Road to Oscar 2014: la migliore sceneggiatura non originale

Manca poco più di un mese alla sfavillante notte degli Oscar, il clima di attesa si fa sempre più ansiogeno e febbrile. Chi saranno gli incoronati di quest’anno? Le premesse per una kermesse emozionante e ricca di sorprese ci sono tutte. Grandi pellicole catapultate in una gara mozzafiato che consacrerà i vincitori non senza lasciare uno stuolo di delusioni e preannunciate ma mancate vittorie.

 

Ecco la rosa dei candidati alla migliore sceneggiatura non originale:

Richard Linklater, Etwan Hawke e Julie Delphy – Before Midnight

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Venti anni prima un treno diretto a Vienna aveva segnato il loro incontro, un romantico idillio vissuto nell’arco di un’incantevole notte, dal tramonto alle prime luci dell’alba. Il romanzo che Jesse aveva tratto da quella notte li farà rincontrare ormai cambiati, ma pur sempre anime erranti alla ricerca della felicità, in una Parigi deserta e avvolgente, dove una sceneggiatura delicata e ben costruita ci fa rivivere l’incanto e la nostalgia di un amore intangibile. Dopo Vienna in Before Sunrise e Parigi in Before Sunset, sarà la Grecia, in Before Midnight, il teatro della loro ritrovata e mai esaurita passione. Un amore trasognato, romantico, utopico quello di Jesse e Celine, che sgorga dalle mani di Richard Linklater (regista e sceneggiatore) che per il terzo capitolo si avvale anche della penna dei due attori protagonisti (Ethan Hawke e Julie Delpy), per mettere in piedi l’ossatura di una storia che non si esaurisce sullo schermo, ma tracima nelle loro vite anche a riflettori spenti. Scivolatagli nelle viscere quand’erano giovani e sognanti, i due attori non potevano – dopo venti anni di condivisione di idee e sensazioni – limitarsi ad interpretarne il terzo atto senza scriverne le battute. E infatti, i dialoghi sono proprio il punto di forza della pellicola, l’elemento che fa di un amore sui generis, una storia ordinaria e semplice, genuina e amabile, che riesce a far sognare tutti senza sfociare nell’esasperato sentimentalismo da soap opera. Celine e Jesse si confrontano con un amore a cui l’orologio della vita ha concesso solo tre mezze giornate, ma che è l’istantanea di un quotidiano palpabile anche all’apice della sua fugacità. Linklater sceglie di far emergere la forza della narrazione, mettendo la macchina da presa al servizio della storia e del compimento della sua filosofia sulla vita e sulla coppia.

Dopo Bernie, la commedia dark con Jack Black, il regista e sceneggiatore texano ha mostrato in questa odissea sentimentale tutte le qualità per potersi aggiudicare la famigerata statuetta. Ha l’anima e lo spirito per trionfare.

Billy Ray – Captain Phillips Attacco in mare aperto

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E’ la seconda pellicola in lizza per la miglior sceneggiatura non originale, diretta da un Paul Greengrass che ha messo in forma la storia del dirottamento della nave mercantile statunitense Alabama, avvenuta nel 2009 ad opera di pirati somali, tratta dal libro auto-biografico del capitano Richard Philips, celebrato dal film come l’impavido eroe che salvò il suo equipaggio dalla furia vendicativa somala, ma bollato dall’opinione pubblica come l’ennesimo codardo egoista che ha romanzato la sua posizione, a caccia di fama. Al di là delle considerazioni circa la corrispondenza tra il ritratto filmico diretto da Greengrass e sceneggiato da Billy Ray e la realtà dei fatti, Captain Phillips resta un film sicuramente da Oscar, non tanto per la qualità e lo stile della narrazione quanto per l’encomiabile interpretazione di Tom Hanks e l’impeccabile regia che riesce – complice un ritmo assolutamente ben dosato – a fare della pellicola un perfetto ed equilibrato esempio di contaminazione tra spettacolarizzazione e realtà, altisonanza tensiva e autenticità dei sentimenti. Se infatti la sceneggiatura di Billy Ray lascia trasparire la dedizione del Capitano Phillips e il suo coraggio nel consegnarsi ai somali, nonché il pragmatismo militare, sono le immagini di Greengrass a rendere vincente la pellicola.

Un ‘bravo’ quindi allo sceneggiatore di Hunger Games, che traspone benissimo il soggetto di Richard Phillips, ma che – rispetto ai suoi diretti concorrenti – non ha quel quid in più per aggiudicarsi il primato per la sceneggiatura.

Steve Coogan e Jeff Pope – Philomena

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Meritevole della statuetta è sicuramente la genuina Philomena che con semplicità e humour da vendere, in pieno stile british, ha fatto irruzione a Venezia, ingolosendo tutti i palati, anche quelli più sopraffini e mostrando quanto l’autenticità narrativa possa pagare ed appagare molto più di qualunque esperimento di impalpabile comprensibilità, se fatta con garbo e intelligenza. Un’opera fresca e spigliata che schiva la presunta retorica della storia con l’abilità registica che contraddistingue Stephen Frears, ma soprattutto con la delicatezza e sensibilità narrativa con cui sono trattati temi che potrebbero sfociare tranquillamente nel più melenso e classico dei melodrammi, e invece riescono a farci commuovere e sorridere, catapultandoci in una dimensione emotiva calda e immersiva. Che dire poi dell’arguzia ed elegante ironia dei dialoghi? Possiamo solo congratularci con il padre Steve Coogan che risplende nella duplice veste di sceneggiatore e co-protagonista.

La pellicola mette in scena la storia vera di una madre alla ricerca di un figlio perduto che Martin Sixsmith aveva raccontato nel suo libro “The lost Child of Philomena Lee”.

Restata incinta da adolescente e relegata nel convento degli orrori, Philomena (interpretata dalla formidabile Lady Dench) partorirà un bimbo che le verrà sottratto poco dopo. A distanza di 50 anni e con l’aiuto di un giornalista interessato alla sua storia (Steve Coogan), Philomena si rimetterà sulle sue tracce, rivivendo il dolore del passato  senza mai perdere la fede, nonostante avesse tutti i motivi per farlo.

Gli sceneggiatori Steve Coogan e Jeff Pope hanno il merito di aver maneggiato con estrema cura un materiale così caldo e spinoso, tanto da riuscire a farne una commedia squisitamente britannica il cui asso nella manica è proprio il perfetto connubio tra ironia e drammaticità, determinato anche della geniale scelta di contrapporre due personalità (Philomena e Martin) diverse, dal cui scontro nasce uno spassoso tete à tete.

Chissà se Steve Coogan, coadiuvato da Jeff Pope, riuscirà a metter le mani sulla statuetta e a guadagnarsi un pezzettino di celebrità anche come sceneggiatore, dopo una carriera da comico e attore? Confidiamo in lui.

John Ridley – 12 anni schiavo

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A dargli filo da torcere ci sarà però l’altro grande protagonista dell’attesissima kermesse che, dopo aver conquistato il Golden Globe come miglior film drammatico, si prepara con ben 9 candidature (tra le quali quella come miglior sceneggiatura non originale) a far man bassa di statuette. Stiamo parlando di 12 anni schiavo, biopic in cui Steve McQueen mette in scena la reale e drammatica odissea vissuta dal talentuoso violinista nero Solomon – tratta dall’omonimo libro di Solomon Northup – , che nel 1841 fu spogliato dei suoi documenti, strappato alla famiglia e portato in una piantagione di cotone della Louisiana, dove fu ridotto in schiavitù per dodici lunghi anni (11 anni, 8 mesi e 26 giorni).

Il film sfoggia un cast eccezionale con un violento e borderline Michael Fassbender, attore feticcio di McQueen, e un buon Benedict Cumberbatch.

Lo sceneggiatore John Ridley adatta per il grande schermo una storia che ha dell’incredibile: una lotta personale quella condotta da Solomon, sceneggiata con oculatezza e profondo rispetto, sottolineando come, al di là della sopravvivenza, l’obiettivo primario in uno scenario di crudeltà e dimesso servilismo sia preservare la propria dignità. Ridley analizza la condizione degli schiavi afro-americani con coraggio e decisione, senza risparmiare nulla dell’indecorosa piaga che sconvolse i neri d’America, ma rispolverando un punto di vista inusuale, quello di uno schiavo, cosa molto rara al cinema. Solomon e il suo disperato viaggio nei meandri della crudeltà umana, plasmato dalle svariate personalità in cui si imbatterà, colui che ha assaggiato il sapore della libertà e lo strazio della schiavitù, ma che farà della sua profonda fede lo strumento per evitare di soccombere alla malvagità dell’uomo.

John Ridley, da sempre sensibile alle tematiche di discriminazione razziale e reduce dalla sceneggiatura di Red Tails, film di Anthony Hemingway, che racconta la duplice guerra combattuta dai piloti di colore del gruppo di addestramento sperimentale Tuskegee, ha  buone probabilità di accaparrarsi la statuetta. Intanto aspettiamo con ansia l’uscita nelle sale il 20 febbraio!

Terence Winter The Wolf of Wall street

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Dulcis in fundo, la pellicola più attesa dell’anno, tra le favorite alla scorpacciata di Oscar, The Wolf Of Wall Street del premio Oscar Scorsese, con Leonardo DiCaprio a dominare la scena, Matthew McConaughey a fargli da mentore e Terence Winter, già vincitore di 4 Emmy Awards per I Soprano, in lizza per il riconoscimento come miglior sceneggiatura non originale.

Traendo spunto dal libro autobiografico di Jordan Belfort, uno degli uomini più potenti di Wall Street, Terence Winter adatta per il cinema una vicenda che per magniloquenza e sovraeccitata spudoratezza si presta molto alla sua penna, alla regia di Scorsese e quindi al grande schermo. E’ la storia della scalata al successo del fondatore di una delle più importanti società di brokeraggio e del suo clamoroso tracollo per frode e riciclaggi.

A Wall Street, cuore tachicardico della finanza, nulla è impossibile se sei giovane e puzzi di successo. Belfort, geniale e spericolato, impara l’ambigua arte di traghettare soldi e felicità, annaspando in una marea di vizi, dalla droga al sesso, dove neanche una sfilza di Ferrari ed elicotteri privati riesce a consumare i soldi che si moltiplicano a vista d’occhio. La sua società è una tana del lupo, un concentrato di ossessivo maschilismo, un luogo di smisurata depravazione che lo fa sentire ‘il re del mondo’.

Ne risulta una storia frizzante, vulcanica, funambolica, un’accozzaglia di situazioni, personaggi, stravaganze umane e sociali, assemblate in modo caotico al fine di rappresentare la frastagliata interiorità umana, vittima di una tragica decomposizione. Una storia vera che racconta l’altra faccia del sogno americano, in cui si palesa una critica allo yuppismo rampante di una generazione superficiale e avida. E’ inutile cercare un equilibrio narrativo, perché The Wolf of Wall Street mira proprio a far esplodere ogni sobrietà al fine di restituire il vuoto cosmico che regna nell’anima di un uomo la cui vita si alimenta solo del suo smodato desiderio di onnipotenza. Mentre tutto il resto è noia.

Una pellicola dirompente e travolgente. Con Paul Schrader a bordo sarebbe stato il top. Ma se non dovesse trionfare in questa categoria, di sicuro non resterà a mani vuote! Che vinca il migliore e il più coraggioso!

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