Saltburn: recensione del film di Emerald Fennell – #RoFF18

La regista di Una donna promettente, torna dirigendo Jacob Elordi e Barry Keoghan.

Saltburn recensione film

Saltburn è un sogno, una parentesi dorata nella vita grigia e triste di Oliver. O almeno è questo quello che ci immaginiamo, vedendo questo timido ma brillante studente gravitare intorno alla luminosa stella di Felix, il ragazzo fortunato e facoltoso che per misteriose ragioni prende Oliver sotto la sua protezione e lo porta con sé nella tenuta di famiglia.

 

Per la sua seconda regia, Emerald Fennell sceglie un racconto di potere e ambizione, che nel mettere a nudo i desideri e le debolezze delle persone, ai livelli più viscerali e oscuri concepibili dall’animo umano, ha diversi punti di contatto con quel Promising Young Woman (Una donna promettente, da noi) che tre anni fa la catapultò al centro dell’attenzione di Hollywood, non più soltanto come raffinata interprete (è stata Camilla Parker Bowles di The Crown) ma anche come sceneggiatrice e filmmaker con le idee molto chiare.

Saltburn, la trama

Con Saltburn, Fennell si addentra nel mondo universitario dei campus per ricchi e dotati giovani. Oliver Quick (Barry Keoghan) è un ragazzo di estrazione sociale umile, che frequenta l’Università di Oxford soltanto grazie alla sua borsa di studio per meriti accademici, fatica a trovare il suo posto all’interno di un campus frequentato per lo più da ereditieri e giovani privilegiati. Oliver è naturalmente affascinato dal mondo aristocratico che lo circonda a scuola e comincia a sviluppare un’amicizia molto intima con Felix Catton (Jacob Elordi), rampollo di una famiglia facoltosa e suo compagno di corso. Questo rapporto diventa così stretto che il ricco giovane decide di invitare Oliver a casa sua per l’estate, nella tenuta di Saltburn. Un invito troppo lusinghiero per essere rifiutato. Ma, una volta giunto nella tenuta, il ragazzo si ritrova circondato da saloni sontuosi, giardini con labirinti, nobili ed eccentrici familiari del suo amico, un ambiente che costringerà Oliver a farsi delle domande su chi è veramente e cosa vuole dalla vita.

Un parallelo tra Saltburn e Una donna promettente

È impossibile parlare di Saltburn senza farne una lettura comparativa rispetto a Una donna promettente. Nella sua prima regia, Emerald Fennell aveva deciso di colpire forte il suo spettatore, raccontando una storia cruda, nascosta sotto strati di musica pop e colori pastello, una storia amara che però aveva una forte spinta etica, un’aspirazione alta che rendeva in qualche modo il racconto necessario, urgente. In Saltburn, la regista e sceneggiatrice Premio Oscar sceglie ancora la strada della violenza, non solo fisica, ma anche emotiva e visiva, con grande e lucida cattiveria, senza risparmiare momenti dal tocco gore, che mancano però di quella tensione etica che aveva fatto di Una donna promettente un grande film. Saltburn chiede dunque allo spettatore di assistere al racconto di una discesa agli inferi, la genesi di un supervillain, senza però ricevere in cambio uno spunto per una riflessione costruttiva.

Saltburn Jacob Elordi

La luce (o la sua assenza) racconta

Anche l’aspetto estetico del film risente di questa scelta narrativa. Le inquadrature sono sempre costruite in maniera ricercata, a caccia di una simmetria perfetta o di una asimmetria disturbante, in cui la luce, o l’assenza di essa in molte scene di interni, racconta più di quanto non si veda a schermo. I volti spesso poco illuminati, le stanze opprimenti, la luce che filtra attraverso le finestre, la polvere che danza, ogni momento è buono per ricordare allo spettatore che la storia che sta guardando ha una componente oscura, malvagia, preponderante, e che bisogna aspettarsi solo il peggio dalla prossima sequenza, dalla scena successiva. Questa ricerca estetica raffinatissima è accompagnata da una scelta musicale estremamente pop, e da un punto di vista della macchina da presa che, pur rimanendo prevalentemente classico, non perde l’occasione, quando possibile, di posizionarsi in punti inconsueti, per sottolineare un momento, un incontro, uno sguardo, per dettare ancora meglio il ritmo del racconto.

Due protagonisti mozzafiato

Ma tutti questi accorgimenti tecnici e registici sarebbero stati vani se davanti all’obbiettivo non ci fossero stati proprio quei due attori lì. Jacob Elordi si conferma senza dubbio una star in ascesa; dopo averlo apprezzato in Euphoria e in attesa di vederlo nei panni di Elvis in Priscilla di Sofia Coppola, l’idolo delle adolescenti si prende, letteralmente, tutto lo spazio del grande schermo, con la sua presenza svettante e energica, naturalmente affascinante. Gli fa da contraltare un Barry Keoghan straordinario; balzato all’attenzione del pubblico nella scorsa stagione grazie a Gli Spiriti dell’Isola, film per il quale ha collezionato diversi riconoscimenti e una nomination agli Oscar, l’interprete irlandese fa sfoggio di un carisma rimarchevole. Molto più basso e tozzo rispetto a Felix/Elordi, il suo Oliver è uno scrigno di sorprese, di toni, di inflessioni, un pozzo senza fondo di pensieri insondabili che a poco a poco vengono portati in superficie, fino alla scena finale in cui Keoghan splende in tutta la sua bravura.

Consapevole del linguaggio e del mezzo, Emerald Fennell dimostra di avere un’idea di racconto precisa e coesa e di essere una voce importante nel panorama cinematografico contemporaneo. Dopo un esordio folgorante, con Saltburn dimostra che il cinema, anche quello di grande impatto, non è per forza sempre “necessario” o “edificante”, può essere anche gratuitamente cattivo e fine a se stesso. Resta il dubbio, in questo senso, che questa forma di racconto sia solo un’esercizio di stile, un divertissement sadico, una richiesta di disimpegno da parte di filmmaker e pubblico. Tuttavia l’arte non deve essere per forza etica o educativa, qualche volta può anche soltanto scuotere e turbare lo spettatore, come uno splendido pacco regalo pieno di orrori.

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