È dal 2007 che il videogame Uncharted fa la gioia di Naughty Dog e Sony PlayStation, ma ci sono voluti quattro capitoli principali e due spin-off (e forse il corto realizzato nel 2018 da un fan), per spingere Hollywood a sbloccare il progetto ideato da Avi Arad nel lontano 2008. Quello dell’adattamento cinematografico di una delle saghe videoludiche più popolari e amate degli ultimi anni, che finalmente arriva nei cinema, distribuito dalla Warner Bros. dal 17 febbraio 2022.
Merito sicuramente della presenza dei grandi nomi coinvolti, da Mark Wahlberg a Antonio Banderas. E della buona disposizione dei tanti fan del franchise, per non parlare degli appassionati del genere action adventure, mai passato di moda. Quando poi sono lo stesso regista Ruben Fleischer e il protagonista Tom Holland a citare – esplicitamente e ripetutamente – il vecchio Indiana Jones come riferimento principale della loro creatura, è inevitabile che le aspettative si alzino.
Uncharted – più Tin Tin che Indiana Jones
Un errore che fanno in molti, sempre più spesso, anche se stravolta sarebbe meglio parlare più del tentativo di attrarre un pubblico specifico, per quanto disomogeneo, come quello dei vecchi film di Steven Spielberg e dei seguaci del Nathan Drake digitale. Che stavolta potranno solo osservare – senza intervenire – il loro eroe nella caccia al “più grande tesoro mai trovato” da una parte all’altra del mondo, all’inseguimento di ogni tipo di indizi che potrebbero condurre lui e il partner Victor “Sully” Sullivan (Wahlberg) al fratello di Nathan, scomparso da tempo.
Una storia semplice, costruita a misura di box office e complicata più dagli ostacoli che continuano ad allontanare l’obiettivo e a rendere più dinamica e spettacolare la ricerca: questa la sintesi di quello che sarebbe ingiusto giudicare come altro da sé. Come qualcosa di diverso da un videogioco, portato avanti senza alcuna tensione da personaggi bidimensionali mossi da stimoli elementari, persino meno caratterizzati di quelli ai quali gli sviluppatori originari hanno negli anni costruito un background. Più simile – tanto per restare in ambito spielberghiano – a Tin Tin (ma quel film era altra cosa!) che al professorale Indy.
L’Avventura è solo all’inizio
Una infarinata di latino, una patina di antichità alla californiana, manufatti e libri da merchandising, un difficile retroterra familiare e un generico senso di solitudine con il quale empatizzare e il gioco è fatto. Per due ore di intrattenimento puro, magari un po’ superficiale, ma nel quale gli aficionados potranno dedicarsi alla ricerca di easter eggs e camei nelle varie scene (lo stesso regista ne ha anticipati un paio) o ad ammirare le splendide ambientazioni ricreate a partire dalle location spagnole di LLoret de Mar, Barcellona e Valencia.
Soprattutto nella seconda parte, quando la fotografia di Uncharted riesce ad approfittare di campi lunghi e spazi aperti, dopo la lunga ricerca sotterranea nella quale si finisce per patire maggiormente l’assenza di verosimiglianza tipica di vicende tanto dipendenti dalla più classica sospensione dell’incredulità. Che sarà bene mantenere tale nel pirotecnico finale, che dopo una prevedibile conclusione ci lascia con l’implicito annuncio di un immancabile sequel. Mai come in questo caso, in fondo e nonostante tutto (compreso il concetto stesso di caccia al tesoro), non è la meta l’importante, ma il viaggio. A patto di goderselo.