Boyhood: l’impercettibile ma inesorabile svolgersi della vita nel film di Richard Linklater

Dieci anni fa usciva al cinema Boyood, il film con Richard Linklater immortala la vita sullo schermo cogliendo l'impercettibilità della crescità.

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Sono trascorsi esattamente dieci anni dal 23 ottobre 2014, data in cui uscì nelle sale italiane Boyhood (qui la nostra recensione), il capolavoro di Richard Linklater. Dieci anni in cui il tempo ha per noi continuato a scorrere inesorabile, mentre per Mason (Ellar Coltrane) – protagonista del film – si è fermato per la prima volta dopo dodici anni di riprese. Un tempo in la vita ha ovviamente continuato a scorrere, portandoci in fasi molto diverse da quelle abitate al momento della visione del film di Linklater. Una volta usciti dalla sala, si è come sempre tornati alla “vita vera”.

Ci si è svegliati per andare a scuola o al lavoro, sono stati compiuti viaggi, si è provato amore e tristezza, forse qualcuno è uscito dalla nostra quotidianità mentre qualcun altro vi è entrato. Insomma, si è continuato a vivere, con tutte le tappe e le imprevedibili variabili che questo comporta. Sarà poi sicuramente capitato, nel riguardarsi indietro, di accorgersi di alcuni piccoli segnali – ai quali nel momento in cui accadevano non si è però data importanza – di quel che tempo che trascorreva, di quei cambiamenti che si attuavano senza chiedere il permesso.

È normale non accorgersene e lo sa bene anche Linklater, che con Boyhood ha non solo cercato di cogliere il processo di crescita di un bambino dai 6 ai 18 anni, ma anche di cogliere proprio quegli impercettibili momenti che la caratterizzano e che, in un modo o nell’altro, influenzano il percorso in modi e tempi difficilmente prevedibili. Che l’operazione condotta dal regista texano sia pressocché un unicum nella storia del cinema è ormai assodato, ma ciò che sorprende ancora oggi è la precisione con cui egli sia riuscito a farsi acuto esploratore di questi attimi che, proprio per la loro fugacità, finiscono con l’essere dimenticati, perduti negli spazi senza confini del tempo.

Boyhood Ellar Coltrane
Ellar Coltrane in Boyhood © 2014 – IFC Films

L’inesorabile fluire del tempo

Cercare di catturare il tempo, di fermarlo, o quantomeno di analizzarne il funzionamento è sempre stato il grande obiettivo di Linklater e del suo cinema. Nel cercare di portare avanti quest’obiettivo, i suoi film sfuggono pertanto alle logiche e alle regole del racconto per fare piuttosto del tempo il loro principale protagonista. Ciò avviene in esperimenti estremi come Slackers, Waking Life o il recente Apollo 10½ – A Space Age Childhood, ma anche in titoli apparentemente più coesi come La vita è un sogno o Prima dell’alba (primo capitolo di una trilogia interamente dedicata al catturare il passaggio del tempo).

Con Boyhood, però, Linklater porta all’estremo questa sua volontà, facendo confluire un periodo di dodici anni all’interno di un unico film. Un’operazione complicatissima sotto più punti di vista, a partire dalla necessità di garantire al tutto una certa coesione e coerenza stilistica. Proprio in virtù di ciò non sono presenti all’interno del film delle chiare indicazioni del tempo che trascorre. Non si ritrovano mai didascalie del tipo “un anno dopo”, poiché non è così che funziona nella vita. Il tempo trascorre e basta, in un flusso continuo e inarrestabile senza indicazioni che permettano di orientarsi.

Il risultato è straordinario: vediamo gli attori invecchiare davanti ai nostri occhi, crescere anno dopo anno. Boyhood è la massima espressione di quello che il cinema ha sempre cercato di fare: immortalare la vita sullo schermo, renderla eterna, condensarla tutta quanta all’interno di un’opera che rimane immutata nel tempo. Ma se già solo l’aver raccolto questo periodo temporale in un film lo rende di grande valore, a farne un autentico capolavoro è ciò che Linklater ha scelto di raccontare (o non raccontare) e come.

Ellar Coltrane in Boyhood © 2014 - IFC Films
Ellar Coltrane in Boyhood © 2014 – IFC Films

Boyhood è un atto d’amore alle “parti noiose” della vita

Come spesso avviene nei suoi film, Linklater fa delle “parti noiose” che solitamente vengono omesse i momenti a partire dai quali costruire il racconto. È così che in Boyhood non ritroviamo alcun colpo di scena, nessuna azione “da film”, niente di tutto ciò che potrebbe allontanare il racconto da ciò che lo svolgersi della vita è: un susseguirsi di momenti ed episodi che potrebbero non avere nulla di speciale. Eppure, ciò non priva il racconto di un ampio ventaglio di emozioni, che anzi si ritrovano proprio lì dove non ce lo si aspetterebbe.

Ci sono due momenti in particolare, verso l’inizio del film, estremamente brevi, privi di dialogo ma perfettamente eloquenti nella loro forza. Il primo lo si ha quando Mason, sua madre e sua sorella sono prossimi al trasloco. Bisogna lasciare la casa in perfette condizioni e ciò significa anche coprire un po’ di vernice la porzione del muro dove con un trattino era stata segnata la variazione di altezza di Mason e sua sorella. Un gesto che il protagonista compie non senza essersi prima soffermato ad osservare quel dettaglio, ciò che rappresenta, quasi con la consapevolezza che una volta coperto con la vernice avrebbe iniziato a dimenticarlo anche lui.

Il secondo momento, capace di far salire il cuore in gola, si ha poco dopo, quando ormai in auto e partiti verso la loro nuova vita, Mason nota dal finestrino il suo compagno di giochi corrergli dietro in bici per dargli un ultimo saluto. I due non riescono a parlarsi, forse neanche a vedersi distintamente, ma il messaggio è chiaro: una parte dell’infanzia di Mason è finita per sempre. Non vedrà mai più quell’amico, che crescerà e avrà una vita tutta sua. Come non pensare, davanti ad un fugace momento come questo, ai tanti amici che nel corso della vita hanno preso percorsi diversi dai nostri, a quando si è usciti a giocare insieme senza sapere che sarebbe stata l’ultima volta?

Ellar Coltrane e Jessi Mechler in Boyhood
Ellar Coltrane e Jessi Mechler in Boyhood © 2014 – IFC Films

Non siamo noi a cogliere l’attimo, è l’attimo che coglie noi

Ecco, Boyhood è costellato di momenti di questo tipo, che si ritrovano anche nel rapporto con la rigida e stressata mandre (Patricia Arquette) e con lo spensierato e premuroso padre (Ethan Hawke), ma anche nel primo impatto con la mortalità, nell’esperienza scolastica, nei primi amori e nel cuore spezzato che possono lasciare. La naturalezza con cui Linklater racconta tutto ciò, senza aver mai saputo sin dall’inizio come sarebbe evoluto il racconto, ha del miracoloso e ribadisce quella che è la massima del film: “non siamo noi a cogliere l’attimo, ma è l’attimo a cogliere noi”.

Sembra infatti di assistere ad un vero e proprio documentario, quasi un The Truman Show sul naturale processo di crescità di questo bambino. E documentario Boyhood lo è davvero, per certi aspetti, perché appunto coglie minuziosamente la vita nel suo accadere, restituendocela senza filtri. Era l’unico modo per rendere le particolari vicende di Mason un qualcosa di universale, che con i giusti arrangiamenti può parlare al cuore di tutti. E ciò che ci propone è questa antitesi rispetto al carpe diem di Whitman e di L’attimo fuggente, che sposta l’attenzione su come sia la vita a scorrere in noi, lasciando come traccia del suo passaggio le trasformazioni del Tempo.

Gianmaria Cataldo
Gianmaria Cataldo
Laureato con lode in Storia e Critica del Cinema alla Sapienza e iscritto all’Ordine dei Giornalisti del Lazio come giornalista pubblicista. Dal 2018 collabora con Cinefilos.it, assumendo nel 2023 il ruolo di Caporedattore. È autore di saggi critici sul cinema pubblicati dalla casa editrice Bakemono Lab.
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