Passano gli anni, le generazioni, i costumi, le tradizioni. Cambia il modo di pensare e approcciarsi alla vita, cambiano i ritmi, cambiano i valori. Cambia tutto, eppure, in fondo in fondo non cambia proprio nulla. Riguardare oggi Breakfast Club, il capolavoro di John Hughes del 1985 ne è la più limpida delle dimostrazioni. Sono trascorsi esattamente 40 anni dall’uscita in sala di questo gioiello cinematografico, istantanea di un contesto che si ripresenta ancora oggi a noi sotto forme e nomi nuovi, ma con le stesse problematiche. Un film che non solo è oggi giustamente ricordato come il padre di tutti i teen movie – un genere che ha acquisito maggiore credibilità proprio in quegli anni e in particolare grazie alle opere di Hughes – ma offre anche uno dei più lucidi e sinceri ritratti di una generazione che si siano mai visti al cinema.
Ci riesce portando sullo schermo una serie di temi e dinamiche fino a quel momento rimasti inespressi, che serpeggiavano nella società statunitense (ma non solo) di quell’epoca senza però venire mai realmente affrontati. Temi e dinamiche che, a distanza di quarant’anni, ritroviamo ancora oggi più diffusi e pericolosi che mai, specialmente nella generazione dei giovani, a cui il film continua a parlare con una forza inaudita, sia come campanello d’allarme che come messaggio di speranza. Un film che ha dunque, tra i tanti suoi meriti, anche quello duplice di aver a suo tempo tirato fuori la polvere da sotto il tappeto, ma anche di aver anticipato una serie di derive poi amaramente accentuatesi nel tempo.
Un cervello, un atleta, un caso disperato, una principessa e un criminale
Che Breakfast Club volesse essere un’opera di rottura ce lo segnala già lo schermo nero ad inizio film che va in frantumi, un espediente che coglie alla sprovvista ma imposta perfettamente il tono del film. Da lì veniamo portati dinanzi alla Shermer High School, dove i cinque protagonisti si trovano a dover spendere un sabato in punizione. La sequenza d’apertura è uno dei più felici esempi di presentazione del contesto alla base di una storia e dei personaggi che lo abitano. Bastano esattamente tre minuti a Hughes per introdurre senza troppi giri di parole i cinque personaggi, perfettamente descritti attraverso gli abiti che indossano e il rapporto (o non rapporto) con i genitori che li accompagnano alla scuola.
Personaggi presentati come inscatolati in stereotipi quali “un cervello, un atleta, un caso disperato, una principessa e un criminale”. Un ricorso agli stereotipi che ha fatto scuola, che serve qui per proporci inizialmente quello che è il punto di vista e l’opinione che la generazione adulta ha di questi giovani protagonisti. Per estensione, quello che ogni adulto ha spesso nei confronti dei più giovani. Ma nel corso dei 97 minuti di film avviene un abilissimo e struggente spostamento di prospettiva. Quegli stereotipi vengono minuziosamente analizzati e smantellati per mostrarci ciò che c’è sotto, portandoci quindi dalla parte dei ragazzi per scoprirli nelle fragilità, paure e desideri che li animano.
A poco a poco, loro stessi smettono di comportarsi e di aderire a quelle etichette che gli sono state affibbiate, svelando ciò che tutti potrebbero sapere se solo si decidesse di prendersi del tempo e ascoltarli. Ed è proprio questo che allora come oggi Breakfast Club denuncia: la completa mancanza di ascolto e di comprensione tra generazioni. Non ricevendo queste attenzioni dai genitori, le ritrovano tra di loro, scoprendosi molto più simili di quanto potessero immaginare e comprendendo così di essere il prodotto di ciò che è stato loro inculcato. Una rivelazione che germoglia nel corso del film, ma i cui semi sono anch’essi presenti già in quella sequenza iniziale di tre minuti.
Con Breakfast Club John Hughes parla ancora oggi ai più giovani
Eccolo allora quello squarcio nella finzione che permette alla vita di entrare, portando Breakfast Club a parlare di peso delle aspettative, di incomunicabilità, di depressione, di suicidio, di abbandono giovanile e, infine, della paura di crescere. La commedia diventa a poco a poco un dramma, nel quale Hughes fa confluire ciò che stava accadendo ai giovani di quegli anni, “colpevoli” di essere arrivati dopo una generazione a cui tutto era concesso, ottenendo però di quel sogno solo le sue degenerazioni più mostruose, dal consumismo (Claire) alla lotta per la supremazia (fisica per Andrew, dell’intelletto per Brian), fino all’inadeguatezza genitoriale (John, Allison).
Non è dunque un caso che quell’unico ambiente in cui tutto il film si svolge viene proposto a più riprese come una vera e propria prigione, con porte e cancelli che sbarrano in molteplici occasioni la strada ai protagonisti. Hughes ci racconta così i loro tentativi di fuggire da quelle gabbie metaforiche in cui sono stati per troppo tempo rinchiusi. Una prigione da cui non si può però scappare finché non si lavora su sé stessi, fermandosi nel bel mezzo della frenesia generale per prendersi del tempo e scoprirsi nel profondo. La scenografia si fa dunque a sua volta personaggio e trasmette perfettamente quell’oppressione che ancora oggi si avverte guardando il film.
Sono infatti trascorsi quarant’anni, ma tutte le problematiche poc’anzi citate sono ancora presenti nella nostra società e lo sono anzi con una forza ancor più letale, che troppo spesso porta a sentire casi di cronaca relativi a giovani che hanno scelto di non voler proseguire oltre in questo perverso gioco che la vita è diventato. Breakfast Club parla a loro, parla di loro, senza minimamente edulcorare la difficoltà di reggere un peso simile. Ma proprio quando sarebbe troppo facile cedere al cinismo e alla disillusione, ecco che il film offre ai suoi protagonisti e ai suoi giovani spettatori la rivincita tanto attesa.
Breakfast Club è un manifesto generazionale senza tempo
Una rivincita che si presenta come una rivelazione apparentemente semplice e scontata, ma a cui giungere è tutt’altro che facile. Nel momento in cui i cinque protagonisti si spogliano delle loro etichette e comprendono di vivere le medesime difficoltà, diventa chiaro come l’essere considerati per quel che non si è tocca a tutti e così facendo questo perverso gioco svela la sua infondatezza. Non c’è nessun cervello, nessun atleta, nessun caso disperato, nessuna principessa e nessun criminale. Ci sono solo cinque ragazzi che comprendono di non essere come vengono descritti e che hanno la possibilità di ribellarsi a quei pregiudizi.
Ed è insieme che trovano la forza di reagire, giungendo ad uno dei finali più commoventi di sempre per un film di questo genere. La giornata di punizione finisce, è ora di tornare a casa con rinnovate consapevolezze. Non ci sono dialoghi con i genitori, non ce ne è bisogno, non sono più loro a stabilire come si dovrebbe essere. Non sappiamo se i cinque saranno amici o meno da quel momento in poi, non è importante saperlo. Ciò che importa è il loro essersi trovati, aver capito di non essere soli in questa battaglia. Vediamo allora John Bender attraversare il campo antistante la scuola e alzare infine il pugno in segno di vittoria. John Hughes blocca così la sua immagine, lo fissa trionfante nella storia, per sempre. Davanti a lui un intero pomeriggio da vivere. Anzi, un’intera vita.
Hughes regala a lui, agli altri protagonisti e a tutti i giovani spettatori di Breakfast Club una speranza che non può essere spenta, l’insegnamento a non lasciare che siano gli altri a definirci. Nel caotico e alienante mondo di oggi, è una lezione più preziosa che mai. Con questa consapevolezza, si rimane dunque estasiati davanti a quest’immagine finale, mentre il brano Don’t You Forget About Me (un titolo che la dice lunga) dei Simple Mind ci accompagna verso i titoli di coda. John Hughes non si è mai dimenticato dei giovani, li ha ascoltati e raccontati come pochi altri hanno saputo fare. A quarant’anni di distanza, possiamo dire che neanche i giovani si sono dimenticati di lui e del suo Breakfast Club.