Hitman: Agent 47, recensione del film con Rupert Friend

Hitman: Agent 47

A esattamente otto anni dal primo onesto (e maldestro) tentativo di trasportare sul grande schermo una delle saghe videoludiche di maggior successo targate Squame Enix, riecco tornare in vita il bronzeo e implacabile Hitman: Agent 47, ultimo prodotto di una lunga e sperimentale stirpe di cloni da guerra generati mediante la combinazione dei DNA dei più spietati assassini del pianeta, pronto questa volta a dare man forte a Katia va Dess, intrepida femme fatale sulle tracce di uno sconvolgente segreto legato alle proprie origini, forse addirittura condivise con il suo nuovo letale compagno di sparatorie. I due saranno ben presto coinvolti in una serie adrenaliniche macchinazioni all’insegna di una spietata lotta contro il terribile Sindacato, l’agenzia segreta da cui l’Agente proviene e che non ha in serbo gradite sorprese per i nostri eroi.

Passa il tempo e cambiano le maestrale, così laddove vi fu il più che competente Xavier Gens (divenuto in seguito noto per l’eccellente The Divide) ora sulla scomoda sedia di regia impera, in maniera tutt’al più anonima e sindacale, il misconosciuto Aleksander Bach, impegnato a gestire un incerto e traballante adattamento di Hitman: Absolution, quinto capitolo della saga third-person-shooter che dimostra ancora una volta tutte le difficoltà insite nel trasporre un prodotto nato per uno specifico medium (il videogioco appunto) in una nuova veste che si è già rivelata poco duttile allo scopo, come dimostra di fatto l’enorme divario fra le due produzioni aventi lo stesso soggetto di partenza.

Hitman: Agent 47 mantiene ciò che promette: azione, azione e tanta azione a suon di calci, pungi, tafferugli e ottime sequenze in stile iperealistico in cui un tocco di estetica pulp e una fluidità coreografata in stile Matrix rendono il tutto formalmente impeccabile, così come una spruzzata di sostrato i-tech e fantascientifico che tenta di rende il tutto più “esotico”. Laddove il cinereo e statuario Timothy Olyphant vestiva in abito scuro e cravatta rossa, ora è il più scarno ed emaciato Rupert Friend, reduce dall’ottimo successo di Homeland, a rasarsi il capo e a portare l’ormai iconico codice a barre dietro alla nuca, dando vita ad un Agente freddo ed implacabile di tutto rispetto senza infamia né lode, venendo in soccorso al vuoto lasciato da Paul Walker, inizialmente destinato a impersonare il soldato della morte.

Neppure la presenza di ottime levature del calibro di Hanna Ware, Zachary Quinto e Thomas Kretschmann sfigurano in una pellicola che non riesce comunque a risolvere il grande problema di fondo presente sin dal capitolo precedente; un plot fiacco e stentato, forse anche eccessivamente complesso e caleidoscopico, mal sostenuto da un ritmo incostante e che rivela tutte le pecche di un’esperienza di visione forzata che neppure l’ottimo score di Marco Beltrami e la fotografia metallica e crepuscolare di Óttar Guðnason riescono a mascherare. Tanta, troppa azione ben congegnata che sazia al momento ma lascia un languore a lungo termine.

RASSEGNA PANORAMICA
Matteo Vergani
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Matteo Vergani
Laureato in Linguaggi dei Media all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, studiato regia a indirizzo horror e fantasy presso l'Accademia di Cinema e Televisione Griffith di Roma. Appassionato del cinema di genere e delle forme sperimentali, sviluppa un grande interesse per le pratiche di restauro audiovisivo, per il cinema muto e le correnti surrealiste, oltre che per la storia del cinema, della radio e della televisione.
hitman-agent-47-recensione-del-film-con-rupert-friendHitman Agent 47 mantiene ciò che promette: azione, azione e tanta azione a suon di calci, pungi, tafferugli e ottime sequenze in stile iperealistico