«Una lettera d’amore a Taiwan»: Shih-Ching Tsou ci racconta La mia famiglia a Taipei, dal 22 dicembre al cinema

In una chiacchierata allo scorso Festival di Cannes, dove è stato presentato per la prima volta tra le fila della Semaine de la Critique, abbiamo ripercorso con la regista taiwanese la lavorazione del film, il legame con Sean Baker e il racconto di una famiglia sospesa tra passato e presente.

-

La taiwanese Shih-Ching Tsou arriva al suo primo lungometraggio da regista “in solitaria” con un bagaglio raro: vent’anni passati a costruire, da coautrice e produttrice, il cinema degli altri. Con La mia famiglia a Taipei (Left-Handed Girl), scritto insieme a Sean Baker – che del film è anche produttore e montatore – la prospettiva cambia. Non è solo un debutto, ma il punto di arrivo di un lungo percorso creativo e personale, e al tempo stesso un ritorno a un nucleo di immagini, suoni e contraddizioni che la regista porta con sé da oltre due decenni e che trovano finalmente una forma compiuta sul grande schermo, attraverso un linguaggio visivo immersivo e profondamente radicato nei luoghi reali.

Presentato in anteprima mondiale alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes, dove è stato accolto con grande calore dalla stampa internazionale, La mia famiglia a Taipei ha poi proseguito il suo percorso nei festival fino alla vittoria del Premio per il Miglior Film alla Festa del Cinema di Roma 2025, affermandosi come uno degli esordi più sensibili dell’anno. In una lunga chiacchierata sulla Croisette proprio in occasione della première del film lo scorso maggio, Tsou ci ha descritto questo progetto come un vero punto di svolta, non solo professionale ma anche intimo: «Dopo vent’anni passati a lavorare sulle visioni degli altri registi, ad aiutarli a costruire il loro mondo, per me era importante ricominciare da capo. È quasi un “restart” della mia carriera come regista».

Il film – a cui abbiamo dedicato anche un’approfondita recensione – segue il ritorno a Taipei di una famiglia dopo anni di assenza, osservando la città attraverso lo sguardo della piccola I-Jing, che accompagna la madre single nel mercato notturno dove lavora per ripagare i debiti, mentre la sorella maggiore contribuisce con un impiego part-time. Tra bancarelle, luci al neon e una quotidianità frenetica, la bambina esplora con curiosità e meraviglia una nuova vita urbana, finché un divieto apparentemente innocuo – imposto dal nonno, che le proibisce di usare la mano sinistra perché ritenuta “malvagia” – innesca una serie di conseguenze inattese, portando a galla tensioni familiari e segreti sepolti. È all’interno di questo microcosmo domestico, sospeso tra tradizione e modernità, che Tsou costruisce un racconto intimo, fatto di silenzi, legami e fratture generazionali.

Quello che colpisce, però, è la misura del tempo che il film si porta dietro: Tsou non parla di un’ispirazione recente, ma di un’immagine che l’ha accompagnata per una vita intera. «Questa storia è nella mia testa da più di vent’anni», ha svelato, e la fa risalire a una frase ascoltata da bambina e mai davvero dimenticata. «Mio nonno mi diceva che la mano sinistra è la mano del diavolo e mi chiedeva di non usarla». Un divieto che, nella sua memoria, è legato anche a qualcosa di più profondo e ambiguo: l’idea di essere stata “corretta” senza nemmeno rendersene conto. «Non capivo, perché non ero mancina: ero già stata corretta. Ora uso solo la destra, ma mi hanno corretta quando ero piccolissima. Non lo sapevo nemmeno». In quella ferita minuscola e quotidiana – una superstizione familiare trasformata in regola – c’è già il nucleo del film: il corpo, l’identità, la tradizione che si impone come un destino, ma soprattutto il modo in cui i non detti si trasmettono di generazione in generazione.

La scintilla narrativa diventa poi un’alleanza creativa. Tsou racconta di aver condiviso quell’episodio con Sean Baker (premio Oscar per Anora) già nel 1999, quando si erano conosciuti a lezione di montaggio: «Gli ho raccontato questa cosa e lui ha pensato che ci fosse qualcosa da cui potevamo partire, qualcosa che potevamo scrivere insieme». È un dettaglio utile a capire come funziona, nel loro sodalizio, la divisione dei ruoli: lei porta la memoria, la lingua, le tensioni di un contesto; lui intercetta immediatamente la forma cinematografica che può contenerle. E infatti, quando nel 2010 tornano a Taiwan per restarci un mese e lavorare davvero alla sceneggiatura, Tsou insiste su un punto: anche senza conoscere la lingua, Baker “vede” il film con lucidità. «Lui non conosce davvero la lingua, ma è un genio del visual e dello storytelling. Quando siamo andati al mercato notturno, l’ha capito subito: sapeva già come il film dovesse essere girato, che dovevamo restare all’altezza della bambina e raccontare tutto attraverso i suoi occhi».

La piccola Nina Ye, protagonista de La mia famiglia a Taipei
La piccola Nina Ye, protagonista de La mia famiglia a Taipei – Cortesia di I Wonder Pictures

Tra quel ritorno a Taiwan e l’arrivo sullo schermo, però, passano anni di tentativi e ostacoli che Tsou ricostruisce con franchezza: fare un film indipendente in lingua non inglese, dice, significa soprattutto inseguire finanziamenti senza una rete solida. «È davvero difficile, perché è un film in lingua straniera. Non trovi soldi negli Stati Uniti». Eppure l’insistenza sul progetto non viene mai meno. Dopo una prima ricognizione già nel 2001 – con foto, sopralluoghi e persino una bozza di trailer – Tsou e Baker capiscono che serve dimostrare prima di tutto che un cinema “piccolo” è possibile. È così che nasce Take Out nel 2003: «È costato 3.000 dollari», ricorda, quasi a sottolineare che quella micro-produzione non ha settato solo un precedente, ma una prova generale di metodo e resistenza: «Abbiamo capito che è possibile fare un film anche solo in due».

La mia famiglia a Taipei, però, richiede tempo, e soprattutto un sostegno che per anni non arriva. Il punto di svolta, paradossalmente, passa proprio da Cannes: Tsou racconta che è stato il percorso di Red Rocket a riportarli sulla Croisette e a creare un contesto favorevole per raccontare il progetto alle persone giuste. «Red Rocket ci ha riportati a Cannes. Abbiamo raccontato la storia di Left-Handed Girl e gli è piaciuta moltissimo. Sono stati i primi sostenitori solidi». Da lì, la regista torna a Taiwan e intraprende la strada istituzionale: «Ho fatto domanda per il Taipei Film Commission Film Fund. È così che finalmente abbiamo fatto il film».

Arrivare alla Semaine de la Critique con un esordio così personale significa, per Tsou, anche viverlo come un evento collettivo: «È stato davvero qualcosa di speciale. Quando siamo stati selezionati dalla Semaine de la Critique eravamo felicissimi, perché è una piattaforma perfetta per lanciare un film come questo. Alla première abbiamo ricevuto tantissimo affetto ed è stato meraviglioso. Tutta la troupe taiwanese è venuta a Cannes, eravamo in sedici, ed erano lì per sostenermi e supportare il film. È stata un’esperienza davvero unica».

Dentro questo contesto, il lavoro sul cast racconta un’altra cosa importante: Tsou non cerca “performer”, cerca presenze, corpi e volti capaci di reggere la realtà. Lo dice chiaramente: «In tutti i film su cui lavoriamo insieme facciamo sempre street casting: è una parte fondamentale». Ma qui c’è una difficoltà in più: Tsou vive a New York, quindi non può restare per mesi a Taiwan a cercare attori. È in quel vuoto logistico che sceglie un canale imprevedibile: «Sono andata su Instagram». È lì che trova Shi Yuan Ma, la sorella maggiore: «È al suo primo ruolo. Non aveva mai recitato, ma ha dato una performance incredibile».

Per la bambina protagonista, Nina Ye, invece, la ricerca è quasi ossessiva e dura settimane: «Abbiamo anche organizzato workshop con acting coach, ma senza risultati. Alla fine l’abbiamo trovata grazie a una casting agent che si occupa di spot pubblicitari. Nina recita negli spot da quando aveva tre anni, quindi sa stare davanti alla macchina da presa e ha una presenza straordinaria». Accanto a loro, Janelle Tsai rappresenta l’unico volto già affermato tra i protagonisti: Tsou racconta di averla contattata dopo aver ascoltato un suo desiderio preciso. «Ho visto un’intervista in cui diceva di volere un ruolo che la mettesse davvero alla prova. È allora che l’ho cercata io».

La mia famiglia a Taipei, una scena del film - Cortesia di I Wonder Pictures
La mia famiglia a Taipei, una scena del film – Cortesia di I Wonder Pictures

Se sul piano produttivo la sfida è concreta, sul piano narrativo Tsou è ancora più netta: per lei, la storia è stratificata, fatta di livelli che si scoprono progressivamente, e ogni personaggio ha un’origine reale. «Ogni personaggio è ispirato a persone reali della mia vita, o a storie sentite da amici o dalla mia famiglia. E alcune cose sono successe davvero nella mia famiglia». Il suo obiettivo non è costruire un dramma “esemplare”, ma un sistema di relazioni credibile, dove la tensione non cancella l’amore e il conflitto non spezza necessariamente i legami. Lo spiega con un’immagine che vale anche come dichiarazione poetica: «Alla fine sembra che non sia successo niente, no? Come se tutto fosse tornato normale. Ma è così che funzionano le famiglie. Litighiamo con le sorelle, litighiamo con le madri. Ma le ami comunque. Tutto viene dalla cura e dall’amore. È per questo che ci sono scontri e difficoltà». È un’idea di famiglia come organismo che assorbe urti e segreti senza per forza trasformarsi in un trauma “risolto”: una normalità che, proprio perché torna, lascia spesso un retrogusto amaro.

Il film lascia emergere anche una riflessione sul ruolo delle donne all’interno di una società ancora segnata da forti retaggi patriarcali: «Volevo assolutamente mostrare quella dinamica. È quasi un commento su come vivono le donne in una cultura in cui gli uomini ricevono sempre un trattamento preferenziale». Tsou porta esempi molto concreti, legati all’eredità, al cognome, alla logica di appartenenza: «Pensano che quando ti sposi non fai più parte della famiglia. E se sei una figlia non erediterai, perché i tuoi figli non porteranno lo stesso cognome del figlio maschio». Da qui, la sua presa di posizione contro l’automatismo della tradizione: «Non si può continuare a seguire una tradizione solo perché è una tradizione. Bisogna pensare a cosa c’è dietro, perché la società è già cambiata. Non siamo più in una società agricola. Voglio che il pubblico ci pensi e crei la propria tradizione. Qualcosa di più giusto per tutti».

La mia famiglia a Taipei di Shi-Ching Tsou - Cortesia di I Wonder Pictures
La mia famiglia a Taipei di Shi-Ching Tsou – Cortesia di I Wonder Pictures

Il luogo in cui tutto questo si condensa è il mercato notturno, che nel film diventa letteralmente un personaggio. Tsou lo lega subito a una missione: «Con questo film voglio mostrare al mondo Taiwan, la mia casa. È uno spazio comunitario. Tutti ci vanno: comprano, cenano, si incontrano. È colorato, unico, molto cinematografico. Volevo che fosse uno dei personaggi del film. Durante la preparazione ho riscoperto Taiwan attraverso i suoi suoni: la musica, i rumori, persino la melodia del camion della spazzatura che passa per ricordare alle persone di uscire a buttare i rifiuti. Tutti questi suoni sono profondamente taiwanesi, fanno parte dei miei ricordi d’infanzia. È una vera lettera d’amore a Taiwan».

Ma è anche un luogo che impone una scelta di messa in scena, perché il caos e la folla sono impossibili da “addomesticare”: «È stato pazzesco. Il primo giorno eravamo in venti sul set e non riuscivamo a girare perché la gente si fermava a guardarci. Così ho deciso che saremmo scesi a cinque persone, cercando di essere invisibili. Non avevamo i soldi per chiudere la strada, ma soprattutto volevamo le persone vere intorno, perché solo così potevamo mostrare il vero night market».

Proprio da questi dettagli emerge l’identità del film soprattutto come esperienza sensoriale, spesso vista “dal basso”, con un ritmo che segue lo sguardo della bambina. Tsou racconta che l’immagine del caleidoscopio all’inizio nasce da un giocattolo della figlia: «Un giorno la osservavo mentre ci giocava e ho pensato che sarebbe stato bellissimo guardare il film in quel modo. La storia è raccontata attraverso gli occhi della bambina: restiamo alla sua altezza, viviamo il mercato notturno con la sua curiosità, perché per un bambino tutto è nuovo, fresco e colorato».

Infine, c’è la dimensione più personale: «I tre personaggi principali sono frammenti di me. La bambina che subisce un divieto senza capirlo, la sorella maggiore che vive una ribellione silenziosa verso la tradizione, e la madre, che oggi ha una figlia e vuole darle una libertà che lei non ha avuto. Fare questo film è stato un percorso di guarigione per me. Mi ha permesso di guardare indietro, a chi ero e al contesto in cui sono cresciuta».

La mia famiglia a Taipei costruisce il proprio equilibrio evitando qualsiasi enfasi, affidandosi a uno sguardo che osserva più di quanto giudichi e che lascia ai rapporti familiari il tempo di rivelarsi nei gesti e nei silenzi. È in questa misura, e nella scelta di un punto di vista infantile come lente narrativa, che il film trova la sua coerenza più profonda. In uscita nelle sale italiane dal 22 dicembre, accompagnato da un tour di presentazioni alla presenza della regista Shih-Ching Tsou e della giovane protagonista Nina Ye.

Agnese Albertini
Agnese Albertini
Nata nel 1999, Agnese Albertini è giornalista e critica cinematografica per Cinefilos.it, Best Movie e CinemaSerieTv.it. Laureata in Lingue e Letterature straniere all’Università di Bologna, dal 2022 scrive articoli, news, interviste in inglese e crea contenuti per i social.
- Pubblicità -

ALTRE STORIE

- Pubblicità -