L’arte di vincere –
Moneyball, regia di Bennett Miller,
racconta di un sogno, di una scommessa fatta contro un sistema
solido e chiuso, di un uomo coraggioso che voleva più della
vittoria, voleva stravolgere il suo mondo, quello del baseball.
La trama di L’arte di vincere – Moneyball
L’arte di vincere –
Moneyball è la storia di Billy Beane
(Brad
Pitt) che nella stagione del 2002 è stato general
manager degli Oakland Athletic’s e si è trovato a dover rifondare
la squadra senza soldi e con tre dei giocatori migliori ceduti a
società più importanti. Contro tutto e tutti Billy si affida a
Peter Brand (Jonah
Hill), giovanotto goffo di movimenti ma agilissimo di
mente, laureato in economia a Yale, e con lui costruisce una
squadra servendosi di un metodo molto poco ortodosso.
Un metodo numerico, basato sulle
percentuali di successo e le caratteristiche singole del giocatore.
Beane e Brand andranno dunque contro la grande tradizione del
baseball, raccogliendo mezzi giocatori, alcuni troppo vecchi, altri
troppo giovani e irrequieti, altri ancora infortunati, e formeranno
una squadra che riuscirà a sfondare il muro delle vittorie
consecutive.
L’arte di Vincere –
Moneyball ci trasporta quindi nel mondo del baseball
scandagliandolo con attenzione, dilungandosi nei dettagli
squisitamente tecnici, una vera gioia per gli appassionati. Non c’è
da stupirsi quindi se il film ha ricevuto diverse candidature ai
prossimi Oscar in un Paese in cui il baseball è un rito sociale
piuttosto che uno sport. A gareggiare per la statuetta non è solo
il film stesso, ma i suoi protagonisti.
Prima di tutto Brad Pitt, nei panni di Billy, è
disgustosamente convincente mentre sgranocchia, divora, mangia e
ingurgita tutto quello che si trova a tiro sputacchiando qua e la
tabacco masticato a dovere. La sua interpretazione riesce a
mostrare con grande sobrietà e funzionalità le sfaccettature di un
personaggio che oscilla tra l’euforia e l’ottimismo fino a cadere
nei più bui antri dello scoramento.
Accanto a lui c’è il giovane
Jonah Hill, candidato come migliore non
protagonista, molto conosciuto in America per un certo genere di
commedia demenziale, e qui invece nei panni goffi, divertenti ma a
suo modo carismatici dell’esperto di economia che riesce, insieme a
Billy, a cambiare il volto del baseball. E chissà che questa bella
coppia non possa riservarci sorprese agli Oscar, visto che Miller
ha già portato fortuna al ritrovato Philip Seymour
Hoffman qui nei panni dell’allenatore Art Howe.
Il film si fregia anche di un’ottima
partitura musicale di Mychael Danna, già autore
della colonna sonora di Little Miss Sunshine. Quello che
però rende davvero prezioso questo film è la fotografia del premio
Oscar Wally Pfister (Inception),
che disegna l’inquietudine dei personaggi sui loro volti attraverso
ombre sapientemente distribuite. Bennett Miller ci
mette il resto, riservandoci una regia sobria e davvero brillante
in alcune scelte di inquadratura.
L’arte di vincere –
Moneyball lascia dunque la sensazione di un grande
trionfo, di quelli silenziosi e duraturi, è la storia di un
‘magnifico perdente’ che con il suo sogno ha cambiato per sempre le
regole. Gli appassionati di baseball lo adoreranno, gli
appassionati di cinema pure.
La famosa combriccola
di animaletti parlanti è pronta all’assalto degli schermi per
concederci minuti di esilarante follia e divertimento. I Muppet
ritornano con la loro allegria e sfrontatezza per regalarci e
riportarci in un mondo che sembrava ormai archiviato.
Arrivano aimé due buone notizie per
il remake del Corvo The
Crow. La prima riguarda la controversia legale
sui diritti del nuovo adattamento dell’opera. E’ di ieri la notizia
che la Relativity Media e The Weinstein Company hanno risolto il
problema e che sono pronte ora a produrre il film.
La seconda notizie è che questo ha
creato un indotto e le cose si stanno muovendo rapidamente, tanto
che la pellicola ha ora un nuovo regista, F. Javier
Gutierrez, e un nuovo sceneggiatore, Jesse
Wigutow. L’obiettivo è quello di andare sul set in
autunno. Ora non resta che aspettare notizie sul casting, vi
ricordiamo che il progetto è stato abbandonato da Bradley
Cooper.
Alexander Payne– ritorna
dopo ben sette anni dal suo fortunato ed ultimo lavoro
Sideways – In viaggio con Jack – con
Paradiso amaro, e lo fa ancora una volta facendo
incetta di nomination agli Oscar. Per certi versi in questo caso il
suo merito è minore rispetto alla precedente pellicola, che
sorprese molto per la brillantezza della sceneggiatura e per
l’ironica malinconia che sarebbero poi diventate lo stilema
prediletto del regista, autore anche di A proposito di
Schmidt.
The Descentans, titolo
originale del film da noi tradotto Paradiso amaro,
racconta la storia di Matt King (George
Clooney), un marito e padre da sempre indifferente e
distante dalla famiglia. Ma quando la moglie rimane vittima di un
incidente in barca nel mare di Waikiki è costretto a riavvicinarsi
alle due figlie, e quindi a riconsiderare il suo passato e valutare
un nuovo futuro. Mentre i loro rapporti si ricompatteranno, Matt è
anche alle prese con la difficile decisione legata alla vendita di
un terreno di famiglia, richiesto dalle élite delle Hawaii ma anche
da un gruppo di missionari.
Elaborare il lutto
Paradiso amaro
racconta dunque la dimensione tragica di un uomo difronte a degli
eventi drammatici con cui irrimediabilmente deve fare i conti e che
rappresenta un bivio non solo per la propria esistenza, ma anche
per la sua famiglia. Alexander Payne ancora una
volta dimostra di essere molto abile nel muoversi dentro questo
substrato di vissuto pieno di dolore e malinconia, abile nello
scrutare con il suo sguardo le difficoltà e le peripezie di una
condizione così, senza togliere il dubbio di quanto essa
rappresenti l’inevitabile conclusione di una strada sinuosa e
difficile da attraversare.
Quello di Payne è quindi un film su
un percorso da affrontare, è il tentativo di rimettere insieme un
rapporto e una famiglia che fino ad ora era vissuta in totale
agonia, è soprattutto l’intenzione di King (George
Clooney) di voler rimediare al passato, cercando di
vivere il presente e modificare il futuro, cercare di riconciliare
un puzzle che è per sua stessa natura in frantumi.
Paradiso amaro si muove su un equilibrio
precario
Nonostante le buone
intenzioni Paradiso amaro, pur assicurandosi
l’ampia sufficienza, ha alcuni lati negativi che in qualche maniera
ne offuscano la brillantezza. Se da un lato colpisce il lato
tragicomico che regala forse i momenti migliori della pellicola,
d’altro canto sorprende nell’accezione negativa, la forzata ricerca
di una drammaticità eccessiva, che rileva l’intenzione di voler
commuovere a tutti i costi. In questo è lo stesso Payne a peccare,
nella mancata ricerca di un equilibrio perfetto fra le due nature
che compongono il nucleo centrale della narrazione, che avrebbe
reso il film più sincero e più dolce.
Detto ciò, rimangono i bei momenti
del film e un cast che sorprende soprattutto nelle loro
protagoniste femminili, fra tutte una delle due figlie di King,
Alexandra, interpretata con sincera passione da
Shailene Woodley, all’altezza del compito e capace di
duettare con il talento di George Clooney.
Entertainment Weekly oggi propone
in anteprima il nuovo teaser poster americano di The Raven – Gli
ultimi giorni di Edgar Allan Poe (John Cusack), la nuova pellicola di James McTeigue (V
for Vendetta, Ninja Assassin) ispirata alla figura e ai racconti
dello scrittore di Boston.
Brad Pitt parla dei protagonisti del film L’Arte
di Vincere, per il quale lui e Jonah Hill sono stati candidati
all’Oscar (rispettivamente per Miglior attore protagonista e
Migliore attore non protagonista). Dal 27 gennaio al
cinema.
Niente remake di La Casa
per Lily Collins (vista in Abduction e prossima interprete di
Mirror Mirror, film ispirato aBiancaneve): l’attrice britannica ha
declinato il ruolo della protagonista femminile a causa
dei troppi impegni concomitanti, tra cui il tour promozionale
dello stesso Mirror Mirror e la partecipazione all’adattamento di
The Mortal Instruments, ennesima saga post-adolescenziale (firmata
da Cassandra Clare) che dopo il successo nelle librerie americane,
si prepara a sbarcare sul grande schermo.
Il remake di Evil Dead
dovrà trovare dunque una nuova interprete per il ruolo di Mia, una
ragazza che nel corso di una gita tra amici finisce in una casa
abbandonata… ovviamente infestata, con tuttò ciò che ne seguirà
(rispettando il plot dell’originale). Regista del film sarà il
semisconosciuto Fede Alvarez, regista uruguayano segnalatosi per il
cortometraggio fantascientifico Ataque de Panico. La sceneggiatura
è stata scritta dallo stesso Alvarez, assieme a Rodo Sayagues, con
l’assistena di Diablo Cody. L’inizio delle riprese è previsto per
il prossimo marzo, l’uscita nelle sale per l’aprile 2013.
Si va completando il cast del nuovo
vilm di James Wan (regista del primo Saw e, più recentemente, di
Insidious): dopo Patrick Wilson e Vera Farmiga è la volta di Ron
Livingstone e Lily Taylor. Il titolo inizialmente scelto, The
Conjuring, è stato in seguito scartato e al momento non ne è stato
ancora trovato un altro. Wilson e la Farmiga interpreteranno una
coppia di ‘investigatori psichici’ che affronteranno il caso più
terrificante della loro vita in una fattoria del Rhode Island; qui,
un’altra coppia (Livingstone e la Taylor) si è trasferita coi
propri figli, solo per scoprirla infestate da una presenza
dmeoniaca che decisamente non li vuole trai piedi. La sceneggiatura
è stata scritta Chad e Carey Hayes, sulla base del caso della
famiglia Perron, raccontato dagli investigatori Ed e
Lorraine Warren, negli anni ’70. Le riprese dovrebbero cominciare
nel prossimo marzo.
Dopo aver trovato in Ethan Hawke il
protagonista, Vigilandia – sci-fi thriller di James DeMonaco
(regista le cui precedenti opere non sono granché memorabili) ha
trovato anche la sua controparte femminile in Lena Headey
(protagonista in Terminator: The Sarah Connor Chronicles, oltre ad
aver recitato in altre serie come Game of Thrones o White
Collar).
Del film, che sarà un’opera a basso
costo, si sa poco: regista e produttori hanno voluto mantenere il
massimo riserbo. Produttore è Jason Blum (Insidious), la cui
compagnia sta attualmente lavorando a Platinum Dunes di Michael
Bay. Nota anche per il ruolo della Regina Gorgo in 300 di Zack
Snyder, la Headey sarà sugli schermi in autunno col remake del
fumettistico Dredd.
Steven Soderbergh continua a
portare avanti il suo nuovo progetto, un ‘thriller – farmaceutico’
intitolato Side Effect: sul fronte del cast, arriva la conferma
della partecipazione di Catherine Zeta-Jones, che nel film
affiancherà Jude Law, Channing Tatum, e Blake Lively. La storia
ruoterà proprio attorno al personaggio della Lively, preda di ansia
e depressione a causa dell’imminente scarcerazione del marito;
questo stato la poterà ad assumere una grande quantità di farmaci e
le cose peggioreranno ulteriormente quando intreccerà una relazione
col suo medico (interpretato da Jude Law).
La sceneggiatura è stata scritta da
Scott Z Burns (The Informant, Contagion). Per gran parte degli
attori principali non si tratta della prima collaborazione con
Soderberg: la Zeta-Jones ha recitato in Traffic, Jude Law in
Contagion, Tatum ha preso parte a Haywire, e farà parte anche di
Magic Mike, altro film messo già in cantiere da Soderberg.
Catherine Zeta-Jones sarà presto sugli schermi nel nuovo film di
Stephen Frears e nel musical Rock of Ages.
E’ morto il regista greco Theo
Angelopoulos. A dare lantizia la polizia di Atene che è accorsa
immediatamente quanto il grande artista, Palma d’Oro a Cannes e
Leone d’Oro alla Mostra del cinema di Venezia
Eccoli i nominati, tutti a fremere per la grande notte del 26
febbraio che incoronerà uno di loro migliore dell’anno.
Cinefilos.it vi offre una gallery sintetica ma esplicativa dei
nominati per questa
Ecco l’elenco completo
delle nomination agli Oscar 2012. Come c’era da aspettarsi, The
Artist ha conquistato la maggiori candidature: film, regia, attore
protagonista, attrice non protagonista, sceneggiatura oltre a
Ecco le nomination della 84esima edizione
degli Academy Awards, annunciata da Jennifer Lawrence (nominata lo
scorso anno per Un Gelido Inverno) e il Presidente dell’Academy,
Tom Sherak.
Il sito sfx.co.uk ha stilato un’interessante classifica …
succhiasangue. I soggetti in questione sono infatti i vampiri di
celluloide, che siano da grande o da piccolo schemo, sono stati
classificati in una top 50
In attesa dell’uscita nelle sale di
The Iron Lady, la fresca vincitrice del Golden Globe come miglior
attrice Maryl Streep, ci
racconta il film attraverso la sua esperienza sul set. Vi
ricordiamo anche la nostra recensione: The Iron Lady.
Qual è stata la sua prima
reazione quando la regista Phyllida Lloyd le ha proposto di
interpretare il ruolo di Margaret Thatcher?
Quando Phyllida mi ha detto che
avrebbe diretto un film sulla vita di Margaret Thatcher e sulle
tematiche della sua leadership, ha immediatamente stuzzicato il mio
interesse. Non sono molte le donne leader e non sono molti i
registi interessati a sondare cosa significa per una donna essere
una leader.
Riflettere sulle barriere che
Margaret Thatcher ha dovuto abbattere per diventare la Premier del
Regno Uniti significava entrare nella mente di una donna di fine
anni ’70, quando riuscì ad emergere e ad assumere il comando del
suo partito. E io non faccio che ripetere alle mie figlie che
allora il mondo era molto diverso e che tuttavia alcune cose
restano molto simili.
È stato interessante seguire le
orme di una donna cresciuta durante la Guerra, scoprire la Gran
Bretagna del dopoguerra, un periodo di privazioni e di
ricostruzione, e vedere questa donna elaborare la propria filosofia
e tradurla in pratica formulando soluzioni per quelle che lei
considerava delle mancanze nel benessere economico del suo paese. È
stato come osservareuna persona, casualmente donna, che tenta di
risolvere enormi problemi di portata mondiale in un modo del tutto
inedito per una donna.
È entrata in un circolo per
soli uomini, nel mondo dell’alta borghesia, e ha preso tutti per la
collottola. A prescindere dall’orientamento politico di ognuno, lo
considera un risultato significativo?
Io come attrice, arrivando il primo
giorno sul set per le prove mi sono sentita incredibilmente
sconfortata perché mi sono trovata in mezzo a 40-45 meravigliosi
attori inglesi ed ero l’unica donna nella stanza e credo di aver
provato la sensazione che deve aver provato Margaret Thatcher
arrivando alle riunioni del Partito Conservatore.
I giorni delle riprese nella
ricostruzione del Parlamento sono stati particolarmente
interessanti: come catturare l’attenzione di un’assemblea, come
coinvolgere un pubblico che ti ascolta per riuscire a convincerlo
della bontà della tua scelta politica sono situazioni con cui ci
misuriamo ancora oggi in quanto esseri umani.
Ho visto registe lottare nel
tentativo di assumere il comando. E non siamo ancora del tutto a
nostro agio con il concetto di una donna al comando. Margaret
Thatcher è stata realmente una grande innovatrice nel mostrare uno
dei modi in cui una donna può assumere la leadership. Non aveva
grandi problemi a capire come comandare e quindi, in un certo
senso, gli uomini non hanno avuto grandi problemi a capire come
seguirla. Secondo me è quando una donna esita sul modo di comandare
o si preoccupa di come viene percepita o teme di perdere la prima
femminilità che la sua abilità al comando ne risente.
Due temi che emergono nel
film sono avere l’amore e perderlo e avere il potere e perderlo.
Per lei quale dei due è più importante?
Credo che la riuscita del film
dipenda dal fatto che alcuni momenti salienti di forte tensione e
pressione nella sua vita politica sono controbilanciati da momenti
di eguale rilevanza nella sua vita privata che hanno avuto
ripercussioni altrettanto grandi su di lei come essere umano nella
sua totalità. Quindi abbiamo cercato di fare un film su un essere
umano a tutto tondo.
Margaret sostiene che se prendi
decisioni dure, la gente ti odia oggi, ma ti ringrazierà per molte
generazioni. Ed è sempre in questi termini che deve ragionare un
leader, ma anche una madre, che deve pensare ‘è vero, adesso la
faccio soffrire e lei mi odierà per quello che le impedisco di
fare, ma a lungo andare mi ringrazierà’. Penso che siano
preoccupazioni simili. Se un politico ragiona a breve termine,
facilmente riscuote consensi, ma è bene avere un’ottica a lungo
termine.
Il film è incredibilmente
apolitico. Secondo lei il pubblico ne resterà
sorpreso?
Non ho iniziato a lavorare al film
con un’opinione politica su Margaret Thatcher. In tutta sincerità,
sapevo scandalosamente poco dei suoi programmi politici. Sapevo che
erano in linea con molti dei programmi del Presidente Reagan, che
conoscevo meglio, ma non con tutti.
Quindi non mi interessava tanto
approfondire gli obiettivi che ha perseguito quanto il costo che le
sue scelte politiche hanno avuto su di lei come
persona. Quello che abbiamo cercato
di illustrare, con tutta l’accuratezza di cui siamo stati capaci,
sono stati i motivi dell’odio viscerale da un lato e
dell’ammirazione profonda dall’altro suscitati dalle sue decisioni
politiche. Ma ci preoccupava soprattutto il prezzo che deve pagare
un individuo che prende decisioni così cruciali. Quando sei un
leader con un enorme carico di responsabilità, come ne risenti sul
piano umano e quanta capacità di resistenza devi avere per
continuare a essere forte?
Interpreta Margaret in un
arco temporale di 40 anni; dev’essere stata una sfida
incredibile.
Interpretare 40 anni della vita di
un personaggio è una sfida, ma quando arrivi alla mia età, ti
sembra di avere ancora 20 anni, quindi non è stato un grande
problema. Una parte di te si sente ancora la stessa persona che eri
quando avevi 16 o 26 o 36 o 46 o 56 anni. Quindi hai accesso a
tutte le persone e a tutte le età che hai già vissuto. Credo sia il
grande vantaggio, se ne esiste uno, di diventare vecchia.
È stata una meravigliosa
opportunità. Di solito il cinema ti colloca in un periodo
specifico, ma questo è un film che consente di guardare al passato
di una vita intera ed è stato davvero entusiasmante cercare di
farlo. Voglio però aggiungere che la creazione di Margaret anziana
è anche in gran parte merito, oltre che dello splendido lavoro dei
truccatori J. Roy [Helland] e Marese [Langan], della geniale
metamorfosi realizzata da Mark Coulier grazie alle protesi che ha
disegnato.
Qual è stata la cronologia delle
riprese?
Il secondo giorno sul set, quando
ero da poco sbarcata dall’aereo dal Connecticut, parlando con
questo accento, abbiamo girato la scena della riunione di
Gabinetto, quando lei è all’apice del comando e al tempo stesso
sull’orlo del crollo nervoso.
Per rispondere alla sua domanda,
non mi hanno aiutata affatto, girando tutto il film senza alcun
ordine cronologico! Ma in fin dei conti credo sia stato un bene
lanciarmi subito in una scena così ambiziosa, perché mi ha
costretta a rimboccarmi le maniche come un Marine e a prepararmi a
combattere. E ho combattuto ogni singolo giorno delle riprese.
Ora mi sveglio tutte le mattine
pensando ‘Grazie a Dio non sono la leader del mondo libero, non
sono il Presidente Obama!’. Oh, che compito! Una cosa che ti resta
davvero dentro dopo aver interpretato un personaggio di proporzioni
shakespeariane è il senso di gratitudine. Mi sento molto modesta e
scoraggiata al pensiero dello spaventoso peso che Margaret Thatcher
si era presa sulle spalle. È una posizione terribile, scomodissima
e devastante quella di chi deve decidere di mandare delle persone a
rischiare la morte e poi la sera appoggia la testa sul cuscino. La
gente pensa che non paghi alcuno scotto e considera i personaggi
pubblici come dei mostri o degli dei, ma la verità è che stanno
tutti nel mezzo.
Pensa che il pubblico
uscirà dal cinema con un’opinione mutata di Margaret
Thatcher?
Non so se gli spettatori
cambieranno opinione sulle sue scelte politiche, ma se non altro
capiranno meglio le pressioni che ha dovuto sopportare e le
ragioni per cui, alla fine, la
risposta che lei sembrava rappresentare all’epoca è stata respinta.
Penso che quanto meno arriveranno a cogliere questo. E, alla fine,
dopo che la risposta che lei rappresenta viene respinta, vedranno
la persona che sopravvive a tutto questo anno dopo anno e, come
chiunque altro, continua a rimuginare nella sua testa ‘Cos’era
che…? Ricordi questo? Ricordi quest’altro?’.
La destinazione di ogni essere
umano è la stessa.
Durante le riprese, la
produzione ha diffuso una sua foto sul set nei panni di Margaret
Thatcher che è stata pubblicata sulla prima pagina non solo di
quasi tutti i quotidiani britannici in edicola, ma anche dei
giornali internazionali. Qual è stata la sua reazione?
Quando la foto è stata ripresa da
tutte le agenzie in Cina, nel Sudest Asiatico e in posti che non
avremmo mai immaginato fossero interessati al progetto, ovviamente
i produttori si sono esaltati: forse non è solo un film per sette
persone a Westminster! È stato confortante per tutti.
Ma, parlando a livello generale,
credo che ci sia una porzione di pubblico cinematografico spesso
sottostimata, ovvero le donne, che raramente vedono sullo schermo i
personaggi che interessano loro. C’è una sete di conoscenza nei
confronti di Margaret Thatcher perché è stata un’innovatrice a
molti livelli. Credo che questo film avrà un pubblico molto
trasversale e incuriosirà anche le persone che di solito non vanno
al cinema perché l’attuale offerta cinematografica le respinge o le
annoia.
La stampa ha riferito che
prima di girare questo film ha visitato la Camera dei Comuni. Che
tipo di visita è stata e che cosa ha imparato?
È stato meraviglioso potermi fare
un’idea del protocollo e del comportamento da tenere nella Camera
dei Comuni. Abbiamo avuto accesso allo spazio dietro le quinte, non
so bene come si chiami, dove ci sono una serie di piccoli uffici
attraverso cui i deputati entrano nella Great Hall. Mi sentivo un
po’ intimidita a stare nell’aula dove si è riunito per la prima
volta il Parlamento inglese nel 1066, una sala sorprendentemente
piccola in realtà. È stato toccante vedere quanto è piccola a
confronto dell’enorme portata dei capitoli di storia che sono stati
scritti al suo interno, della statura delle personalità che quei
muri hanno accolto, della grandezza delle idee che sono scaturite
da quel luogo. E anche vedere quanto è intima, come i deputati
siedono uno di fronte all’altro, gridando uno con l’altro o
assumendo un’aria annoiata. È un luogo piuttosto antagonistico.
E poi come è stato ricreare
le scene dei suoi interventi dalla tribuna?
Sono state scene ad alta tensione e
per certi aspetti sono servite a farmi entrare nella testa di
Margaret Thatcher. Era una delle rare donne che facevano politica
all’epoca. Ce n’erano altre, ma lei è stata una delle pochissime a
raggiungere il vertice.
E non ci è riuscita promuovendo la
sua immagine sui mezzi di informazione o con qualsiasi altra
astuzia adottino le persone per costruire le proprie carriere
politiche nell’attuale sistema, quando meno negli Stati Uniti. Non
si preoccupava di essere affabile, ma di essere competente. Doveva
essere più preparata e meglio preparata degli altri, doveva
prevedere tutte le domande che chiunque avrebbe potuto rivolgerle,
anche quelle che nessuno avrebbe
mai pensato di farle, doveva avere
una risposta per ogni cosa, perché doveva essere più brava di
qualsiasi altro uomo nella sua posizione per poter mantenere la sua
posizione. C’era una resistenza enorme all’idea di una donna
leader.
È stato entusiasmante incarnarla. A
maggior ragione dopo aver visto una serie di filmati di repertorio
che mi hanno mostrato la sua prontezza, la sua preparazione
impeccabile, la sua determinazione a lottare, la sua capacità nel
cogliere l’occasione giusta per sferrare un attacco, sicura di
vincere. Un simile appetito è elettrizzante e necessario per avere
la stoffa del leader.
Quali sono le doti migliori
di Phyllida?
La sua qualità più grande come
regista sta nel fatto che non esiste aspetto della lavorazione di
un film in cui non abbia il massimo livello di talento. È dotata di
grande pazienza e di grande lucidità mentale. Non ha mai virato dal
film che avevamo tutti insieme convenuto di fare, non si è mai
allontanata da quella visione durante la lavorazione. Spesso il
cinema è un processo creativo così singolare e viscerale che inizi
a lavorare a un film immaginandolo in un modo, ma poi lo trasformi
in qualcos’altro fino ad arrivare a gettare la spugna e ad
ammettere che ti è sfuggito di mano ed è diventato un’altra
cosa.
Ma a noi questo non è successo,
grazie allo sforzo che abbiamo fatto per mantenere gelosamente la
sua visione. È incredibilmente coinvolgente: ti sollecita e ascolta
qualsiasi proposta collaborativa tu le faccia e spesso ne tiene
conto, anche se questo non la porta a modificare la destinazione
originale del film che ha in mente. Sono molto fiera del fatto che
tutti noi siamo arrivati alla stazione a cui avevamo previsto di
scendere, perché è un risultato raro. Il cinema è una forma d’arte
collaborativa, quindi può partire in molte direzioni diverse. Ma
noi abbiamo avuto un grande sostegno da parte dei nostri
produttori, dalla Pathé e dagli altri investitori. Ci hanno
appoggiato in quello che abbiamo cercato di fare.
Al centro del film c’è la
storia d’amore tra Margaret e Denis, altro personaggio
affascinante, magistralmente interpretato da Jim Broadbent. Com’è
stato lavorare con lui?
Ha un grandissimo senso
dell’umorismo e, anche in molti dei ruoli più seri che gli ho visto
interpretare, ha il talento dell’ironia e della comprensione
empatica, due doti molto toccanti. Denis Thatcher è stato spesso
dipinto all’opinione pubblica come una sorta di pagliaccio. E il
profilo della sua veste pubblica è stato uno degli aspetti del
personaggio, ma sapevamo che Jim avrebbe ancorato il suo
protagonista in un substrato di spessore e comprensione della sua
maschera di comicità, indagando sul ruolo che il suo senso
dell’umorismo ha avuto nel vivacizzare la sua vita e quella di
Margaret e sull’importanza della presenza in una coppia di uno
disposto ad alleggerire le tensioni ridendo e scherzando. Penso che
gran parte degli atteggiamenti nei confronti di Denis fossero
dettati dal fatto che la sua posizione destabilizzava molte
persone, uomini e donne. Era scioccante vedere una donna Capo di
Stato e a quel punto lui cos’era? Il Signor Marito di…? Come
potevano definirlo? Il “first husband”? Che cos’era?
In questa fase dell’evoluzione
della specie umana solo adesso ci stiamo abituando ad accogliere
queste nuove posizioni dei generi sessuali. Secondo
me lui era satireggiato, ma non
sembrava provarne risentimento e questa sua reazione è stata
davvero straordinaria. So che Jim Broadbent è arrivato sul set con
un forte pregiudizio nei confronti di Margaret Thatcher e della sua
politica. E man mano che abbiamo interpretato la vecchia coppia di
coniugi, credo che abbia un po’ modificato la valutazione, non
tanto del suo premierato o del suo operato politico, quanto del suo
presunto lato umano che forse ha accettato di più. Di sicuro ha
accettato me come attrice che vestiva i suoi panni: ho sentito da
parte sua un affetto autentico e un sincero sgomento per la vita
che era stata riservata loro.
Prima dell’inizio delle
riprese ha passato un po’ di tempo con Alexandra
Roach?
Alexandra Roach interpreta Margaret
Thatcher giovane. Si è discusso molto di come fare assomigliare il
suo incantevole nasino all’insù al mio, ma lei è stata al gioco! È
un’attrice davvero incantevole. Ho trovato meraviglioso il rapporto
che ha costruito con Harry, che interpreta Denis giovane. Hanno
entrambi dedicato un’estrema cura al tentativo di dare ai due
personaggi giovani il sapore dei due personaggi anziani. Hanno
realmente fatto un ottimo lavoro.
Richard E. Grant si è
divertito dicendo che i signori che la circondavano, i suoi
colleghi di Gabinetto, erano come palline di naftalina di
equità.
No, no, non pallina di naftalina.
Li ha definiti falene, falene che circondano una sorgente di luce.
Posso dire che Richard E. Grant si diverte in qualunque situazione.
È una compagnia simpaticissima. Tutti quei signori sono stati
fantastici con me, mi hanno accolta in un territorio a cui io non
appartengo, essendo un’intrusa, un’americana.
Ma in un certo senso sono stata
incoraggiata a interpretare Margaret Thatcher proprio per il fatto
che lei stessa era un’intrusa in quel Partito Conservatore fatto di
parrucconi laureati a Oxford e Cambridge in cui lei marciava
imperterrita. E io ho pensato: se ce l’ha fatta lei, posso farcela
anch’io.
E Anthony Head nei panni di
Geoffrey Howe?
Un personaggio fondamentale. Per
Margaret Thatcher rappresentava una roccia, una voce giudiziosa,
una persona su cui poter sempre contare e quando alla Camera dei
Comuni Geoffrey Howe si alzò e diede le dimissioni, ogni cosa
precipitò verso la fine.
Anthony è un attore magnifico,
estremamente affascinante sul piano personale, che qui interpreta
splendidamente e con grande umiltà un uomo senza pretese, facendone
un ritratto bellissimo. Percepisci il suo dolore e il suo
disappunto. Era molto importante consentire un’identificazione con
ogni singolo deputato e con la sua personalità. Ogni attore è
arrivato sul set con una biografia esaustiva della persona che
avrebbe rappresentato, non per cercare di imitarla, ma per tentare
di incarnare qualche verità di quella persona e del ruolo che ha
avuto in questa tragedia..
Qual è stato l’aspetto più
bello della realizzazione di questo film?
Sicuramente l’opportunità di
guardare una vita intera, perché nella fase della vita in cui sono
io capita di guardarsi alle spalle e di ripensare a tutta la
propria storia. A volte è sconvolgente quanto una vita può essere
grande e piena di eventi che nel momento in cui li stai vivendo
sembrano molto importanti.
Poi però ti rendi anche conto che
quello che conta davvero è il presente, quello che vivi adesso, nel
preciso istante e nel luogo in cui ti trovi a viverlo. E si può
argomentare che l’unica cosa importante è vivere intensamente la
propria vita nell’esatto momento in cui ci si trova e che è questa
la cosa più difficile che esiste al mondo. In fondo è il principio
del Buddismo Zen, vivere intensamente il qui e ora, sentirlo,
esserci fino in fondo.
Quando siamo giovani, ognuno di noi
dichiara quello che non farà mai, ma poi seguiamo tutti lo stesso
destino, abbiamo tutti un inizio e una fine. È un’ambizione
insolita per un film puntare l’intera narrazione verso quel
momento, il momento della fine. Di solito un film tende verso un
apogeo, un’aspirazione alta. Qui invece guardiamo un distillato di
cosa significa aver vissuto una vita enorme, esagerata,
intensissima e vederla poi sprofondare. Insomma, è poesia, non
trova?
Meryl Streep.
Attrice versatile, perfettamente a suo agio nel dramma come nella
commedia, con i suoi personaggi femminili ha caratterizzato e
caratterizza il cinema da oltre trent’anni. Personaggi
diversissimi, ma sempre donne grintose, di coraggio, con una forte
personalità, cui ha prestato i tratti della sua bellezza fine ed
elegante, ma anche determinazione e testardaggine. Così anche per
la sua più recente interpretazione, dal 27 gennaio nelle sale:
quella di Margaret Thatcher in The
Iron Lady di Phyllida Lloyd.
Confermando il suo feeling coi
riconoscimenti e le statuette – è l’attrice che ha ricevuto più
candidature agli Oscar e ai Golden Globe, ed in
quest’ultima categoria è colei che ne ha ottenuti il maggior numero
– simbolo dell’apprezzamento che l’attrice riscuote negli
Usa, sua patria, ma non solo, si è aggiudicata pochi giorni fa
proprio il Golden Globe come Miglior Attrice per il ruolo della
Thatcher, mentre il Festival del Cinema di Berlino
si appresta a conferirle l’Orso d’Oro alla carriera. E chissà
che, grazie alla sua ultima fatica, non possa di nuovo arrivare a
stringere tra le mani la statuetta più prestigiosa, quell’Oscar che
già fu suo due volte: nel 1980 per la sua straordinaria
interpretazione della signora Kramer in Kramer contro Kramer
di Robert Benton, accanto a Dustin Hoffman; e tre anni dopo, per il
ruolo della prigioniera polacca in La scelta di Sophie.
Indipendentemente da come andranno le cose, la bravura di
quest’attrice e la perfetta aderenza ai personaggi che interpreta,
frutto di un meticoloso lavoro, ha sempre messo d’accordo tutti,
facendo di lei, indiscutibilmente, una delle più grandi del cinema
contemporaneo.
Mary Louise
Streep nasce a Summit, nel New Jersey, il 22 giugno del
1949. Sua madre è un’artista, dipinge e dirige una galleria d’arte,
mentre il padre è a capo di una casa farmaceutica. In casa la
chiamano Meryl e con questo nome sarà poi conosciuta. Nelle sue
vene scorre sangue nord europeo: Inghilterra, Irlanda, Svizzera,
Olanda. La madre le trasmette la passione per il canto, che le fa
studiare fin da bambina. La famiglia vive a Bernardsville, nel New
Jersey, e Meryl ha due fratelli. Si diploma nella stessa cittadina
e comincia ad appassionarsi al mondo dello spettacolo. È il 1971
quando le viene conferito il Bachelor of Arts in
dramma al Vassar College, mentre il Master
of Fine Arts a Yale risale al ’75. Studia poi
all’Actor’s Studio con Stella Adler e si dà al
teatro. È da qui che parte anche la sua avventura cinematografica.
Sarà infatti durante uno di questi spettacoli teatrali che
catturerà l’attenzione di Fred Zinnemann, che le
proporrà la sua prima apparizione sul grande schermo nel drammatico
Giulia (1977), accanto a Vanessa
Redgrave e Jane Fonda. A quest’epoca, la
Streep ha 28 anni ed è pronta per il grande salto.
Nel 1978 Michael
Cimino la vuole per uno dei suoi capolavori: sarà accanto
a Robert De Niro – ancora oggi suo grande amico –
John Savage e Christopher Walken
ne Il Cacciatore, intenso lavoro
incentrato sull’esperienza di tre amici, soldati in Vietnam. Il
film ottiene un grandioso successo agli Oscar, portandone a casa
addirittura cinque (miglior film, regia, attore protagonista
Walken, montaggio e suono). Anche la Meryl Streep
è per la prima volta candidata al premio e si fa conoscere così dal
grande pubblico. Sul set del film, poi, conosce l’attore
John Cazale, del quale sarà la compagna fino alla
sua prematura scomparsa quello stesso anno. Quindi, sposerà uno
scultore: Don Gummer, con cui avrà quattro figli.
Del 1979 sono due lavori
importantissimi nella carriera dell’attrice del New Jersey:
Kramer contro Kramer di Robert
Benton e Manhattan di Woody
Allen. Nel primo, Ted e Joanna Kramer sono una coppia con
un figlio (Billy/Justin Henry), in crisi. Joanna/Meryl
Streep, oppressa dalle responsabilità familiari e forse
non più soddisfatta della propria vita, decide di prendersi del
tempo per riflettere. Perciò se ne va, lasciando marito e figlio a
cavarsela da soli. I due trovano un nuovo equilibrio,
Ted/Dustin Hoffman riorganizza la propria vita in
funzione della cura del figlio, impara ad essere per Billy anche
“una madre”, ma Joanna torna e vuole il divorzio, nonché la
custodia del piccolo. Inizia così una feroce battaglia legale tra i
due genitori. Dunque un film non facile, sul ruolo e sui diritti
dei padri, da considerare pari in tutto e per tutto a quelli delle
madri.
Meryl Streep: vera diva del grande
schermo
Alla Meryl
Streep spetta caratterizzare questa figura di donna
complessa, sul cui comportamento si può discutere, ma che ci appare
qui con tutte le sue debolezze, le difficoltà, i dubbi umanissimi,
e con un sincero amore per il figlio. Interpretazione
stellare sia per la Streep che per Hoffman. Infatti i due attori
guadagnano entrambi il Premio Oscar. Per Meryl
Streep arriva anche il Golden Globe, primo di una
lunga serie. In Manhattan, l’attrice è ancora una donna (Jill) che
abbandona il marito (Woody Allen/Isaac Davis), scrittore per la tv
newyorkese, stavolta per amore di un’altra donna. Ma Isaac
incontrerà per le vie di Manhattan Mary Wilkie/Diane Keaton.
Collaborazione di peso quella con Allen per l’attrice di Summit.
Qui i toni sono quelli di una commedia, diretta con maestria da un
Woody Allen in stato di grazia. Un film che racconta soprattutto
l’amore del regista per la sua città, che ci appare in bianco e
nero mentre la storia si dipana sulle note di Gershwin. Nel 1981
Meryl è scelta da Karel Reisz per interpretare il ruolo della
protagonista in La donna del tenente francese. Una storia d’amore
tra passato e presente, che vede coinvolti una donna dell’ ‘800 che
rinuncia a tutto, ed anche alla sua reputazione, per amore del
tenente Jeremy Irons e, ai giorni nostri, due
attori che portando in scena questa storia, vengono travolti dalla
stessa passione. Quest’interpretazione consente tra l’altro alla
Streep, interprete di entrambe le donne, di mostrare una delle sue
particolari doti: quella di padroneggiare perfettamente diversi
accenti e di saper quindi passare disinvoltamente dall’inflessione
inglese britannica a quella americana.
È un periodo d’oro questo per la
nostra attrice, che nell’83 viene insignita di un secondo Oscar e
del Golden Globe per la sua straordinaria
interpretazione nel drammatico La scelta di Sophie di Alan Pakula,
che vede al suo fianco Kevin Kline, all’esordio sul grande schermo.
Qui interpreta una giovane polacca, prigioniera nel campo di
concentramento di Auschwitz, che compie una scelta difficilissima:
abbandonare la figlioletta per salvare la vita propria e dell’altro
figlio, collaborando con un comandante del campo. Nello stesso
anno, con Silkwood entriamo assieme alla Streep in fabbrica e
indaghiamo sul suo mal funzionamento: l’attrice interpreta
l’operaia Karen Silkwood, vittima di una contaminazione radioattiva
sul luogo di lavoro nell’Oklahoma degli anni ’70, diretta da
Mike Nichols. Nel cast anche Kurt Russel e
Cher.
Del 1985 è un altro
grande successo di pubblico e critica, che accresce ancora la
popolarità di Meryl Streep in tutto il mondo: La mia
Africa di Sydney Pollack, tratto
dall’omonimo testo di Karen Blixen. Una donna dal carattere forte
la baronessa Blixen, che l’attrice interpreta con maestria e
intensità. Donna che si innamora dell’Africa, dove compra e
gestisce da sola una piantagione di caffè ai primi del ‘900. Ed ha
anche il coraggio di lasciarsi alle spalle un matrimonio, quello
col barone Blixen che le ha consentito di condurre una vita agiata,
per cercare il vero amore. Lo troverà in Denys/Robert
Redford. Allo stesso tempo, dunque, un inno a favore del
coraggio e dell’intraprendenza delle donne, ma anche il racconto di
una storia d’amore travagliata, tra una donna possessiva e decisa e
un uomo che ama innanzitutto la propria libertà. Il film ottiene
diversi Oscar, tra cui Miglior Film, Regia e Sceneggiatura, ma si
fa apprezzare molto anche all’estero, in particolare nel nostro
paese. Viene infatti premiato col Nastro d’Argento e col
David di Donatello come miglior pellicola
straniera, e a Meryl Streep va un meritato David
come miglior attrice straniera. Dopo aver lavorato accanto a
De Niro, Hoffman, Redford, nel 1986 l’attrice del
New Jersey condivide il set con Jack Nicholson.
Entrambi sono alle prese con un matrimonio che non riescono proprio
a far funzionare in Heartburn – Affari di cuore, dove Meryl ritrova
la direzione di Mike Nichols. Il regista la sceglierà di nuovo nel
1990 per il drammatico Cartoline dall’inferno.
Gli anni ’90 iniziano all’insegna
della varietà per l’attrice: nel ’92 si fa dirigere da
Robert Zemekis nella commedia La morte ti
fa bella, dai toni satirici. Assieme a lei a reggere
questa satira sul sogno dell’eterna giovinezza, Goldie Hawn e Bruce
Willis. L’anno dopo torna al dramma, con la trasposizione
cinematografica del romanzo di Isabel Allende La casa degli
spiriti, che attraverso le vicende della famiglia Trueba ci
racconta il Cile dagli inizi del ‘900 al regime di Pinochet.
Difficile senza dubbio la sfida di racchiudere il grande affresco
storico nel tempo di un film e di trasporre un romanzo senza
tradirlo, ma il tema è forte e meritevole di trattazione, così come
meritevoli sono senz’altro le interpretazioni degli attori, specie
quelle di Jeremy Irons, nei panni del
capofamiglia, il generale Esteban Trueba, della moglie Clara/Meryl
Streep, e della sorella Ferula/Glenn Close. Nel ’95, Meryl aggiunge
un tassello alle sue prestigiose collaborazioni e ottiene di nuovo
il favore di pubblico e critica, diretta niente meno che da
Clint Eastwood,
e protagonista assieme a lui del romantico I ponti di Madison
County. Francesca è una donna sposata che vive nella campagna
dell’Iowa e dedica tutta la sua vita alla famiglia. Il fotografo
Robert Kincaid è di passaggio, ma i due vivranno in pochi giorni un
amore che cambierà le loro vite.
Il nuovo millennio inizia invece
con la partecipazione al film di Spike JonzeIl ladro di orchidee, accanto a
Nicholas Cage e Tilda Swinton,
che vale all’attrice del New Jersey un altro Golden Globe. Dello stesso anno è
un’altra scommessa vinta dalla Streep. Prende parte infatti a
The Hours, impegnativa trasposizione del
romanzo di Michael Cunningham. Un cast tutto al
femminile regge quest’ambiziosa opera che vede protagoniste
Nicole Kidman,
nei panni di Virginia Woolf, Julianne
Moore/Laura e Meryl Streep/Clarissa: tre donne in tre
epoche diverse, legate da storie che s’intrecciano e dal romanzo
Mrs. Dalloway, tre donne poste di fronte
a scelte importanti, insoddisfatte delle proprie vite.
L’interpretazione che colpisce maggiormente è senz’altro quella di
Nicole Kidman, che guadagna l’Oscar e il Golden
Globe – ma tutte e tre le protagoniste ottengono l’Orso d’Oro al
Festival di Berlino. Nel 2004,
un tuffo nel genere fantastico, con la partecipazione a Lemony
Snicket – Una serie di sfortunati eventi, favola
dalle atmosfere oscure per la regia di Brad Silberling.
Due anni dopo a regalare a Meryl
l’ennesimo successo è la straordinaria abilità con cui impersona
l’arcigna e altera direttrice di un importante magazine di moda,
Miranda Priestley, in Il Diavolo veste
Prada alle prese con l’apprendistato, non solo
lavorativo, della giovane dipendente Andie Sachs/Anne Hathaway.
L’interpretazione merita un nuovo Golden Globe. Ma
non è questa l’unica commedia con la quale la Streep si cimenta
quell’anno. Se infatti nella prima parte della sua carriera ha
interpretato soprattutto ruoli drammatici, ha progressivamente
scoperto e coltivato, sempre con ottimi risultati, anche il lato
comico del suo talento. Così nel 2006 veste anche i panni di Liza,
psicanalista di Uma Thurman/Rafi, che cerca
l’amore e sembra trovarlo nel giovane David che però, guarda
caso, è il figlio di Liza. Ottima la sua interpretazione in questo
Prime, commedia brillante firmata Ben Younger. Nel 2007 Meryl torna
al dramma e ritrova Robert Redford, col quale non recitava dai
tempi de La mia Africa. In questo caso, però, l’attore è anche
regista e sceglie proprio la Streep e Tom Cruise
per affiancarlo in Leoni per agnelli, pellicola d’impegno, in cui
Redford fonde le storie di tre personaggi: il politico dalle forti
ambizioni, senatore Irving/Cruise, la giornalista in cerca di uno
scoop che lo intervisterà in esclusiva, Janine Roth/Streep, e un
professore, Stephen Malley/Redford che cerca di far cambiare idea a
un suo studente intenzionato ad abbandonare gli studi. A tenere
insieme e a far da sfondo alla storia c’è la guerra in Afghanistan.
Redford intende con questa pellicola scuotere le coscienze e
richiamarle all’impegno.
Ma Meryl non trascura neppure il
genere thriller, e partecipa all’esordio del regista sudafricano
Gavin Hood, Rendition – Detenzione illegale. Nello
stesso anno fa di nuovo ampiamente centro e mostra ottime doti di
cantante, ballerina e performer nella commedia musicale Mamma Mia!,
per la regia di Phyllida Lloyd, in cui dà corpo e
una straordinaria vitalità al personaggio di Donna, spensierata
figlia dei fiori negli anni ’60 e ora pragmatica padrona di un
piccolo hotel in un’isola greca, alle prese con l’imminente
matrimonio della figlia, e non solo. Lo stesso anno la vede anche
partecipare a Il dubbio, di John Patrick Shanley, che affronta il
delicato tema della pedofilia all’interno delle istituzioni
religiose (qui, in una scuola). Il film analizza in maniera
complessa la questione e va a fondo nel tratteggiare le psicologie
dei personaggi. Non solo quella del presunto pedofilo, Padre Flynn,
ma anche quella della direttrice: Sorella Aloysius, una perfetta
Meryl Streep.
L’attrice appare anche nel
documentario di John Walter Theatre of war, incentrato sullo
spettacolo Madre coraggio di Brecht, interpretata dalla Streep al
teatro all’aperto di Central Park a New York. Questo testimonia
come l’attrice non abbia mai abbandonato la sua passione degli
inizi: quella per il palcoscenico. Nora Ephron la vuole nel 2009
per un ruolo brillante nella commedia gastronomica Julie & Julia.
L’attrice è stavolta un’americana a Parigi negli anni ’50,
conquistata dalla cucina francese. La sua storia scorre in
parallelo con quella di una giovane americana dei nostri giorni,
anche lei alle prese coi fornelli. Ennesima prova magistrale e
meritato Golden Globe.
Ed eccoci all’attualità:
nelle sale italiane arriva dal 27 gennaio The Iron
Lady: un film che ha già fatto molto parlare di sé ed è
già valso a Meryl, sua protagonista, il Golden Globe come Miglior
Attrice drammatica. Una pellicola per la quale è tornata a farsi
dirigere da Phyllida Lloyd, con cui aveva condiviso la fortunata
esperienza di Mamma Mia! Una nuova sfida, forse una delle più
difficili della sua carriera: quella di vestire i panni, nonché
rendere la personalità e il temperamento forte, di Margaret
Thatcher, Primo Ministro inglese dal 1979 al 1990. Personaggio
discusso e anche criticato per alcune scelte politiche che
cambiarono, nel bene o nel male, il volto dell’Inghilterra. La
sfida è in parte già vinta, ma manca ancora il “boccone più
ghiotto”: di certo l’attrice sarà una delle protagoniste nella
corsa all’Oscar 2012.
In The Iron
Lady, Margaret Thatcher, ex Primo
Ministro britannico, ormai ottantenne, fa colazione nella sua casa
in Chester Square, a Londra. Malgrado suo marito Denis sia morto da
diversi anni, la decisione di sgombrare finalmente il suo
guardaroba risveglia in lei un’enorme ondata di ricordi. Al punto
che, proprio mentre si accinge a dare inizio alla sua giornata,
Denis le appare, vero come quando era in vita: leale, amorevole e
dispettoso. Lo staff di Margaret manifesta preoccupazione a sua
figlia, Carol Thatcher, per l’apparente confusione tra passato e
presente dell’anziana donna.
Preoccupazione che non fa che
aumentare quando, durante la cena che ha organizzato quella sera,
Margaret intrattiene i suoi ospiti incantandoli come sempre, ma a
un bel momento si distrae rievocando la cena durante la quale
conobbe Denis 60 anni prima. Il giorno dopo, Carol convince sua
madre a farsi vedere da un dottore. Margaret sostiene di stare
benissimo e non rivela al medico che i vividi ricordi dei momenti
salienti della sua vita stanno invadendo le sue giornate nelle ore
di veglia.
Meryl Streep è Margaret Thatcher
Arriva anche da noi The Iron
Lady, film biografico che narra l’avvincente storia di
Margaret Thatcher, una donna che è riuscita a
farsi ascoltare in un mondo dominato dagli uomini, abbattendo le
barriere di discriminazione sessuale e sociale. È questo uno dei
temi portanti che l’inizio del film porta con sé, cercando di
indagare quei lati meno battuti di un’Inghilterra
immobilizzata da una difficile situazione economica ed un
maschilismo molto diffuso e difficilmente superabile. Il carattere
e l’intraprendenza sono certamente i punti forti che caratterizzano
profondamente il personaggio protagonista della storia.
E chi se non un’altrettanto
intraprendente e carismatica attrice come
Meryl Streep può far rivivere con il giusto piglio
quel personaggio sul grande schermo. Ancora una volta, Meryl
echeggia poderosamente con la sua performance nell’intricato
intreccio narrativo di una storia, contribuendo in grossa misura ai
pro che caratterizzano la pellicola. Tuttavia quello che sorprende
di più è che il suo contributo di bravura genera anche i contro,
perché la Streep è talmente brava e desiderata che
fa terra bruciata intorno a sé.
Il film è talmente incentrato su di
lei e sul suo personaggio che finisce per diventare un cane che si
morde la coda, finendo per generare un affresco si affascinante e
intrigante ma altrettanto thatchercentrico e didascalico, finendo
per limitare quelle che erano le reali potenzialità della storia.
D’altronde, districarsi fra la vita politica e dirompete della
Thatcher e l’intimità fragile e difficile di Margharet è un terreno
difficile per molti.
Un film che fatica a stare dietro alla sua protagonista
Sin dalle prime battute diventano
chiari i limiti della regista chiamata a dirigere questo ambizioso
progetto: Phyllida Lloyd. La sua
regia in tutta la prima parte è un po’ piatta e non aiuta a
far decollare il film, rialzandosi brevemente solo nelle ultime
parti della storia, poco per un film che avrebbe dovuto essere un
affresco su un periodo storico, su un personaggio storico e al
contempo una dolce e sensibile storia d’amore. Gran parte dei
meriti di una seconda parte più interessante e ricca di sfumature
vanno senza dubbio alla magistrale performance di Jim
Broadbent, che interpreta il marito della vulcanica donna,
Denis Thatcher.
Dipinto dall’opinione pubblica come
un pagliaccio, l’attore riesce nell’intento di rappresentare il suo
personaggio come qualcosa di molto più che un semplice menestrello.
La sua ironia e il suo senso dell’umorismo hanno senz’altro aiutato
a far valere l’importanza del ruolo di Denis nella vita di coppia
dei Thatcher, non a caso gli istanti d’intimità fra i due sono i
momenti migliori del film, che nonostante tutto sorprende a più
riprese, lasciando spazio anche ad alcune riflessioni politiche che
risultano essere tutt’oggi ancora spaventosamente attuali.
Da lunedì 23 gennaio –
Bobby Fischer Against the World: Nato nel 1943 e morto
nel 2008, Bobby Fischer è stato sicuramente un grande scacchista se
non il più grande di sempre. Il documentario prodotto dall’HBO ne
ripercorre la biografia utilizzando le testimonianze di chi lo ha
conosciuto direttamente integrate con un’ampia selezione di
materiali video. Il fulcro del docufilm è il famosissimo incontro
in Finlandia con Boris Spassky tenutosi nel 1972 e avente in palio
la corona mondiale allora detenuta dal russo.
Da venerdì 27 gennaio –
Mission Impossible – Protocollo Fantasma: Implicati
loro malgrado in un gravissimo attentato terroristico al Cremlino,
l’agente Ethan Hunt e i suoi collaboratori sono messi al bando dal
governo americano. Il Presidente lancia l’operazione “Protocollo
Fantasma”. Hunt e i suoi ufficialmente non agiscono più per conto
degli Usa ma tocca a loro, senza alcuna copertura, cercare di
fermare chi sta cercando di scatenare una guerra nucleare.
L’arte di vincere: Gli Oakland Athletics sono una
buona squadra di baseball che però non può competere con i budget
stratosferici di squadre come ad esempio i New York Yankees. Quando
al termine di una buona stagione il general manager Billy Beane si
vede portar via i suoi tre migliori giocatori, la loro sostituzione
diventa impossibile.
ACAB – All Cops Are Bastards: Cresciuti nel culto
della destra fascista, i tre protagonisti si scoprono disillusi al
termine di una parabola di violenza che e’ la loro ”educazione
sentimentale”. Nella narrazione si svela, attraverso l’occhio e il
linguaggio degli ”sbirri” e una lunga inchiesta sul campo, la trama
occulta dei piu’ sconcertanti episodi di violenza urbana accaduti
in Italia negli ultimi due anni.
The Iron Lady: Il film racconta la storia di una donna
che ha rotto le barriere del genere e della classe per essere
ascoltata in un mondo dominato dagli uomini. La storia riguarda il
potere e il prezzo che viene pagato per il potere, ed è un ritratto
sorprendente e penetrante di una donna straordinaria e
complessa.
Il sentiero: Sarajevo. Luna fa la hostess mentre il
suo compagno Amar opera come controllore di volo all’aeroporto. I
due stanno cercando di avere un figlio e sono anche disposti a
ricorrere all’inseminazione artificiale. Amar viene però sospeso
dal lavoro perchè sorpreso con alcolici in servizio. Per caso
incontra un ex commilitone divenuto musulmano integralista. Gli
viene offerto un lavoro come insegnante di computer in una comunità
musulmana che vive isolata dalla città. Da quel momento i percorsi
di Amar e Luna iniziano a dividersi.
Si è tenuta questa mattina a Roma
l’anteprima dell’attesissimo esordio di Stefano Sollima, conosciuto
da tutti e soprattutto dalle più giovani generazioni, per essere il
regista di Romanzo Criminale – La serie. Il film in programma, di
cui tutti ormai stanno parlando, è il coraggioso ACAB, tratto dal
romanzo omonimo di Carlo Bonini, edito da Einaudi.
Rabbia, frustrazione, esasperazione.
Queste sono le parole chiave per descrivere la storia di
A.C.A.B. – All Cops Are Bastards, primo
lungometraggio di Stefano Sollima,
(regista di Romanzo Criminale – La serie,
Suburra, Adagio),
tratto dall’omonimo romanzo, edito da Einaudi, di Carlo Bonini.
A.C.A.B. – All Cops Are Bastards, ha l’abilità di
farci entrare con forza nella storia fin dal primo fotogramma,
affrontando un vissuto quotidiano che rispecchia la società
odierna, caratterizzata da un odio che non ha soluzioni, ma che si
manifesta contagiando viralmente ogni categoria dello Stato.
I protagonisti sono tre poliziotti
appartenenti al reparto mobile della Polizia dello Stato, si
chiamano Cobra (Pierfrancesco
Favino), Negro (Filippo
Nigro), e Mazinga (Marco
Giallini). Una loro prima definizione ordinaria li
definisce uomini armati, addestrati per mantenere l’ordine
all’interno di situazioni a rischio, come quelle che accadono negli
stadi o nelle manifestazioni. Poi però c’è la cronaca, che dal G8
in poi, ha mostrato un’altra faccia della categoria, che ci ha
sempre di più allontanato e posto criticamente nei loro
confronti.
Visti ora come dei violenti, spesso
fautori di ulteriore odio contro lo Stato. A.C.A.B. – All
Cops Are Bastards, si spinge oltre la cronaca e s’insinua
nel vissuto quotidiano di questi celerini, raccontandoci una storia
autentica, senza la presunzione di rivelare una verità definitiva.
Prima di tutto chi appartiene alla Celere, fa parte di una squadra.
I tre protagonisti sono come fratelli che si proteggono e difendono
nel momento del bisogno. Perché i celerini sono obbligati a essere
uniti e solo insieme rappresentano una forza contro il disordine.
Ma, è il disordine che loro combattono? Forse no.
Una scena di A.C.A.B. – All Cops Are Bastards. Cortesia di 01
Distribution.
Chi controlla i guardiani?
I celerini di A.C.A.B. – All
Cops Are Bastards, sono mossi da una rabbia potente che li
domina e li spinge senza giustificazione, contro quei deboli, che,
proprio come loro, sono mossi dall’esasperazione verso uno Stato
distante, che non rispetta i loro diritti. Burattini in divisa,
strumenti di una politica che da troppo tempo, si è posta a debita
distanza da una realtà ogni giorno più degradata e violenta; una
realtà che fa paura, e si sa che, quando si è mossi dalla paura e
dalla frustrazione di non essere ascoltati né protetti, nessun
ideale, nessuna morale può fermare l’escalation della violenza. È
in questi momenti che la giustizia personale diventa l’unica
soluzione. Poco importa se sono emigrati, giovani facinorosi o
fascisti.
Sollima alla regia di un film teso e necessario
Sollima non delude
e convince il pubblico con un film potente, sincero e coraggioso,
che non condanna né critica i poliziotti, ma li descrive senza
generalizzazioni e con le relative differenze. Adriano Costantino
(interpretato dal talentuoso emergente Domenico
Diele), incarna una di queste differenze: è feroce come i
suoi compagni e inizialmente, si lascia anche trasportare dalla
rabbia e dalla loro idea di giustizia, però ha la forza e
soprattutto, il coraggio di comprendere l’insensatezza della
violenza a tutti i costi, trovando una soluzione nella
legalità.
A.C.A.B. – All Cops Are
Bastards è sotto ogni punto di vista un film
necessario, denuncia e ritratto di una realtà sociale, la cui trama
si coniuga perfettamente a uno stile di regia realistico,
accompagnato da una fotografia dominante e da una colonna sonora,
non solo pertinente al film, ma anche appartenente all’immaginario
musicale dei protagonisti, come Seven Nation Army dei
White Stripes, base musicale dei cori dei tifosi
negli stadi di tutto il mondo. Un film che dividerà il pubblico, ma
che senza dubbio lo scuoterà, immergendolo con forza in una
violenza ormai familiare.
Dopo il successo diMangia Prega Ama, il
regista Ryan Murphy ci riprova con The Normal
Heart. Una strabiliante Julia Roberts farà parte di un
cast altrettanto eccezionale, con
Dalla collaborazione congiunta di
Scott Alexander e Larry Karazewski alla regia e alla scenografia,
patrocinato da Tim Burton in qualità di produttore, nasce il
progetto Big Eyes.
Si avvia alla fase conclusiva il
progetto di Franco Maresco, regista mordace che in perfetto stile
Cinico TV ha ideato il film Belluscone. Una storia
siciliana. Ispirato alla figura
Il Film: A prima impressione
sembrerebbe essere un film come molti altri, un thriller analogo ad
altre opere che hanno parlato di virus, contagio, epidemia.
Tuttavia il Contagion di Soderbergh è un film che si distacca molto
dal costrutto discorsivo puro del genere, allontanandosene man mano
che la narrazione va avanti, diventando qualcosa di molto più che
un semplice esercizio di forma.
Racconta con sterilità disarmante
le vicissitudine di diversi personaggi che ruotano intorno ad una
società che si trova di fronte un’epidemia senza precedenti,
raccontando tutte le varie figure che si trovano, per il loro ruolo
sociale, coinvolte in prima persona nel pandemonio generale.
Inevitabilmente le relazioni umane diventano il fulcro centrale del
film, di una moralità in bilico di fronte all’indecifrabile e
all’invisibile. I personaggi diventano preda delle pulsioni più
profonde dell’istinto di sopravvivenza, dove l’ossessione per il
contatto e l’interazione diventano il nemico numero uno da
combattere, a colpi di asocialità e isolamento. Come l’immune Matt
Damon che dopo aver perso la moglie portatrice del virus, isola se
stesso e sua figlia nella speranza di un futuro, che sembra non
esserci. Nella caparbietà e nel dovere troviamo invece i personaggi
di Kate Winslet e Marion Cotillard che rischiano la vita e il
contagio per portare a termine i loro compiti, che hanno ancora una
valenza nel mondo.
In tutto questo colpisce
l’atteggiamento freddo e la capacità di distacco di Soderbergh di
rimanere impassibile, rigorosamente ancorato al suo sguardo
oggettivo, limitandosi a impreziosire il film di uno stile sterile,
meccanico, quasi come se in fondo avesse paura egli stesso di
contrarre il virus e perdere il controllo. La stessa
meccanicità sembra confluire anche nelle musiche che accompagnano
le immagini a tre, quattro passi di distanza, scandendone solo il
ritmo.
In questo contesto la paura diventa
protagonista indiscussa della vita e anche provare sentimenti di
preoccupazione verso i propri cari diventa motivo di rimprovero,
per una società che in momenti così sembra non riuscire ad essere
compassionevole. Nel caos più totale e nella perdita di realtà
l’unico baluardo a cui aggrapparsi sembrerebbe essere quello di un
blogger che placa l’ira delle folle attraverso la rete scoprendosi
poi un affabulatore ingannevole e meschino, come forse internet in
situazioni come queste potrebbe essere. E’ forse una delle tante
facce della paura che emergono dal film? E che dire invece delle
istituzioni che sembrano reagire lentamente al male, è forse dentro
di noi l’antidoto tanto cercato?
Da film freddo e distaccato, la
pellicola non sembra voler rispondere alle domande che pone, nè
tanto meno il regista sembra voler prendere posizione di fronte
agli eventi che racconta. Si limita soltanto ad enunciarli servendo
solo in ultima istanza, su un piatto d’argento un accenno di
accusa, di posizione, di constatazione quasi retorica verso il
perché e il come, lasciando sempre alla fredda e cruda realtà dei
fatti il compito di decifrarla.
L’edizione Dvd: L’edizione che il
25 Gennaio invaderà le videoteche di tutt’Italia è un edizione
sobria, concentrata a torno al film che la mente di Steven
Soderbergh ha partorito, arricchito anche da un’ulteriore
contributo extra: Come un virus cambia il mondo
che aiuta a comprendere i reali cambiamenti che l’avvento di un
nuovo virus sconosciuto può procurare ad sistema equilibrato come
la nostra società moderna.
TITOLO
Contagion
REGIA
Steven Soderbergh
CAST
Matt Damon, Gwyneth Paltrow, Marion
Cotillard, Kate Winslet, Jude Law, Bryan Cranston, Laurence
Fishburne, John Hawkes, Jennifer Ehle, Sanaa Lathan
GENERE
Thriller
ANNO
2011
DURATA
102 minuti circa
VIDEO
16×9 – 1.78:1
AUDIO
Italiano, Inglese, Francese (5.1 Dolby
Digital); Inglese (5.1 Audio Descriptive Service)
SOTTOTITOLI
Francese, OlandeseNon
udenti: Italiano, Inglese
CONTENUTI SPECIALI
COME UN VIRUS CAMBIA IL
MONDO
Trama: Il rischio di una nuova
pandemia su base planetaria allerta i medici del Center for Disease
Control e dell’OMS. Devono isolare velocemente il nuovo virus,
trovare una cura e circoscrivere il contagio iniziato a Hong Kong.
Mentre tentano di limitare i morti, si diffondono notizie false e
incontrollate che alimentano la psicosi collettiva innescando
disordini civili.
Strepitoso debutto in sala per
Benvenuti al Nord, che ottiene cifre da
capogiro monopolizzando il panorama cinematografico nostrano. Segue
il buon debutto di Underworld – il
risveglio, con Immaturi 2
al terzo posto.
L’ultimo fine settimana è stato
caratterizzato da nuove uscite di tutti i gusti, ma gli spettatori
italiani hanno praticamente ignorato la variegata offerta per
precipitarsi a vedere l’atteso Benvenuti al
Nord. Il sequel di uno dei maggiori successi del 2010
– che aveva chiuso con ben 29,8 milioni di euro – ottiene un
incasso eccezionale: 12,2 milioni di euro da mercoledì a domenica,
ben 9,8 milioni nei tre giorni! Distribuito in quasi 900 sale, il
film ha ottenuto uno dei migliori weekend per il cinema italiano
(un anno fa Che bella giornata aveva raccolto la cifra
record di 18,6 milioni nei cinque giorni – 9,6 milioni nei tre),
portando in sala ben 1,8 milioni di spettatori. Prevedibile un
certo calo per il prossimo fine settimana, ma Benvenuti al
Nord potrebbe comunque avvicinarsi al risultato complessivo di
Benvenuti al Sud.
Il resto della top10 presenta
ovviamente cifre di tutt’altro tipo. Underworld – il risveglio debutta in
seconda posizione con 994.000 euro (anche grazie al sovraprezzo),
ottenendo una buona media. Immaturi – il
viaggio scende dunque al terzo posto con 893.000
euro, arrivando a quota 10,7 milioni totali: il film ha perso oltre
il 50% per via della concorrenza di Benvenuti al Nord.
Segue l’altro film distribuito dalla Medusa, La
Talpa, che giunge a 2 milioni complessivi con altri
645.000 euro.
J. Edgar
scende in quinta posizione, portandosi a quota 5,5 milioni con gli
ultimi 454.000 euro raccolti. Calo anche per Alvin
Superstar 3 – Si salvi chi può che arriva a 5,4
milioni con altri 439.000 euro.
The Help
apre soltanto al settimo posto: il film campione d’incassi negli
USA, che è valso un Golden Globe a Octavia Spencer, raccoglie solo
291.000 euro e punta decisamente al passaparola.
Shame
guadagna una posizione rispetto al week-end d’esordio e con 223.000
euro giunge a 665.000 euro.
Chiudono la top10 Non
avere paura del buio (222.00 euro) e
L’incredibile storia di Winter il delfino
(215.000 euro), arrivati rispettivamente a 987.000 euro e 725.000
euro.
Nonostante sia arrivato al quarto
episodio, Underworld, appena uscito, è in vetta al
Box office USA di questa settimana. Così come era accaduto ad
un’altra saga che vanta uno zoccolo duro di affezionatissimi,
Final Destination, che diligentemente vanno a
vedere in massa ogni nuova messa in scena cinematografica della
serie. Così è accaduto anche per questo ultimo capitolo della saga
anch’essa con tematica vampiresca ma affatto melensa. Il film
incassa infatti 25 milioni di dollari e distanzia decisamente la
seconda posizione. Red tails, che racconta le
vicissitudini di un plotone di piloti che combattono durante la
seconda guerra mondiale, formato prevalentemente da afroamericani,
segue la prima posizione, e incassa 19 milioni di
dollari. Scende Mark Wahlberg, star di
Contraband, il film incassa 12 milioni di dollari
questa settimana, arrivando ad un totale di 46. In quarta posizione
troviamo il film drammatico, tratto da un romanzo di Jonathan
Safran Froer, Extremely loud and incredibly close,
in cui un bimbo cerca di superare in un modo un po’ fantasioso il
trauma della perdita del padre avvenuta per gli attentati alle
Torri gemelle di 10 anni fa. Il film fa di tutto per essere
interessante, alla regia infatti c’è Stephen Daldry, regista di
Billy Elliot, nel cast ci sono Sandra Bullock e
Tom Hanks oltre che il giovane Thomas Horn. Il film ha incassato 11
milioni di dollari. In quinta posizione troviamo
Haywire, il film “piccolo” che accompagna sempre
le grosse produzioni di Steven Soderbergh, che precedentemente
quest’anno ci aveva angosciato non poco con il virale, in tutti i
sensi, Contagion. In questo film invece seguiamo
la vendetta di un soldato super specializzato; nel cast Ewan
McGregor e Michael Fassbender. Il film ha incassato 9 milioni
di dollari. Scende anche la riedizione del classico Disney
Beauty and the beast, che
questa settimana incassa 8 milioni di dollari che fanno arrivare il
totale a 33, relegando la pellicola al sesto posto della classifica
dei dieci film più visti. In settima posizione scende anche il
musical con le star storiche della musica soul e country messe
insieme in Joyful noise; il film ha un totale di
22 milioni di dollari.
Inesorabilmente, ma dopo sei
settimane di classifica e 197 milioni di dollari incassati, si
avvia ad uscire di scena Mission Impossible: Ghost
protocol, così come fa l’altro film che ha dominato le
feste, ora in nona posizione: Sherlock Holmes: a game of
shadows, con un totale di 147 milioni di dollari. In
decima posizione a chiudere la classifica, The girl with
the dragon tattoo di David Fincher, che questa settimana
ha incassato solo 3 milioni di dollari.
La prossima settimana esce un nuovo
film in cui Liam Neeson deve affrontare problemi molto più grandi
di lui: in The grey, infatti, il suo personaggio
si ritrova disperso in Alaska dopo un incidente aereo ed è
insidiato da un branco di lupi che ovviamente vedono i superstiti
umani come un’ottima colazione. Esce anche Albert
Nobbs, che suscita interesse soprattutto per
l’interpretazione en travesti di Glenn Close, che nell’Irlanda del
19esimo secolo si deve travestire da uomo per lavorare e
sopravvivere. Esce anche una nuova commedia con Katherine Heigl:
One for the money.
Con il loro lavoro, gli attori sono in grado di
veicolare un’infinità di emozioni. E talvolta ci fanno anche
piangere. Ma è interessante scoprire quali sono i momenti che hanno
emozionato gli attori stessi al cinema, fino a versare lacrime.
Il successo di The Artist continua:
dopo aver trionfato ai Golden Globes, il film ha appena vinto il
PGA(Producers Guild Award), prestigioso premio destinato alla
produzione.
Numerosi altri favoriti come
Paradiso Amaro, L’Arte di Vincere, War Horse, Hugo Cabret, Le Idi
di Marzo, Midnight in Paris e The Help sono stati quindi battuti
dalla pellicola di Michel Hazanavicius, le cui probabilità di
vittoria agli Oscar sembrano aumentare di giorno in giorno.
Altri importanti premi sono stati
consegnati per l’occasione anche a le avventure di
Tintin(produttori Peter Jackson, Kathleen Kennedy, Steven Spielberg)e al documentario Beats,
Rhymes & Life: The Travels Of A Tribe Called Quest(Michael
Rapaport, Edward Parks).