Cose Nostre – Malavita (qui la recensione) del 2013 rappresenta un curioso capitolo nella lunga storia di Robert De Niro con il cinema crime e gangster. Dopo aver incarnato figure iconiche e drammatiche in film come Il padrino – Parte II, Quei bravi ragazzi, Casinò, De Niro torna al mondo mafioso scegliendo però un tono decisamente diverso. Qui interpreta un boss sotto copertura protetto dall’FBI, e la sua performance gioca sulla consapevolezza del proprio passato cinematografico, trasformando cliché e archetipi in materia comica e autoironica, senza rinunciare però ai tratti oscuri dei personaggi che lo hanno reso celebre.
Il film di Luc Besson – tratto dal romanzo Malavita di Tonino Benacquista – si distingue infatti per la sua ibridazione di generi: una black comedy che mescola dinamiche da gangster movie, situazioni tipiche dei film sulla protezione testimoni e improvvise esplosioni di violenza. La famiglia Manzoni, costretta a vivere in Normandia sotto falsa identità, affronta conflitti domestici, tentativi di integrazione e inevitabili ricadute nelle antiche abitudini criminali. Questo equilibrio tra leggerezza e brutalità crea un’atmosfera unica, capace di giocare con le aspettative del pubblico e di ribaltare le convenzioni del genere.
Tematicamente, Cose nostre – Malavita riflette sul peso del passato, sulla difficoltà di cambiare davvero e sull’impossibilità di sfuggire alla violenza quando essa è radicata nell’identità stessa dei protagonisti. La commedia serve a smussare gli angoli più cupi, ma non elimina mai del tutto la sensazione di ineluttabilità. È un film che parla di famiglia, redenzione mancata e identità spezzate, mostrando come anche lontano dall’America mafiosa il richiamo del crimine resti irresistibile. Nel resto dell’articolo si fornirà una spiegazione dettagliata del finale.
La trama di Cose nostre – Malavita
Protagonista del film è la famiglia Manzoni, la quale da tempo è nel programma di protezione del FBI. Ciò è dovuto alla testimonianza che l’ex mafioso e capofamiglia Giovanni ha rilasciato contro il pericoloso criminale Don Lucchese. Insieme alla moglie Maggie e ai figli Belle e Warren, Giovanni si trasferisce sotto copertura nell’anonimo paesino di Chalong-sur-Avre, in Normandia. L’agente Stansfield è incaricato di proteggerli, ma comprende ben presto che il suo è un compito più complesso del previsto. La famiglia, infatti, sembra non riuscire ad abbandonare le sue abitudini mafiose, non mancando di attirare l’attenzione dei concittadini. Compresa la pericolosità delle loro azioni, i quattro iniziano allora un difficile processo di integrazione.
Il rapporto tra di loro, in realtà, inizia lentamente a cedere. Complice dei nascenti conflitti tra i membri della famiglia sono i numerosi spostamenti a cui da sempre si devono sottoporre per via delle implicazioni mafiose di Giovanni. I Manzoni, però, si troveranno a dover riunire le loro forze nel momento in cui Don Lucchese scoprirà il luogo in cui si nascondono. Con i suoi sicari in viaggio per sterminare i quattro famigliari, questi dovranno risolvere la crisi che li caratterizza per poter sopravvivere. Ben presto, la tranquilla cittadina norvegese si trasforma in un sanguinoso campo di battaglia, come mai prima di quel momento.
La spiegazione del finale del film
Nel terzo atto di Cose nostre – Malavita la tensione accumulata esplode in una serie di confronti che riconsegnano la famiglia Manzoni al suo destino criminale. Dopo mesi di tentativi d’integrazione in Normandia e piccoli compromessi comici, gli spillover del passato — vecchi nemici, equivoci investigativi e l’inevitabile attrito tra il desiderio di normalità e l’istinto mafioso — portano i protagonisti a rivelarsi. La scena culminante alterna momenti di chiassosa violenza a sequenze farsesche: sparatorie improvvise, inseguimenti in stile gangster e la resa dei conti con elementi della malavita europea che costringono i Manzoni a reagire secondo la loro educazione criminale. Luc Besson monta questi episodi con ritmo serrato, passando dalla gag al colpo di scena, fino a un finale che mescola rappacificazione familiare e un perenne senso d’ineluttabilità.
La chiusura del film non offre una redenzione completa: la famiglia sopravvive fisicamente ma resta segnata. Il finale privilegia un equilibrio ambivalente — i Manzoni ottengono una sorta di tregua, ritrovano un affetto domestico più genuino e, in qualche battuta, sembrano propensi a una vita meno violenta; allo stesso tempo, la macchina giudiziaria e la rete criminale non si dissolvono del tutto. L’ultima sequenza lascia intendere che la loro identità resta divisa: possono cambiare gesti e abitudini, ma gli schemi mentali e le relazioni di potere restano attivi. La commistione di toni lascia il pubblico nello stesso spazio morale ambiguo in cui vive la famiglia, tra simpatia e riprovazione.
Questo finale porta a compimento i grandi temi del film: l’impossibilità integrale di cancellare il passato e la fragile illusione del reinserimento sociale. De Niro e gli altri interpreti incarnano persone capaci di affetto e gesti quotidiani ma che, quando premuti, ripiegano su modelli di violenza appresi. La commedia non annulla la gravità morale delle azioni, piuttosto la rende più complessa, permettendo agli spettatori di provare empatia senza rinunciare al giudizio critico. Il film mostra come la famiglia — nucleo affettivo e insieme cellule di una cultura criminale — sia il luogo in cui si consumano le contraddizioni più forti.
Dal punto di vista stilistico e di genere, il finale ribadisce la cifra del film: un gangster-movie che si converte talvolta in black comedy, che sfrutta la presenza iconica di De Niro per giocare con il mito mafioso e con la sua decadenza. Besson usa la messa in scena per sottolineare il contrasto tra il folclore italo-americano e la provincia europea, trasformando il confronto finale in un set di immagini che oscillano tra il grottesco e il tragico. In questo senso il film non smette di interrogare il pubblico sul perché certe identità criminali risultino così difficili da spezzare.
In definitiva Cose nostre – Malavita lascia una sensazione ambivalente: divertimento e disagio convivono, come convivono nella famiglia Manzoni il calore domestico e la brutalità. Il finale non propone soluzioni facili, ma conferma l’idea centrale del film: cambiare è possibile a livello pratico, ma la trasformazione profonda richiede più che nuovi paesaggi o una falsa identità — richiede la rottura di legami, memorie e necessità che la criminalità ha saputo soddisfare. È un epilogo che intrattiene e fa riflettere, mettendo in scena la tragedia e la commedia insite nella vita di chi prova, con difficoltà, a scegliere una strada diversa.


