo Jack Black nelle nostre sale cinematografiche con una
simpatica commedia diretta da David Frankel, “The big year” in cui
Black ha avuto modo di lavorare al fianco di un mostro della
comicità made in Usa come Steve Martin oltre che di un suo vecchio
amico, sin dai tempi dei “Frat pack”, Owen Wilson. A sette anni da
“School of rock” le strade di Jack Black e Richard Linklater si
incontrano nuovamente in una commedia “dark” che uscirà nelle sale
nel corso di questo 2011. “Bernie” è una storia realmente accaduta
e che il giornalista Skip Hollandsworth raccontò sulle pagine
del Texas Monthly nel 1998. Berhardt “Bernie” Tiede era un becchino
che innamoratisi dell’ottantun’enne Marjiorie Nugent la uccise per
poi nasconderne il cadavere nell’illusione che fosse ancora viva.
Black interpreta proprio la parte del protagonista maschile mentre
il ruolo dell’anziana vittima ha il celebre volto di Shirley Mc
Lane.
Per concludere ricordiamo che
Jack Black appare come interprete anche in “Rush:
beyond the lighted stage” un film documentario diretto da Sam Dann
prodotto in Canada nel 2010 ed in uscita prossimamente in Italia.
Nel film di Dann si ripercorrono le tappe della seguitissima band
musicale nel loro trentennale percorso artistico che partendo da un
progressive rock è giunto all’attuale heavy rock. Il nostro Jack
non poteva farsi scappare l’opportunità di partecipare ad un
progetto simile dove cinema e musica si scindono sino a diventare
cosa sola, proprio come Jack Black concepisce la vita stessa.
Un’altra disavventura si aggiunge
alla lunga lista di contrattempi e disagi che stanno trasformando
la produzione dello Hobbit in una vera e propria
Odissea.
Il regista e produttore Peter Jackson è stato infatti
ricoverato per un’ulcera perforata, ma si rimetterà presto e non ci
saranno conseguenze per la sua salute, come spiega il portavoce del
regista:
Sir Peter Jackson è stato
ricoverato all’Ospedale di Wellington mercoledì sera a causa di un
dolore acuto allo stomaco. Successivamente è stato sottoposto a una
operazione chirurgica per un’ulcera perforata. Sir Peter si sta ora
rimettendo tranquillamente, e i dottori ritengono che guarirà
completamente. L’operazione non avrà alcun impatto sul suo impegno
nel dirigere Lo Hobbit, oltre a un piccolo rinvio dell’inizio delle
riprese.
La settimana scorsa Jackson ha
visitato la regione del Fiordland, dove ha selezionato le location
dove girare Lo Hobbit. Il portavoce Matt Dravitzki
ha confermato che anche la zona di Queenstown verrà utilizzata per
le riprese, che dovevano iniziare ufficialmente il 14 febbraio ma
che inizieranno presumibilmente un paio di settimane dopo.
Un’altra disavventura si aggiunge
alla lunga lista di contrattempi e disagi che stanno trasformando
la produzione dello Hobbit in una vera e propria
Odissea.
Il regista e
produttore Peter Jackson è stato infatti
ricoverato per un’ulcera perforata, ma si rimetterà presto e non ci
saranno conseguenze per la sua salute, come spiega il portavoce del
regista:
Sir Peter Jackson è stato
ricoverato all’Ospedale di Wellington mercoledì sera a causa di un
dolore acuto allo stomaco. Successivamente è stato sottoposto a una
operazione chirurgica per un’ulcera perforata. Sir Peter si sta ora
rimettendo tranquillamente, e i dottori ritengono che guarirà
completamente. L’operazione non avrà alcun impatto sul suo impegno
nel dirigere Lo Hobbit, oltre a un piccolo rinvio dell’inizio delle
riprese.
La settimana scorsa Jackson ha
visitato la regione del Fiordland, dove ha selezionato le location
dove girare Lo Hobbit. Il portavoce Matt Dravitzki
ha confermato che anche la zona di Queenstown verrà utilizzata per
le riprese, che dovevano iniziare ufficialmente il 14 febbraio ma
che inizieranno presumibilmente un paio di settimane dopo.
E’ morta ieri a Roma l’attrice
Maria Mercader, seconda moglie di Vittorio De Sica, madre di
Christian e Manuel. Nata a Barcellona il 6 marzo 1917, aveva
conosciuto Vittorio sul set di Un garibaldino al convento
del 1942, allontanandosi poi pian piano dal grande schermo.
L’ultimo sua apparizione al cinema
risale al 1992, quando Carlo Verdone la volle nel suo film Al
lupo al lupo. Aveva 92 anni, bella, bionda, visino dolce,
aveva conquistato il grande regista Premio Oscar di Ladri di
Biciclette e Sciuscià, che all’epoca era già sposato.
La coppia riuscì a coronare il sogno di salire all’altare solo 17
anni dopo, con un matrimonio in Messico nel 1959, che però non
venne riconosciuto in Italia. Replicarono quindi nel ‘69 a
Parigi.
Il progetto ambizioso di
trasposizione televisiva-cinematograica della serie di racconti di
Stephen King, La Torre Nera, va avanti, e si cerca ancora un
protagonista.
Dopo il nome di Viggo Mortensen
pare che ora il candidato più probabile a ricoprire il ruolo di
Roland Deschain sia lo stesso Javier Bardem che sta attraversando
un grande momento professionale (arrivata la terza nominations agli
Oscar) e personale (l’attrice Penelope Cruz l’ha appena resa papà
per la prima volta). Per la parte di Roland in passato erano stati
fatti i nomi anche di Daniel Craig, Jon Hamm e Hugh Jackman. Il
primo film della serie è stato adattato da Akiva Goldsman, storico
collaboratore di Howard, che si accuperà della regia e
dovrebbe arrivare al cinema il 17 maggio del 2013.
Doveva essere il thriller Toyes il nuovo film di Brian De Palma
ma a quanto pare invece c’è stato un cambio di rotta. Infatti
arriva la notizie che il regista ha preso l’impegno di
girare un remake del francese Crime d’Amour, intitolato
Passion.
Ultimo film di Alain Corneau visto
lo scorso anno al Festival internazionale del Film di Roma, Crime
d’Amour con Kristin Scott Thomas e Ludivine Sagnier, vedeva due
dirigenti aziendali in accesa competizione tra di loro, finché una
di loro commetteva un omicidio. Decisamente una scelta quanto meno
bizzarra, visto che il film originale è molto brutto, nonostante
buoni propositi. Che De Palma voglia puntare su quelli è dare più
lustro ad una storia come quella?
L’azione si sposterò dalla Francia
all’Inghilterra, e questa è la dichiarazione ufficiale di Brian De
Palma in merito al progetto: “E’ dall’epoca di Vestito per
uccidere che non ho la possibilità di combinare erotismo, suspense,
mystery e omicidio in un’esperienza cinematograficamente
ipnotica”. Le riprese, con finanziamenti europei, inizieranno
il prossimo agosto in teatri di posa tedeschi, prima di spostarsi a
Londra per gli esterni.
Vento di primavera: nel 1942 la Germania nazista riesce ad
occupare la Francia estendendo così il suo regime di terrore. Dopo
aver obbligato gli ebrei ad indossare la Stella di David per essere
riconosciuti, dopo averli espulsi dalle scuole e ad aver negato
loro ogni possibilità lavorativa…
Hitler chiede al governo francese
di consegnare alle SS 20.000 dei 25.000 ebrei residenti a Parigi.
Questi devono essere trasportati inizialmente nei campi di raccolta
in Francia e poi, una volta terminati i lavori di costruzione dei
forni crematori, portati a morire nei lager. Il maresciallo Pétain
aderisce alle richieste senza obiettare nulla. Tra tutte le
famiglie ebree destinate a morire c’è quella del piccolo Joseph che
vive a Montmartre. Anche loro finiscono nel velodromo Vel d’Hiv
dove ha inizio il loro calvario!
Roselyne Bosch ci racconta la
tragedia vissuta dai 13.000 ebrei che nella notte tra il 15 e il 16
luglio 1942 sono stati condotti alla morte da un regime, ma
soprattutto da uomo, senza scrupoli e insensato. Tutto è raccontato
attraverso il punto di vista di un bambino di dieci anni che vede
la sua vita sconvolta senza motivo. Immagini forti con soldati
sprezzanti e violenti, scene drammatiche che mostrano i
maltrattamenti subiti dagli ebrei non solo uomini e donne ma anche
bambini innocenti. (Al cinema dal 27/01/2011).
Yattaman – Il
film: Ganchan e la sua ragazza Janet sono abili
costruttori e riparatori di apparati elettrici…in realtà però sono
dei veri e propri super eroi che, quando vestono i panni di
Yattaman 1 e Yattaman 2, cercano di salvare il mondo ogni volta che
questo è in pericolo. Un giorno ricevono la visita di Shoko che
cerca il loro aiuto per ritrovare suo padre, il dottor Kaieda,
scomparso durante le ricerche di un frammento della Pietra
Dokrostone. Questa Pietra ha la capacità di conferire poteri
eccezionali a chi la possiede e se finisse nelle mani sbagliate il
mondo intero sarebbe in pericolo. Gli Yattaman iniziano così le
ricerche ma vengono ostacolati dai loro acerrimi nemici, il trio
Drombo con la bella e affascinante Miss Dronio come capo e i suoi
due scagnozzi, Boyaki e Tonzura.
Takashi Miike trasporta sul
grande schermo il famosissimo e amatissimo cartone animato
nipponico Yattaman. Ambientazioni molto simili a quelle del cartone
animato, caratteri e personaggi del tutto identici all’originale e
anche molti personaggi secondari che forse alcuni non ricordano.
Insomma un film per tutti, per i più piccoli e per tutti coloro che
con questo anime ci sono cresciuti.
The Green Hornet: Britt Reid ha
sempre vissuto nel lusso e senza uno scopo preciso di cosa fare
della sua vita, quando però muore suo padre James, uno dei più
grandi magnati dell’editoria, Britt eredita tutto il patrimonio di
famiglia ed è costretto ad assumersi delle responsabilità.
Ovviamente non né ha molta voglia e così, un po’ per noia e un po’
per provare nuove emozioni, decide di allearsi con Kato, un
impiegato del padre che ha molta inventiva ed è eccezionale nelle
arti marziali….Britt diventa così The Green Hornet, il Calabrone
Verde, un super eroe che cerca di far rispettare la
legge…infrangendola! Con l’aiuto di Kato, di una macchina
indistruttibile la The Black Beauty e della sua segretaria Lenore,
Britt da la caccia a tutti i criminali di Los Angeles…finché non si
trova a dover affrontare il boss di tutti i criminali ossia
Benjamin Chudnofsky che tempo prima aveva dato vita ad un complotto
a cui prese parte anche il padre di Britt.
Ideato da George W. Trendle e
Fran Striker per un serial radiofonico statunitense nel 1936,
The Green Hornet divenne un serial cinematografico e poi una serie
televisiva. Ora con il regista Michel Gondry diviene un film in 3D.
La trama è per grandi linee molto simile a quelle delle serie ma
qui vediamo un eroe presentato in chiave ironica che non ha una
vera propensione per la giustizia ma diventa eroe solo per fuggire
dalla noia. Bravissimo Seth Rogen nel ruolo principale con la sua
comicità ed anche Jay Chou nei panni dell’intelligente e atletico
Kato.
Parto col folle: Peter Highman è
un architetto sposato con Christine che sta per partorire il loro
primogenito. Per stare accanto alla moglie durante il parto, Peter
tenta di prendere il primo aereo che da Atlanta lo porta a Los
Angeles…ma le cose non vanno come lui sperava! Sull’aereo incontra
Ethan Tremblay, un aspirante attore che viaggia col suo cagnolino
Sonny e le ceneri di suo padre. Per un malinteso Peter ed Ethan
vengono cacciati dall’aereo e costretti a prendere altri mezzi per
viaggiare. Peter non sa come fare, vuole assolutamente tornare
dalla moglie ma i suoi bagagli con i documenti sono ormai in volo.
E’ costretto così a viaggiare in macchina con Ethan….un viaggio che
non porterà altro che guai!!
Todd Phillips dirige questo film
on the road con la strana coppia Robert Downey Jr. e Zach
Galifianakis. Un film divertente dove tra un disastro e l’altro c’è
anche spazio per del sentimentalismo.
Il discorso del re: Bertie è il
secondogenito di re Giorgio V, sin dall’infanzia soffre di una
grave balbuzie che lo mette in imbarazzo nei vari ricevimenti a cui
è costretto a partecipare. Quando re Giorgio V muore e suo fratello
re Eduardo VII abdica essendo incapace di governare un paese,
Bertie è costretto suo malgrado a diventare re prendendo il nome di
Giorgio VI. Bertie però deve risolvere il suo problema così la
moglie, Lady Lyon, decide di assumere il logopedista Lionel
Louge. Dapprima Bertie è molto scettico a causa dei modi un po’
strani e poco convenzionali del medico, poi però tra i due nasce
una buona amicizia che porterà Bertie a risolvere il suo problema e
a pronunciare il grande discorso che porterà la sua Patria a
combattere contro la Germania nazista.
Tom Hooper dirige efficacemente
questo film che non solo narra la vicenda personale di un re ma
ricostruisce anche gli anni difficili che portarono alla Seconda
Guerra Mondiale. In contrasto ci sono due personaggi: Hitler che ha
usato la radio in maniera esemplare per diffondere la sua
propaganda e Bertie che invece temeva la radio a causa della sua
balbuzie, da un parte un uomo pieno di se dall’altra un uomo con
complessi di inferiorità ma che nonostante tutto è riuscito a
vincere le sue paure e a risolvere il suo problema. Ottima
l’interpretazione di Colin Firth nei panni di Bertie e la
ricostruzione storica fatta dal regista.
Febbre da fieno: Matteo vive a
Roma, lavora in un negozio di modernariato, il Twinkled, ed è
ancora innamorato della sua ex ragazza Giovanna che lo ha lasciato
da ormai un anno per una donna. Il negozio sta attraversando una
crisi a causa della cattiva gestione del proprietario ma quando
arriva Camilla le cose inizino ad andare meglio. Camilla sin da
subito cerca di far colpo su Matteo ma lui è talmente preso da
Giovanna da non vedere ciò che ha davanti a sé. Nonostante tutto
Camilla non demorde e fa di tutto pur di conquistarlo…
Laura Luchetti dirige Andrea
Bosca, Diane Fleri e Giulia Michelini in questa commedia romantica
che fa riflettere su un destino imprevedibile e sulla possibilità
di dare una seconda chance a chi ci sta accanto.
127 ore è un film
decisamente anomalo e non consueto nel panorama cinematografico.
Altrettanto complesso per certi versi se si considera che ruota
attorno alla vera storia di Aron
Ralston, l’alpinista americano divenuto tristemente
famoso per essere rimasto imprigionato da una frana nel corso di
una scalata nello Utah, dove è rimasto isolato dal mondo per
diversi giorni.
Nonostante un inizio che fa temere
il peggio considerando un certo voyerismo da stile videoclip o spot
pubblicitario con tanto movimento e poca sostanza, il film cambia
decisamente registro non appena il personaggio entra nel vivo della
natura dello Utah, diventa molto di più che semplice virtuosismo.
La coppia Danny Boyle e
James Franco si impegna molto in questa pellicola e i
risultati sono dalla loro parte. Non bisogna certo gridare al
capolavoro, né tanto meno esasperare con eufemismi esagerati la
performance di Franco, però è anche grazie ad essa che il film
riesce a condurre lo spettatore con una buona tensione: fresca e
originale che a tratti emoziona e trascina, tanto da far confondere
la percezione reale con l’illusione e i viaggi allucinatori che il
protagonista compie. Attraverso questo delirio si riesce ad entrare
affondo nella mente del protagonista e a capirne meglio le paure,
le ossessioni, i sogni, i rammarichi di una vita vissuta sempre a
limite e all’estremo. Inoltre, l’illusione diventa anche
premonitrice, tanto da segnarlo in modo indelebile.
127 Ore è un film piuttosto godibile
che permette il lusso di approfondimenti su vari livelli.
Le pecche in una pellicola come
questa forse sono un limitato incipit, frutto di un caos registico
che non è proprio dei migliori e un eccessivo e pretenzioso
egocentrismo nei confronti del protagonista. Uno stile decisamente
troppo patinato: da spot Gatorade. Un maggiore approfondimento di
personaggi secondari lo avrebbe reso certamente più interessante ma
forse avrebbe perso i connotati di anomalia. Tuttavia è da premiare
il coraggio che Danny Boyle mette 127
Ore, cercando di osare in tutte le maniere possibili,
talvolta riuscendo a costruire sequenze molto belle come ad esempio
l’aumentare irrefrenabile del battito cardiaco connesso ad uno
spropositato aumento di pressione ed ad un efficace gesto
risolutore; e talvolta un po’ meno: come l’inspiegabile carrellata
di prodotti liquidi in commercio frutto delle allucinazioni
traumatiche.
In definitiva 127
Ore è un film piuttosto godibile che permette il
lusso di approfondimenti su vari livelli che certamente lasciano
ampio spazio a riflessioni esistenziali e che di certo farà piacere
a molti spettatori. Che finalmente Boyle si sia
lasciato dietro quella parentesi milionaria e sia tornato ad un
registro decisamente più consono alle sue caratteristiche … alla
28 giorni dopo per intenderci … ?
La recensione del
film Vento di primavera, ultimo film
della regista francese Rose Bosche con Jean Reno e
Mélanie Laurent. In Vento di
Primavera ambientato a Parigi nell’estate del 1942, il
governo collaborazionista di Vichy sostiene concretamente la
Germania nella progressiva e inarrestabile discriminazione contro
gli ebrei di nazionalità francese. Seguiamo le vicende (realmente
accadute e rigorosamente documentate) di una famiglia ebraica del
quartiere di Montmartre, con gli occhi dei bambini… “Diventeremo
grandi?”
Questa agghiacciante domanda è
pronunciata con spontaneità e ovvio timore da uno dei piccoli
protagonisti di Vento di primavera (La
Rafle), ultimo film della regista francese Rose Bosch,
atto a mostrare uno degli episodi meno noti della Seconda Guerra
Mondiale: lo sterminio di 13.000 ebrei francesi, donne, uomini,
anziani e bambini, con la collaborazione fra Hitler e il generale
Pétain, avvenuto tra luglio e agosto del 1942.
Tutto ha inizio quando gli ebrei
francesi sono obbligati a portare la stella gialla, finché vengono
progressivamente allontanati dai luoghi pubblici e privati del loro
impiego. Ma il peggio dovrà ancora arrivare: la notte fra il 15 e
il 16 luglio 1942 i militari francesi catturano 13.000 ebrei con
una retata che non risparmia neppure i bambini. Questi, insieme
alle loro famiglie, vengono condotti nel Vélodrome d’Hiver di
Parigi, mentre le persone nubili sono smistate nel campo di Drancy,
per poi essere deportate ad Auschwitz. In realtà anche le famiglie
con bambini dovranno affrontare la stessa sorte, e i piccoli
verranno privati dei loro genitori, in una deportazione “verso
l’est” che non ha ritorno.
Vento di Primavera , il film
L’ottima regia opta per
la rappresentazione di eventi narrati in parallelo: seguiamo
innanzitutto la vicenda degli ebrei francesi, con gli occhi
dell’undicenne Joseph Weismann e dei suoi amici, ma anche delle
autorità francesi e di Hitler, mai come in questo film emblema
della banalità del male. E’ agghiacciante vedere il dittatore
atteggiarsi in tutti i suoi sbraiti militareschi e razziali
alternati a istantanee di vita privata: un uomo vegetariano e che
gioca con i bambini, ma che non ha rispetto per l’essere umano e
non esita a sterminare i piccoli appartenenti a un’altra “razza”,
optando per lo sterminio mediante i forni crematori giacché,
ridotte in cenere, non è possibile conoscere il numero delle
vittime, né identificare uomini, donne e bambini.
Qualche anno fa Il
bambino con il pigiama a righe aveva mostrato gli
orrori del secondo conflitto mondiale con gli occhi innocenti di un
bambino, e Vento di primavera propone lo
stesso espediente adottando il punto di vista di persone realmente
esistite. Joseph è oggi uno dei pochi sopravvissuti alla strage
degli ebrei francesi, tragico episodio che, grazie al film di Rose
Bosch, vivrà per sempre nella memoria. In passato, altri film
sull’Olocausto hanno immortalato i drammatici eventi con fotogrammi
irripetibili: se in Schindler’s List rimane impressa, più
di ogni altra immagine, la bimba dal cappottino rosso,
Vento di primavera offre un’altra
rappresentazione memorabile: la panoramica del Velodromo in cui
sono ammassati migliaia di ebrei, che osserviamo con gli occhi
stupefatti dell’altruista infermiera Annette Monod, interpretata da
Mélanie Laurent. Quest’ultima, molto
apprezzata in Bastardi senza gloria e Il concerto,
rivela al grande pubblico le sue grandi doti di attrice drammatica,
ma di certo la sua prova più commovente rimane il ruolo che qualche
anno fa le ha regalato un César, in Je vais bien, ne t’en fais
pas. Fra gli altri interpreti, emerge un inedito
Jean Reno, che veste i panni di un magnanimo e
coraggioso infermiere, e Gad Elmaleh e Raphaëlle Agogué, i genitori
del piccolo Joseph.
Tra Chopin e Wagner, Edith Piaf e
Debussy, la struggente colonna sonora anima un film commovente e
appassionante, in cui l’unica nota di demerito va al titolo
italiano: Vento di Primavera è in
realtà “la retata”, e non c’è alcun riferimento né alla primavera
né tantomeno a un vento di primavera. Non lasciatevi fuorviare,
dunque. Di certo è d’obbligo invitarvi a scoprire un film storico
che, oltre a ricordare in occasione della Giornata della Memoria,
mira anche a sollecitare una riflessione sull’essere umano: il male
e il potere hanno un volto mediocre, come suggerito dalla regista,
e proprio questo li rende più mostruosi.
E’ ufficialmente confermata la
notizia, che già circolava da un po’ di tempo, che Naomi
Watts sostituirà la collega Charlize Theron in J.Edgar ,
il prossimo film dell’instancabile Clint Eastwood.
La bella attrice britannica
interpreterà il ruolo di Helen Gandy, l’assistente personale di
Hoover che dopo la sua morte nel 1972 distrusse tutti i file
personali, i quali contenevano segreti sui più importanti
personaggi della scena politica americana. Nel cast del film, oltre
a Naomi sono già confermati Leonardo DiCaprio nel ruolo del
protagonista, Josh Lucas, Judi Dench, Armie Hammer e Ed
Westwick.
Emma Watson ormai definitivamente
libera dalla saga di Harry Potter sarà insieme all’attore di Percy
Jackson Logan Lerman protagonista di The Perks of Being a
Wallflower, tratto da un romanzo di Stephen
Chbosky, il quale intende occuparsi personalmente anche
della sceneggiatura e della regia.
La storia ruota attorno ad un
ragazzo chiamato Charlie, che all’ultimo anno di scuola affronta
tutti i problemi tipici dell’adolescenta, in quello che è un
controverso racconto di formazione. La Watson interpreterà invece
un’amica di Charlie.
A produrre il progetto per vie
indipendeti c’è niente meno che l’attore John Malkovich. Tuttavia
la produzione è ora in un periodo di stallo. La Situazione
potrebbe sbloccarsi molto presto grazie all’intervento della
Summit Entertainment, entrata ora in trattative per produrre la
pellicola.
Le riprese di Spider-Man continuano e questa volta le immagini
che provengono dal set mostrano stunt alle prese con il volo:
l’Uomo Ragno, infatti, è stato fatto “volare” in mezzo al traffico
di New york City, girate però a Los Angeles.
James Cameron Intervistato ha
conferma di aver iniziato a scrivere i sequel di Avatar, con
l’intenzione di girarli e post-produrli contemporaneamente. Buona
parte del cast tornerà..Sono immerso nel processo di
scrivere i prossimi due film di Avatar. Abbiamo intenzione di
girarli assieme, e post-produrli assieme, e poi li faremo uscire
con un anno di distanza l’uno dall’altro. Al momento puntiamo a
natale 2014 e 2015.
Buona parte del cast del primo film tornerà nei sequel, spiega
Cameron: In pratica, chi è sopravvissuto nel primo film tornerà
nel secondo, almeno in qualche forma.
Una cosa è certa: una
percentuale degli eventuali enormi incassi dei sequel andrà in
beneficenza. La Fox ha preso accordi con me per donare una parte
dei profitti alle cause ambientali che sono al cuore del mondo di
Avatar. Non voglio fare altri sequel di Avatar senza un piano più
grande.
Come da annuncio ufficiale
Avatar
2 uscirà a dicembre 2014, Avatar
3 a dicembre 2015. Dovrebbero quindi ritornare i
sopravvissuti Sam Worthington, Giovanni Ribisi, Zoe Saldana.
Sigouney Weaver invece, essendo scomparsa nel primo film dovrebbe
non tornare.
James Cameron Intervistato ha
conferma di aver iniziato a scrivere i sequel di Avatar, con
l’intenzione di girarli e post-produrli contemporaneamente. Buona
parte del cast tornerà..
Sono immerso nel processo di
scrivere i prossimi due film di Avatar. Abbiamo intenzione di
girarli assieme, e post-produrli assieme, e poi li faremo uscire
con un anno di distanza l’uno dall’altro. Al momento puntiamo a
natale 2014 e 2015.
Buona parte del cast del primo film tornerà nei sequel, spiega
Cameron:
In pratica, chi è sopravvissuto nel primo film tornerà nel
secondo, almeno in qualche forma.
Una cosa è certa: una
percentuale degli eventuali enormi incassi dei sequel andrà in
beneficenza. La Fox ha preso accordi con me per donare una parte
dei profitti alle cause ambientali che sono al cuore del mondo di
Avatar. Non voglio fare altri sequel di Avatar senza un piano più
grande.
Come da annuncio ufficiale
Avatar
2 uscirà a dicembre 2014, Avatar
3 a dicembre 2015. Dovrebbero quindi ritornare i
sopravvissuti Sam Worthington, Giovanni Ribisi, Zoe Saldana.
Sigouney Weaver invece, essendo scomparsa nel primo film dovrebbe
non tornare.
Michele
Placido Nella sua carriera, tra direzione e
recitazione, ha collezionato più di cento film. Ha lavorato con i
più grandi registi italiani: Monicelli, Comencini,
Montaldo, Bellocchio, Lizzani, Citti, Damiani, solo per
citarne alcuni. Ha partecipato a progetti diversissimi, passando
dall’impegno civile, all’affresco sociale, alla commedia con
ammirevole disinvoltura.
Ha esordito in teatro, per poi
frequentare principalmente cinema e televisione, quella che lo ha
portato nelle case di tutti gli italiani, dandogli la maggior
notorietà. I risultati del suo lavoro non sono sempre stati felici,
ma in tutti i suoi progetti ha sempre messo energia e passione,
senza risparmiarsi mai, e ci ha regalato diverse straordinarie
interpretazioni e alcuni ottimi film. Stiamo parlando di
Michele Placido, classe ’46, radici
profonde nel meridione d’Italia – padre lucano di Rionero in
Vulture, discendente del brigante Carmine Crocco, e madre pugliese
di Ascoli Satriano – romano d’adozione.
La famiglia è numerosa (è terzo di
otto figli) e si respira aria dei mestieri più vari: ci sono
giornalisti (il cugino del padre Beniamino), un sacerdote (lo zio
Padre Alessandro), un insegnante (lo zio Cosimo), mentre il
fratello Donato condividerà con lui il mestiere d’attore. Il grande
passo è il trasferimento a Roma, dove diventa poliziotto. Ma la sua
passione è la recitazione e presto lascia la polizia per iscriversi
all’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”. La prima
esperienza importante è in teatro, diretto da Gabriele Lavia nel
’70 per una trasposizione dell’Orlando Furioso. Di lì a poco,
approda al cinema: è accanto a Monica Vitti e Carlo delle Piane in
Teresa la ladra (’73), è diretto da Eriprando Visconti, nipote di
Luchino, ne Il caso Pisciotta (’73).
L’anno seguente vede l’incontro col
maestro della commedia all’italiana, Mario Monicelli, che lo
sceglie nel ’74 per Romanzo popolare, dove è il poliziotto Giovanni
Pizzullo, coinvolto in un triangolo amoroso con Ornella Muti e Ugo
Tognazzi. Il “Romanzo”, al cui soggetto hanno collaborato Age e
Scarpelli, ritrae abilmente la Milano proletaria dell’epoca,
ironizzando sui suoi stereotipi e introducendo temi attuali
come quello dell’emancipazione femminile. Sempre nel ’74 avviene
l’incontro con Luigi Comencini per Mio Dio, come
sono caduta in basso!, che vede Placido accanto a Laura Antonelli. Altri
importanti nomi del cinema italiano lo notano e lo scelgono. Nel
1976 lascia la commedia per dedicarsi alla versione cinematografica
del romanzo L’Agnese va a morire, diretto da Giuliano
Montaldo, ma si distingue soprattutto per la sua
interpretazione del giovane soldato Paolo Passeri in Marcia
trionfale di Marco
Bellocchio, che gli vale i primi riconoscimenti di
peso: Nastro d’Argento e David di
Donatello come Miglior Attore. Il film, che narra le
vicende del giovane Placido/Passeri alle prese col servizio di leva
e con il severo superiore Franco Nero/Asciutto, è un’aspra critica
al mondo militare e alle sue logiche, ma affronta anche il tema del
ruolo della donna in una società machista, e quello
dell’omosessualità, altra faccia di questa realtà. Michele
Placido tornerà a lavorare con Bellocchio nel 1980 per
Salto nel vuoto e nel 1999 per La
balia.
Michele Placido, attore vulcanico e
regista “ di pancia”
Per quel che riguarda la sfera
privata, l’attore in questi anni è legato a Simonetta
Stefanelli, e proprio nel ’76 nasce la loro primogenita
Violante, che poi seguirà le orme dei genitori,
intraprendendo la strada del cinema. Da questa unione nasceranno
altri due figli: Michelangelo nel ’90 e
Brenno Marco nel ’91, anche lui farà l’attore; mentre un quarto
figlio nascerà da una relazione extraconiugale nell’’88.
Negli anni ’70 le collaborazioni
con nomi importanti fioccano: nel ’77 lo vuole Lizzani per
Kleinhoff Hotel, dramma erotico però poco riuscito, poi
Sergio Citti per un ruolo nella divertente
commedia corale Casotto. Tratta da un racconto di Vincenzo
Cerami, si incentra su un gruppo di villeggianti che a
turno utilizzano la stessa cabina della spiaggia di Ostia. La
carrellata dei personaggi è comica e grottesca; il cast nutrito ed
efficace: si va dalla famiglia in villeggiatura, con Placido nel
ruolo del giovane sempliciotto alle prese con una giovanissima
Jodie Foster, alle due donne (le sorelle
Mariangela e Anna Melato) che per denaro accettano un ambiguo
incontro con il facoltoso Cerquetti (Ugo
Tognazzi), agli amici in cerca di divertimenti
(Gigi Proietti e Franco Citti) e così via, fino a
comporre un mosaico policromo che ben fotografa vizi e virtù del
nostro paese all’epoca.
L’anno dopo passa di nuovo
dalla commedia al dramma. È infatti la volta di Squitieri, che lo
dirige in Corleone. Nel ’79 Placido incontra per la prima volta il
regista Damiano Damiani, sotto la cui direzione
offre un’intensa interpretazione in Un uomo in ginocchio, dove
veste i panni del killer mafioso Antonio Platamone in un complesso
rapporto con la sua vittima designata Giuliano Gemma/Nino Peralta,
commerciante invischiato suo malgrado in una lotta tra clan.
Salvatore Samperi lo sceglie poi per portare sullo
schermo il romanzo incompiuto di Umberto Saba Ernesto, incentrato
sulle prime esperienze amorose omosessuali di un adolescente ebreo
nella Trieste degli anni ’10 e largamente autobiografico. Per la
convincente prova attoriale Placido riceve l’Orso d’Oro al Festival
di Berlino. Desideroso di cambiare atmosfere e
instancabile lavoratore, Placido si dedica alla commedia con
Castellano e Pipolo, partecipando a un episodio del loro Sabato,
domenica e venerdì (’79).
Nell’ ’80 è di nuovo con Lizzani
per portare su grande schermo il romanzo di Silone Fontamara.
Ritrova Marco Bellocchio in Salto nel
vuoto. Qui il regista, dotato di straordinario acume
nell’analisi di universi familiari dominati da rapporti malati, ci
presenta la storia di due fratelli: il giudice Michel
Piccoli/Mauro Ponticelli e sua sorella Anouk Aimée/Marta.
Il protagonista, terrorizzato dall’idea che sua sorella stia
impazzendo (c’era stato un caso in famiglia), decide di portarla al
suicidio. Per far ciò, le presenta un Michele
Placido perfettamente in parte nel ruolo di Giovanni
Sciabola, delinquente già istigatore al “salto nel vuoto” di
un’altra donna. Ponticelli spera che Sciabola porti al suicidio
anche Marta. La manovra però non riesce, e anzi, la sorella ha una
relazione con l’uomo e questa le dà il coraggio di allontanarsi dal
fratello, cui era legata da un perverso rapporto affettivo. A
questo punto sarà Piccoli a suicidarsi. A Cannes Piccoli e Aimée
ricevono la Palma d’Oro per la miglior interpretazione, mentre
Bellocchio è premiato con il David di Donatello
per la sua lucida regia.
In questi anni Michele
Placido, approfittando della fama di cui comincia a godere
all’estero, varca i confini italiani e si fa dirigere da
Walerian Borowczyk in Lulù (1980) e poi
in Ars amandi (1983), e dal francese
Benoît Jacquot in Les ailes de la
colombe (1981). In Italia è scelto da
Francesco Rosi per Tre
fratelli (’81), pellicola che restituisce, attraverso
la storia di Raffaele/Philippe Noiret, Rocco/Vittorio Mezzogiorno e
Nicola/Michele Placido, tornati al paesino d’origine per la morte
della madre, la complessità della nostra storia recente e racconta
la difficoltà di rapporti interrotti. Il film è ben accolto dalla
critica e premiato. Lo stesso avviene l’anno dopo per Sciopèn,
commedia corale, quasi esordio di Luciano Odorisio
(’82), premiata a Venezia col Leone
d’Oro. Nell’’85 l’attore pugliese lavora ancora con
Damiani, interpretando un killer della mafia in Pizza connection.
L’anno prima però, era stato lo stesso Damiani a volerlo per la
televisione, ad interpretare il ruolo opposto a quello del film
sopra descritto, nella prima serie de La Piovra. Placido vestirà i
panni del commissario Cattani fino al 1989. Grazie a questo ruolo
raggiungerà un’enorme popolarità. Basti pensare che la serie,
andata in onda su Rai 1, faceva registrare una media di 10 milioni
di spettatori. Nel frattempo, instancabile, continua a lavorare
anche per il cinema e qui, proprio nell’’89 interpreta un altro
personaggio molto amato dal pubblico. È infatti insegnante nel
carcere minorile Malaspina a Palermo, in Mery per
sempre, diretto da Marco Risi e
ispirato all’opera autobiografica di Aurelio
Grimaldi. Qui Risi trova la sua chiave espressiva,
occupandosi di temi forti, radicati nella contemporaneità, come il
fenomeno della delinquenza minorile nel sud Italia, di cui indaga
moventi, ma che soprattutto fotografa puntualmente, trovando in
Placido l’ideale alter ego di Grimaldi.
Negli anni ’90, che si aprono con
la nascita del suo secondogenito Michelangelo e proseguono con
quella di Brenno Marco, Placido si dedica ancora a un ruolo
d’impegno civile: è Giovanni Falcone nell’omonimo film di
Giuseppe Ferrara (’93). Poi sarà un faccendiere
senza scrupoli accanto a Enrico Lo Verso in
Lamerica di Gianni
Amelio (’94) e a fine decennio lo vorrà di nuovo
Monicelli, che lo lanciò agli inizi, nella commedia
Panni sporchi (’99) accompagnato da un
nutrito cast, che gli fa incontrare nuovamente (dopo
Romanzo Popolare e Casotto) Mariangela Melato, Ornella
Muti, Gigi Proietti. Il ’99 è l’anno dei ritorni: lo
vediamo infatti in un piccolo ruolo, diretto per la terza volta da
Bellocchio, in La balia, protagonisti
Fabrizio Bentivoglio e Valeria Bruni Tedeschi,
coppia borghese alle prese con la maternità. Gli anni ’90 vedono
l’attore di Ascoli Satriano affrontare il divorzio da
Simonetta Stefanelli.
Negli anni 2000 si divide ancora
tra ruoli impegnati e leggeri. Si inizia con la commedia Liberate i
pesci di Cristina Comencini, dove
Placido interpreta il boss Michele Verrio,
spassosa macchietta. Accanto a lui Laura Morante, Lunetta
Savino, Emilio Solfrizzi e Francesco Paolantoni. Si
prosegue con l’impegno sociale: nel 2003 è un sindacalista a
rischio di licenziamento ne Il posto dell’anima di Riccardo
Milani, che l’anno prima lo aveva diretto in una misurata
interpretazione nel film per la tv sulla vicenda del sequestro
Soffiantini. Mentre l’anno successivo è la volta di una tormentata
storia d’amore, dai toni crudi, che vede Michele
Placido accanto a Fanny Ardant, diretti da
Mario Martone (L’odore del
sangue). Partecipa poi a Il caimano
di Nanni Moretti (2006) e a La
sconosciuta di
Giuseppe Tornatore, per ritrovare Monicelli in Le rose
del deserto. È di nuovo in un ruolo leggero nel film di
Alessandro D’AlatriCommediasexy (2007), mentre torna al
dramma interpretando il padre del pianista jazz Luca
Flores/Kim
Rossi Stuart in Piano Solo, dove
è diretto ancora da Riccardo Milani. In questi anni, partecipa
anche ad alcune pellicole meno riuscite:
SoloMetro di Marco
Cucurnia (2006), 2061 – Un anno
eccezionale di Carlo Vanzina (2007),
Il sangue dei vinti di Michele
Soavi (2008).
Fin qui abbiamo parlato di
Michele Placido attore, ma un altro capitolo
importante della sua storia cinematografica è il lavoro da regista.
Dopo aver lavorato al fianco dei più grandi registi italiani,
infatti, Michele decide che è arrivato il momento di passare dietro
la macchina da presa, per raccontare la “sua” Italia. Lo fa per la
prima volta nel ’90 con Pummarò, in cui affronta il tema
dell’immigrazione, proprio negli anni in cui i suoi effetti
cominciavano a porre importanti questioni al nostro paese. E sarà
indiscutibilmente un cinema d’impegno il suo. Nel ’95 dirige con
maestria un ottimo Fabrizio Bentivoglio, che
interpreta in modo misurato e intenso al tempo stesso l’avvocato
Giorgio Ambrosoli, in Un eroe borghese. Il film ricostruisce
efficacemente le vicende legate alla morte dell’avvocato, chiamato
a gestire la liquidazione del Banco Ambrosiano, e poi fatto
uccidere perché non intendeva piegarsi al complicato groviglio di
interessi soggiacenti all’affare. Si ricostruisce così una delle
pagine buie della nostra storia recente, facendola conoscere alle
giovani generazioni e ricordandola alle meno giovani. Tre anni dopo
dirige con successo Del perduto amore: ancora alle prese con una
ricostruzione del nostro passato, siamo nel 1958, qui racconta la
storia di un’appassionata insegnante, Liliana/Giovanna Mezzogiorno,
che in un paesino di provincia lucano fa di tutto per assicurare
un’istruzione ai ragazzi meno fortunati. Nutrito cast, in cui
Michele Placido vuole nuovamente Fabrizio
Bentivoglio, oltre a Sergio Rubini, Enrico Lo
Verso e Rocco
Papaleo. Il film ottiene un buon riscontro di pubblico
ed è apprezzato dalla critica.
Per iniziare il nuovo millennio
dietro la macchina da presa, Michele Placido
sceglie invece una storia d’amore intensa e tormentata: quella tra
il poeta Dino Campana e la scrittrice Sibilla Aleramo, interpretati
da Stefano Accorsi e Laura
Morante. Anche qui affresco d’epoca (siamo negli anni
’10), con accenti più sentimentali e due interpretazioni vibranti.
Ovunque sei (2004) rivela limiti e non è
all’altezza dei precedenti e dei seguenti.
Nel 2005 il grande successo, con
Romanzo
criminale. Qui il regista raccoglie l’ennesima
sfida e non rinuncia alla sua passione: raccontare l’Italia in
tutta la sua complessità, anche le pagine più oscure. Prende spunto
dal romanzo omonimo di De Cataldo, che collabora
alla sceneggiatura assieme a Rulli e Petraglia, vuole nel cast i
più talentuosi attori italiani di questi anni – Pierfrancesco
Favino/il Libanese, Kim Rossi Stuart/il Freddo, Claudio
Santamaria/ il Dandi per interpretare i componenti della
banda della Magliana e Stefano Accorsi nel ruolo
dell’ispettore Scialoja che dà loro la caccia. È appunto una storia
romanzata, non una ricostruzione cronachistica. Il film suscita
polemiche da parte di chi teme l’identificazione con questi eroi
negativi. È forse un film scomodo anche perché, come sempre nella
filmografia di Placido regista, al di là delle gesta dei criminali
protagonisti, presenta un paese lacerato e corroso dall’interno da
interessi e poteri occulti, che ne determinano le sorti. Questi
poteri finiscono per fagocitare e strumentalizzare anche la banda,
il che non la assolve certo dagli efferati crimini commessi, ma fa
percepire a chi guarda un altro livello di lettura, più complesso,
e altrettanto importante. Michele Placido
rivendica l’impegno civile e la volontà di destare curiosità su
quel periodo storico, da parte delle giovani generazioni. Tutte
perfettamente in parte le interpretazioni degli attori. Direzione
sapiente e dinamica da parte di Placido, che non fa mai perdere
l’interesse allo spettatore. I premi arrivano copiosi. Sette
Nastri d’Argento, tra cui Miglior Film, Migliori
Attori Favino, Rossi Stuart, Santamaria; dieci
David di Donatello che premiano, tra l’altro,
ancora Favino, la sceneggiatura e la fotografia di
Luca Bigazzi. Il successo di pubblico è tale che
il film viene ottimamente venduto all’estero e in Italia ne viene
tratta una fortunata serie televisiva. L’anno successivo Placido ha
il suo quinto figlio, Gabriele, con la sua nuova compagna, Federica
Vincenti.
Il 2009 vede il regista portare
sullo schermo una storia ispirata alla sua gioventù. Ne
Il grande sogno, infatti, il personaggio
di Riccardo Scamarcio, poliziotto coinvolto nelle
lotte studentesche degli anni ’60, alle prese con i suoi dubbi in
un’Italia che cambia, è alter ego di Placido. Il 2011 invece è
l’anno di Vallanzasca –
Gli angeli del male. Nei panni del protagonista,
Kim Rossi Stuart, scelto per interpretare questo
difficile ruolo. È infatti, come lo ha definito lo stesso regista,
un viaggio attraverso il male, un male che però è necessario
conoscere, che è in Renato
Vallanzasca – criminale, assassino, colpevole con la
sua banda di rapine, sequestri e omicidi nella Milano degli anni
‘70 e ’80 – ma ci fa riflettere su quella parte di male che è in
ognuno di noi, e parallelamente ci mostra come in ogni criminale ci
sia anche un lato umano, perché ognuno è luci e ombre e non esiste
il male assoluto. La regia di Placido è istintiva e viscerale, «di
pancia», come ha dichiarato Filippo
Timi in una recente intervista (nel film è Enzo
“fratellino” di René). Ritmo veloce e incalzante, ampi spazi
d’improvvisazione per gli attori, un ruolo da co-sceneggiatore per
l’ottimo Rossi Stuart, che sfoggia tra l’altro un perfetto accento
milanese.
Il film ha partecipato fuori
concorso alla 67°
Mostra del Cinema di Venezia, accolto freddamente
dalla platea, e preceduto da molte polemiche, oltre che da una
lettera indignata da parte dell’Associazione che raccoglie i
familiari delle vittime. Ancora una volta Michele
Placido ci restituisce qui la sua visione complessa e
problematica della realtà italiana, raccontata con passione
autentica. E l’obiettivo, come sempre dovrebbe darsi nell’arte, è
quello di suscitare riflessioni, dibattiti, domande, in ogni caso
mettere in moto qualcosa, innescare un meccanismo virtuoso di
conoscenza. Anche stavolta il regista pugliese l’ha raggiunto.
Annunciate dal presidente
dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences Tom Sherak le
nomination per gli Oscar che saranno assegnati a Los Angeles il 27
febbraio al Kodak Theatre nell’attesissima cerimonia di consegna
degli Academy Awards.