In Love Hurts – Colpi d’amore, in uscita nelle sale italiane l’8 maggio, Ke Huy Quan torna sul grande schermo nel suo primo ruolo live-action dopo l’Oscar vinto per Everything Everywhere All at Once. Ed è evidente che il film cerca di replicare quella formula vincente: combattimenti coreografati in ambienti quotidiani, una narrazione che mescola filosofia spicciola e violenza slapstick, e un protagonista che nasconde una vita segreta sotto un’apparenza ordinaria.
Questa volta, però, il risultato è meno sorprendente e più caotico. Marvin Gable, interpretato da Quan, è un agente immobiliare solare e goffo, ma con un passato da sicario alle dipendenze del fratello Knuckles (Daniel Wu), boss del crimine. Quando Rose (Ariana DeBose), ex fiamma di Marvin e traditrice del clan mafioso, ricompare con un piano di vendetta e riconciliazione, l’equilibrio del protagonista viene stravolto. La storia si sviluppa tra colpi di scena, flashback, voiceover intermittenti e parecchie botte. Peccato che, nonostante l’intrigante premessa, la pellicola cada spesso vittima delle sue stesse ambizioni.
Colpi d’amore, un San Valentino al sangue: tra risate, arti marziali e romanticismo mancato
A livello visivo, il regista esordiente Jonathan Eusebio (storico stunt coordinator di John Wick e The Bourne Ultimatum) sa chiaramente come costruire una scena d’azione. I combattimenti, spesso girati in location anonime come uffici, villette a schiera e locali vuoti, hanno momenti di brillantezza – ma vengono soffocati da un montaggio nervoso e una regia che sembra temere la violenza che mette in scena. Eppure, quando il film osa con il gore, lo fa senza mezze misure: coltelli nelle mani, penne negli occhi, denti strappati da nastro adesivo. Tutto molto sopra le righe, quasi a voler scioccare più che intrattenere. Il problema è che questi momenti risultano tanto eccessivi quanto privi di impatto emotivo, riducendo l’effetto a semplice shock visivo. Anche la struttura narrativa contribuisce alla confusione: la voce narrante di Marvin – che dovrebbe aiutare a chiarire temi e snodi – appare come una pezza posticcia per nascondere una sceneggiatura disordinata. In un momento, la narrazione passa inspiegabilmente a Rose, senza alcuna coerenza. Si ha l’impressione che il film non sappia mai davvero che tono adottare.
Il ritorno di Ke Huy Quan non basta a salvare una love story senza fuoco
Quan si impegna con tutto il suo carisma a costruire un Marvin credibile: un uomo in cerca di normalità, che cerca rifugio in un’esistenza apparentemente tranquilla fatta di biscotti rosa, gnomi da giardino e raccolta differenziata. Ma dietro i maglioni kitsch e l’aria da bravo ragazzo si nasconde un personaggio bloccato, poco credibile nel suo desiderio di mantenere una vita così piatta e priva di significato. Quando Rose torna a cercarlo, evocando il passato e proponendo un nuovo inizio, la scintilla tra i due dovrebbe essere il motore emotivo del film. E invece, il romanticismo resta sempre e solo suggerito, mai vissuto. DeBose, pur avendo dimostrato talento altrove (West Side Story su tutti), qui appare spenta, quasi svogliata. Il suo personaggio, descritto come una femme fatale tormentata, risulta invece abbozzato, privo di fascino o pericolo reale.
Nemmeno gli altri personaggi riescono a dare spessore alla narrazione: Lio Tipton, nei panni della collega Ashley, riesce almeno a strappare qualche sorriso grazie alla sua cotta per un assassino poeta (Mustafa Shakir), che a sua volta viene ridotto a una gag ripetitiva. Camei curiosi – come Sean Astin, collega di Quan ne I Goonies, in un ruolo secondario da mentore con cappello da cowboy – non bastano a risollevare il ritmo del film. Marshawn Lynch e Otis André Eriksen, nei panni di due killer sopra le righe, vengono sacrificati da un montaggio che non lascia respiro all’azione. La regia di Eusebio, abituato alla costruzione fisica della scena ma non alla gestione del tono o della profondità dei personaggi, mostra i suoi limiti: l’alternanza tra ironia, romanticismo e violenza non trova mai un equilibrio vero. Il risultato è un ibrido confuso che tenta di essere Rumble in the Bronx, una commedia romantica e un omaggio all’exploitation anni ’70 – ma non riesce in nessuno di questi intenti.
Un film schizofrenico, tra nostalgia, citazionismo e sprechi di talento
A livello stilistico, Colpi d’amore cerca di pescare a piene mani dal cinema di Edgar Wright, con gag visive à la Hot Fuzz e un’estetica che vorrebbe essere pop e ipercinetica, ma si riduce a un cosplay estetico privo di anima. Anche la colonna sonora, tra chitarre wah-wah e archi drammatici, sembra un tentativo forzato di evocare un mondo pulp che però non viene mai pienamente abbracciato. I combattimenti, potenzialmente il cuore pulsante del film, sono castrati da una fotografia piatta e da tagli di montaggio troppo serrati. Eusebio dimostra di conoscere gli ingredienti dell’action, ma ne dimentica completamente le dosi: manca la costruzione della tensione, l’uso efficace dello spazio, la coreografia che “respira”. Tutto viene sacrificato in nome di una velocità che non emoziona.
Alla fine, Colpi d’amore è un film che vuole dire troppo e non dice nulla. Cerca di essere una critica alla routine borghese, una storia d’amore impossibile, un viaggio di redenzione, una commedia nera, un film d’azione sopra le righe. Ma ogni volta che tenta una strada, si perde. Persino la sua durata contenuta (83 minuti) sembra un espediente per non affrontare davvero le domande che pone. Vale la pena proteggere una vita di mediocrità solo perché è “normale”? Il film dice di sì, ma non riesce a convincerci. E quando anche l’ironia fallisce, resta solo una scia di sangue e il rimpianto per ciò che Love Hurts poteva essere: una bizzarra ma riuscita lettera d’amore al cinema di genere. Invece è solo un biglietto di San Valentino scarabocchiato in fretta.
Colpi d'Amore
Sommario
Vale la pena proteggere una vita di mediocrità solo perché è “normale”? Il film dice di sì, ma non riesce a convincerci.