#RomaFF12, Xavier Dolan: sognare in grande e abbracciare il dolore

Xavier Dolan
foto di Aurora Leone

Capelli ossigenati, sorriso timido, ma sguardo furbo e sfacciato; si presenta così Xavier Dolan alla Festa del Cinema di Roma. Protagonista di uno degli Incontri Ravvicinati con il pubblico, il regista canadese, bambino prodigio che vanta già sei film (e uno in arrivo) a 28 anni, ha incantato la sala.

 

Arguto e buffo, umile anche se sempre puntuale, capace di caricare di senso profondo affermazioni che dalle labbra di qualcuno altro risulterebbero banali o frasi fatte, Dolan ha raccontato il suo rapporto con il cinema in sei momenti, ognuno corrispondente a uno dei suoi film. Ma prima, allo sceneggiatore, attore, regista, produttore, montatore si chiede: meglio la regia o la recitazione?

“Credo di preferire la recitazione. Ma quando dirigo continuo a recitare, recito insieme a degli attori che ammiro, questo tipo di recitazione non è però gratificante come quando sono io a recitare, però per un paio di anni ho fatto così, anche perché imparo tanto da ciò che vedo davanti a me, dagli attori che si trasformano sotto i miei occhi. Da loro posso imparare moltissimo, e recitare mi manca. Vorrei farlo di più nei prossimi anni, sia per me che per altri.”

J’ai Tué ma Mère, primo film di Xavier Dolan

A 21 anni. Uno dei motivi per cui il tuo cinema ha conquistato il mondo è perché si sente da subit un’urgenza. Cosa ti ha spinto a girare questo film?

“È stato il mio primo film. Non avevo girato corti, non ho fatto una scuola di cinema, il mio nome è impresso soltanto sul diploma del liceo. Quindi volevo iniziare a recitare ma come attore ero disoccupato e così ho detto ‘Potrei ingaggiarmi da solo per raccontare questa sceneggiatura che parla della mia vita’. Non c’era competizione, ero l’unico contendente al ruolo.

Poi però le cose si sono complicate, ho dovuto investire tutti i miei soldi per produrlo e nessuno credeva sarebbe stato possibile, nessuno tranne gli attori che mi hanno aiutato. Tu parli di urgenza, necessità, io parlo di problema. Il film lo racconto per risolvere un problema che vedo nella mia vita e nella società. In questo caso ho deciso di raccontare la mia vita, risolvendo il problema dell’iniziare la mia vita come artista. Siccome gli altri non me lo permettevano me lo sono permesso da solo.”

Les Amours imaginaires, il piano sequenza e la tensione

Come mai hai deciso di girare la scena (mostrata in sala al pubblico, ndr) in piano sequenza senza stacchi?

“Anche se non posso parlare per gli altri registi, sembra che dai film che ho visto, i registi amano le inquadrature senza stacchi. La tensione che si crea con questo espediente. Ma per il regista e per la troupe è una grandissima sfida, perché tutte le persone che lavorano al film vengono coinvolte. È una coreografia che richiede l’attenzione di tutti. E poi dopo tanto lavoro la maggior parte delle volte non funziona. Io però non voglio che queste scene prendano il sopravvento e schiaccino il ritmo del film. Nessun idea può prendere il sopravvento sulla storia che rimane al centro.”

C’è stato un punto di riferimento cinematografico nella tua formazione di regista?

“Diciamo che ho visto qualche film, ma non troppi. Vedo sempre la delusione nella faccia della gente quando mi parlano di un film e poi scoprono che non l’ho visto. Mi vergogno un po’ di questo. Ci sono dei buchi da riempire nella mia cultura cinematografica, ma, ad esempio, nella scena che abbiamo visto di J’ai Tué ma Mère il riferimento è a Wong Kar-wai. La scena alla In the mood for love è così evidente che se il regista la vedesse potrebbe farmi causa. C’è una citazione da un libro, Steal like an artist, sulla possibilità di diventare artisti, ti dà dei consigli se hai potenziale. Qualcuno può pensare che sia superficiale ma io ci ho trovato tanti suggerimenti. La mia citazione preferita è ‘Inizi che sei finto, e poi diventi sei reale’.

Se leggerete questo libro, vedrete che molti artisti dicono che il furto artistico è naturale ed è spontaneo perché tu non sai chi sei fino a che non crei, con il cuore, con l’anima. Lo puoi fare attraverso il furto, ad esempio, sempre la scena in cui cito Wong Kai-wai: chiaramente avevo visto altri rallenty prima in altri film, ma è stato In the mood for love a farmi trovare la mia idea. Ripeti delle idee fino a che non le fai tue. Il rallenty adesso lo uso a modo mio. Credo di aver smesso questo lavoro di prestito con Tom à la ferme. È stato lì che ho cominciato a capire meglio mes tesso, ma puoi farlo solo dopo che hai creato. Il processo di crescita è fatto da prestiti e cose che hai rubato ad altri. Anche Coppola dice in questo film ‘Noi vogliamo che voi rubiate da noi, rubate le nostre inquadrature, le nostre scene, fino a quando arriverà il giorno che saranno gli altri a rubare da voi’”

Laurence Anyways, il rapporto tra felicità e libertà

I tuoi personaggi sono sempre divisi tra libertà e felicità. Tutti cercano la libertà di essere se stessi ma non tutti riescono poi a raggiungere la felicità.

“Penso che ci siano tanti film su persone che non hanno speranza e fortuna e non lottano per averli. Per ottenere qualcosa, oppure lottano ma tutto gli è contro. Sono film che sono molto popolari, li chiamano la pornografia della povertà.in qualche modo amano parlare di persone che non sono privilegiate, reietti che vivono ai margini della società. Ma questi film non danno mai una vera possibilità ai protagonisti.

Io invece amo i combattenti, quelli che hanno speranza. Alla fine la vita è questo: cercare di combattere per quello che sei, ma la società non lo apprezza perché quando si è autentici si mettono le altre persone di fronte alla falsità e ai fallimenti. Ci sono persone che si sono arrese, ma ci sono anche tanti sognatori. I miei personaggi si portano dentro il desiderio di combattere. Non sempre vincono, ma non sono mai dei perdenti.I miei film parleranno sempre di persone che cercano di trovare un loro spazio, ma se non ci riescono sarà sempre e solo colpa della vita, mai del fatto che si sono arresi.”

Tom à la ferme, il genere e i sogni in grande

In che genere classificheresti il tuo quarto film?

“Un dramma psicologico, un thriller psicologico, non saprei definirlo perché mi manca questo tipo di linguaggio. Se mi chiedono che tipo di film è Titanic, per esempio, potrei dire un dramma storico, ma non lo so. Direi però che può essere un thriller psicologico, o almeno è quello che avrei voluto fare.”

Non è la prima volta che nomini Titanic. È vero che lo ami molto?

“Penso che sia una produzione meravigliosa. Gli effetti visivi, gli attori, i costumi, tutto fanno di questo film un capolavoro dell’intrattenimento moderno. Non tutti sono d’accordo però. Due anni fa il mio agente mi porta a una cena, a cui dice ‘parteciparanno solo pochi amici, una cosa informale’. E mi ritrovo a tavola con Paul Thomas Anderson, Ron Howard, Bennet Miller, Charlize Theron e altri. E Bennet chiede qual è per noi il film che ci ha spinti a fare questo lavoro, e c’erano persone che citavano film anni ’30, o di pittori, o di quando erano in luoghi tipo l’Africa. E io ho pensato ‘E ora questi che penseranno quando dirò Titanic?’.

Ovviamente non si tratta di un film che in un contesto intellettuale si va a cercare, ma la questione che era stata posta era non qual è il miglior film di tutti i tempi, ma qual è il film che ti ha fatto venire voglia di fare cinema. Qual è il tuo film preferito. A 8 anni ho visto Titanic, e questo film mi ha detto ‘vola, pensa sempre in grande’. Adesso non sono più insicuro nel parlare dei film che mi sono piaciuti, sono questi i film che mi hanno reso quello che sono: Mamma ho perso l’aereo, Jumanji, Titanic.”

Mommy, la regia come mezzo per darsi un lavoro da attore

Come reagiscono i tuoi genitori quando vedono i tuoi film?

“Non ne parliamo molto, ma sono orgogliosi. Mia madre è venuta con me a Cannes alla proiezione di E’ solo la fine del mondo. Ma non sono loro i personaggi dei film, non hanno paura di riconoscersi nei miei film. Soltanto per il primo, si capisce che è la mia vita.”

Qual è il momento in cui hai deciso di fare il regista?

“Ho deciso di fare il regista per darmi una possibilità come attore. Forse quando ho visto Titanic in me è rimasto qualcosa, ma non è che sono uscito dal cinema e ho detto ‘Mamma farò il regista’. Le ho detto ‘Mamma voglio scrivere una lettera a Leo DiCaprio’. Ma innanzitutto volevo risolvere il mio problema di attore disoccupato. I miei amici lavoravano, qualcuno faceva film, e io me ne stavo a casa, senza lavoro e senza soldi. Sarei morto, ma dovevo fare qualcosa perché avevo detto a tutti che avrei trovato la mia strada. La prima ragione è stata quindi quella di recitare, ma già nei primi giorni di riprese ho capito che non si trattava più solo di quello ma anche del piacere di raccontare le storie.”

È solo la fine del mondo, l’elogio del dolore

È solo la fine del mondoParlando dei film che hai amato, hai detto che uno dei titoli che maggiormente ti hanno colpito di recente è un film italiano. Vorrei che lo rivelassi e spiegassi perché ti ha colpito?

“Due settimane fa ho visto Call me by your name, di Luca Guadagnino. È un film così tenero e saggio, che cambia completamente il modo di guardare i film ma anche di guardare l’amore. Non penso che siamo molti i film che hanno questo potere. Non solo. Il film insegna molto anche sul dolore. Cerchiamo spesso dei film che ci facciano ridere, che siano di sollievo, a volte si dice ‘Ah, quel film era così deprimente!’. Ma quando qualcuno ha sperimentato davvero l’esperienza del rifiuto d’amore o di essere follemente innamorato di qualcuno e di soffrirne, allora si capisce anche qual è la bellezza del dolore, e questo film lo permette.

Non si trova spesso la celebrazione della bellezza del dolore, perché è importante, è il dolore che ti permette di creare, è da questo che sono nati molti miei film, perché soffrivo per qualcuno di cui ero innamorato, o quando avevo il cuore spezzato. Vedendo questo film mi sono sentito profondamente compreso. Questo regista, come me, sa che il dolore apre tante porte.”

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