Maiwenne Le
Besco
D.: Polisse è un film che riesce a dare la sensazione di
essere una presa diretta sulla realtà. C’è un motivo particolare
per cui ha scelto di dare al film un taglio documentaristico
selezionando, poi, i casi da portare sulla pellicola?
R.: Molto probabilmente riesce a dare la sensazione della realtà
perché è girato bene e la percezione di veridicità che si prova nel
guardarlo è dovuta proprio al modo in cui è stata effettuata
la selezione dei casi trattati nel film, dettata non tanto
dall’elemento della straordinarietà che, inevitabilmente, avrebbe
fatto dei poliziotti francesi degli eroi, ma piuttosto in
base alla capacità delle storie di essere molto vicine alla realtà.
Quello che ho cercato di fare con Polisse è stato fare mia la
realtà che mi circonda. E ogni volta che la realtà viene riportata
in un film questa assume sempre una connotazione differente a
seconda di chi è a raccontarla. Ad esempio i personaggi del film
non sono inventati ma sono persone il cui modo di essere è stato
messo in scena direttamente da me e l’elemento del suicidio ne è
una prova visto che proprio una poliziotta ha tentato di
suicidarsi.
D.: Ha lavorato a contatto con la polizia francese? E se si
come è stato valutato il suo operato da chi quotidianamente svolge
questo lavoro e quali difficoltà ha incontrato?
R.: Non ho avuto la possibilità di lavorare con loro perche i loro
capi non hanno voluto. Poi però alla proiezione si sono sentiti a
disagio perché il film effettivamente meritava e si sono resi conto
di aver perso un’opportunità. Quando si dirige un film non si ha la
possibilità di raccontare tutto, quello in cui mi sono impegnata è
stato cercare di fare un film che lasciasse libero lo spettatore di
riflettere senza essere pro o anti polizia.
Nel mio mondo, quello della “sinistra al caviale”, purtroppo quando
si parla di polizia si reagisce sempre in maniera negativa. Quando
mi sono resa conto che avrei potuto individuare degli elementi
positivi e quindi metterli in scena sono stata criticata, in
particolar modo, da quella sinistra di cui mi sento parte.
A tal proposito vi racconto un aneddoto. Un giorno con la mia
macchina ho imboccato una strada preferenziale e, giustamente, i
poliziotti mi hanno fermata. Quando ho aperto la portiera si sono
resi conto chi ero e mi hanno ringraziata per come sono riuscita a
portare sulla scena il loro lavoro.
Quello che effettivamente conta per me nella vita non è essere
compiacente con tutti, ma essere me stessa. Ho prodotto il mio
primo film da sola, l’ho girato da sola e sono fiera di essere
quello che sono.
Se mi rendo conto che c’è un poliziotto che fa bene il suo lavoro,
penso anche che valga la pena raccontarlo. Sono di sinistra, è
vero,ma non voglio e non devo compiacere nessuno.
Questa è una delle caratteristiche della Francia: fai una cosa per
trovare giustizia e poi vieni accusato di tradimento.
A Cannes sono stata contenta di due cose. Prima di tutto che una
rivista di sinistra mi abbia messo in copertina e abbia definito
Polisse: “un film che colpisce lo stomaco”. Seconda cosa quando il
Direttore del Festival
di Cannes mi disse che la decisione di eliminare alcuni
personaggi francesi dalla giuria avrebbe portato alla vittoria di
qualche film francese.
D.: Ha scelto Riccardo Scamarcio perché era intenzionata a
trovare un attore straniero o ci sono altre
motivazioni?
R.: Sinceramente a me non interessava riuscire a trovare un
attore straniero, quello che maggiormente volevo era un attore
carismatico. Alle origini del film il ruolo interpretato da
Riccardo rientrava a far parte di un triangolo amoroso: me, lui e
il poliziotto. Inizialmente avevo elaborato quest’idea di creare
conflittualità sia tra i due personaggi sia tra i due mondi che
essi stessi rappresentano: da una parte la facilità della vita
borghese e dall’altra la realtà povera del poliziotto. Poi mi sono
resa conto che creare una storia parallela a quella raccontata nel
film non funzionava. E il motivo principale per cui ho scelto
Riccardo è perché le sue peculiarità caratteriali si sarebbero
integrate perfettamente in questo contesto e soprattutto lo avrebbe
avvantaggiato il suo modo di essere un po’ chiuso nei
sentimenti. Mentre per quanto riguarda la lingua inizialmente ho
pensato che avrebbe potuto rappresentare un ostacolo poi invece
sono arrivata alla conclusione che avrebbe potuto aiutare a
renderlo un personaggio diverso dal contesto raccontato e che in un
certo senso mi avrebbe aiutato a riconciliarmi con le mie origini
maghrebine.
Forse in futuro girerò Polisse 2 con Riccardo come attore
principale!
D.: Il film è semplicemente straordinario. Cos’ha però di
autobiografico?
R.: La domanda e la risposta, in questo caso, rischiano di essere
uguali per tutti i registi. Ad ogni modo in ogni film c’è una parte
dell’inconscio che viene fuori e che ti porta a realizzare
determinate cose.
Io credo che qualsiasi artista quando produce una sua opera che sia
un quadro, una canzone o altro, racconta sempre qualcosa di sé, la
sua identità che poi è il passato.
Per me, ogni cosa che faccio, è autobiografica. L’abilità è nel
saperla nascondere. Molto probabilmente io non sono molto brava in
questo. Alcune volte però si tratta di antibiografia cioè
raccontare quello che si vorrebbe essere. Nei miei film, ad
esempio, è sempre molto presente l’aspetto della genitorialità, del
come si fa ad essere genitori o come si fa ad essere figli. Per
esempio nel mio ultimo film si percepisce la mancanza d’amore che
caratterizza il periodo dell’infanzia.
Se non ricordo male era Troufau a dire che si fa sempre lo stesso
film per tutta la vita e ci sono due frasi che caratterizzano la
mia esperienza: la prima me la disse un ragazzo quando avevo 11
anni: “Sai non ci sono regole per saper scrivere, si scrive come si
pensa.” La seconda è la seguente:” Tutti si possono identificare in
storie autobiografiche e in ogni storia autobiografica c’è qualcosa
di intimo”.
Riccardo Scamarcio
D.: Questa volta, al contrario di quello che succede
normalmente, hai recitato per un ruolo non da protagonista. Ti ha
fatto piacere?
R.: Avevo avuto modo di vedere il primo film di Maiwenne e la
conoscevo. Conoscevo il suo lavoro e il suo modo di lavorare e di
mettere in scena. Sostanzialmente ero curioso di lavorare con lei
che ha comunque un modo particolare di produrre film. Questo mi ha
spinto ad accettare questa parte che, sicuramente, in origine,
aveva un’importanza diversa da quella che ha avuto poi alla fine,
ma questo sinceramente non è rilevante perché la mia è stata
sostanzialmente una sfida, un mettersi in gioco nel recitare in
francese e nell’andare a lavorare in un altro Paese. La cosa che mi
ha spinto maggiormente è che Maiwenne quando gira un film parte dal
copione ma poi lascia ampio spazio all’improvvisazione. E questo,
per una persona che conosce il francese ma non lo parla come un
madrelingua è una grande sfida!
E poi Polisse è un film importante che parla di un argomento
altrettanto importante quale quello della pedofilia e ne parla in
maniera così differente dalla normalità che alla fine del film ho
provato un sentimento di tenerezza sia nei confronti dei bambini
che degli adulti.
D.: Secondo quanto detto prima il tuo ruolo avrebbe dovuto
essere molto più importante. Cosa hai provato quando hai visto le
tue scene ridotte?
R.: Mi è dispiaciuto perchè alla fine avevo fatto un gran lavoro in
10 giorni ma, allo stesso tempo, sono contento di essere in questo
film, anche con una piccola parte. Questo perché Polisse mi ha
trasmesso delle sensazioni e delle emozioni particolari: provare
tenerezza per un bambino è insito nella natura umana ma provare
quello stesso tipo di tenerezza anche per gli adulti non è cosa da
tutti i giorni.
Sono felice di averne preso parte perché è un film
intensamente vivo, che trasmette una grande vitalità e allo stesso
tempo una immensa tenerezza.
Inoltre guardandolo si riesce ad individuare quella sensazione
di malessere del vivere che, ormai, ci riguarda tutti, è un
film denso e non penso ce ne siano molti.
D.: Dato il tuo carattere pignolo com’è stata la tua prima
volta sotto la direzione di una donna e che hai provato a girare un
film in un paese straniero?
R.: Si effettivamente è la prima volta che recito in un film sotto
la direzione di una donna. E sinceramente ho accettato passivamente
tutto quello che Maiwenne mi ha chiesto. Per quanto riguarda,
invece, il mio essere pignolo non penso che i registi italiani
pensino questo di me o, perlomeno, nel set sono quello che tende a
risolvere i problemi poi al di fuori del set è tutta un’altra
cosa.
D.: Progetti Futuri?
R.: Tornerò a Roma a breve e comincerò il film con Valeria Golino,
al quale lavoro da ormai un anno, ovviamente come produttore. Il
titolo provvisorio è Vi perdono.
Polisse: conferenza stampa
Il Paradiso Amaro di Payne
Le combinazioni vincenti non sono dettate dalla loro natura di affinità e questo Alexander Payne lo ha capito da sempre. La bellezza non è data dalla felicità, e forse la perfezione dei suoi film scaturisce da abbinamenti opposti e complementari: la spensieratezza della California con la consapevolezza amara vissuta da Paul Giamatti, e ancora l’esotismo delle Hawaii con il dramma di George Clooney.
I Muppet: recensione del film con Amy Adams
Dal ’76 all ’81 hanno imperversato nelle tv americane, si sono spostati poi in tutto il mondo e anche da noi in Italia, raccogliendo piccoli fan in tutto il mondo con il loro show che ha cambiato le regole dei programmi per bambini.Adesso arrivano al cinema in un lungometraggio che li riporterà alla ribalta. Sono I Muppet, i simpatici e colorati pupazzi, una via di mezzo tra marionette e burattini, che hanno imperversato in tv per molti anni, diventando protagonisti anche di una serie animata.
La trama di I Muppet
Sotto il Teatro dei Muppet è stato trovato del petrolio e perciò il petroliere Tex Richman (Chris Cooper) vuole raderlo al suolo per perforare ed estrarre l’oro nero. Walter (Jim Parsons) il più grande fan del mondo dei Muppet con suo fratello Gary (Jason Segel) e la fidanzata di quest’ultimo Mary (Amy Adams) vengono a conoscenza del piano di Tex Richman e, volendo fermarlo.
Decidono dunque di mettere in scena il Muppet Telethoon, con il quale vogliono raccogliere i dieci milioni di dollari necessari per salvare il teatro. Al fine di mettere in scena lo spettacolo Walter, Mary e Gary devono però aiutare Kermit a riunire i Muppets, che si sono separati e hanno preso tutti una strada diversa.
I Muppet si risolleva da metà film in poi
Il film, incredibilmente noioso per la prima parte, si apre a divertentissime gag verso la metà e soprattutto nel finale, quando i nostri eroi, finalmente riuniti rimettono insieme lo show dei Muppet. Ci sono tutti da Kermit la rana a Miss Piggy, da Animal e Gonzo e tutti sono esattamente gli stessi, solo con qualche anno in più.
La storia è banale e si riduce alla raccolta fondi per tenere in piedi gli studi e il teatro dei pupazzi e sembra assomigliare molto a quei film di fine anni ’30 in cui Mickey Rooney e Judy Garland mettevano in piedi uno show in un granaio. Tuttavia lo spirito con cui il film è stato girato è quello giustamente filologico che dei personaggi così amati meritano, avendo così la capacità di risvegliare in ogni fan ormai cresciuto, il divertimento, la meraviglia, la gioia di guardare ancora il Muppet show.

Tutti in fila per un cameo
Anche la metatestualità dello show originale è stata conservata in questo esperimento cinematografico, regalando ancora un altro elemento di valore al film. A testimonianza di quanto i Muppet fossero amati il film diventa poi una caccia al cameo, poiché disseminati per tutta la pellicola ci sono volti notissimi di cinema e tv che si prestano anche per un solo secondo a comparire accanto ai pupazzi, come se fossero le celebrità che un tempo andavano come special guest agli episodi dello show tv.
Accanto agli attori principali Jason Segel e Amy Adams che si cimentano in numerosi numeri musicali, scorgiamo qua e là il grande Mickey Rooney, Emily Blunt, Jim Parsons, Neil Patrick Harris, Zach Galifianakis e Jack Black nel ruolo di sé stesso. L’operazione nostalgica si può definire decisamente riuscita e chissà che i bambini di oggi non comincino ad affezionarsi ai Muppet di ieri. Se così non dovesse essere, poco male, c’è un pubblico di 40enni che è già in fila fuori dai cinema in attesa del 3 febbraio.
Paradiso Amaro: George Clooney e Alexander Payne al confronto sul Cinema!
Arrivano due
interessanti featurette che vede protagonisti George Clooney e
Alexander Payne, attore e regista di Paradiso Amaro, entrambi candidati all’Oscar
per il film. I due deliziano il pubblico in una conversazione su
registi della storia del cinema che hanno iniziamo con commedie per
arrivare a film drammatici.
The Darkness 2 – Trailer
Cinemaster 2012: Studio Universal e Corti d’Argento insieme!
Studio
Universal e Corti d’Argento insieme per
la nuova edizione del concorso CINEMASTER 2012. Al via, per la
prima volta in collaborazione con i Corti d’Argento dei giornalisti
cinematografici, il Cinemaster Studio Universal 2012, il progetto
per giovani registi italiani organizzato dalla TV del Cinema da chi
fa Cinema (distribuita sul Digitale Terrestre nell’offerta Premium
Gallery di Mediaset) che sceglie quest’anno il corto vincitore in
una rosa di titoli selezionati dal Sindacato Nazionale Giornalisti
Cinematografici Italiani (SNGCI) sulla base dei requisiti indicati
dal regolamento del Canale.
Una Notte da Leoni 3? La Wb è disposta a pagare 15mln a testa!
Sembra proprio che quando firmarono il loro contratto da 1 milione per Una Notte da Leoni, Bradley Cooper, Ed Helms e Zach Galifianakis abbiano firmato per il possesso di una vera e propria miniera d’oro. Sembra infatti che la Warner Bros sia disposta a pagare i tre 15 milioni a testa per farli tornare di nuovo a sbronzarsi, questa volta a Los Angeles. Se come detto per il primo film il terzetto ha incassato 1 milione e per il secondo 5, l’incremento è mostruoso ma giustificato dalle cifre da capogiro incassate dei primi due film: 467 milioni per il primo e 581 per il secondo.
Anche Tod Phillips verrebbe richiamato a bordo per girare il film quest’estate e farlo uscire nel 2013. Staremo a vedere cosa si deciderà, intanto i fan delle hangoover possono cominciare a sfregarsi le mani.
Fonte: comingsoon
Emma Stone e il primo bacio a Garfield…sul set
Emma Stone e Andrew Garfield stanno
pubblicizzando in giro per il mondo The Amazing Spider-Man.
Ovviamente a nessuno sfugge ormai che i due hanno cominciato una relazione e quindi i
IMDB compie 10 anni e fa i conti
Il più fornito e famoso database cinematografico di internet compie 10 anni. E’ ovviamente IMDb e per celebrare il suo compleanno, il sito ha stilato un po’ di classifiche per valutare chi, tra star, film , serie tv e film in arrivo è il più popolare nell’arco di questi 10 anni.
Johnny Depp si è rivelato il più popolare tra gli attori, uomini e donne comprese, in una classifica che vede nomi molto glamuor nelle prime dieci posizioni e a sorpresa forse un decimo posto occupato da Emma Watson, che senza dubbio riesce a sfruttare alla grande il suo successo ottenuto con Harry Potter. Per quanto riguarda il film, il più cliccato è Il Cavaliere Oscuro, Lost primeggia tra le serie tv e per quanto riguarda i film in produzione più attesi a capeggiare la classifica dei primi dieci c’è prevedibilmente Il Cavaliere Oscuro il Ritorno.
Ecco le liste complete:
Top 10 Stars degli ultimi
10 anni:
1. Johnny Depp
2. Brad Pitt
3. Angelina Jolie
4. Tom Cruise
5. Natalie Portman
6. Christian Bale
7. Scarlett Johansson
8. Jennifer Aniston
9. Keira Knightley
10. Emma Watson
Top 10 dei film degli
ultimi 10 anni:
1. Il cavaliere oscuro
2. Donnie Darko
3. Pulp Fiction
4. Il Signore degli Anelli: La compagnia dell’anello
5. Il Signore degli Anelli: Il Ritorno del Re
6. Harry Potter e il prigioniero di Azkaban
7. Harry Potter e l’Ordine della Fenice
8. Twilight
9. Harry Potter e il calice di fuoco
10. il Padrino
Top 10 delle Serie TV degli
ultimi 10 anni:
1. Lost
2. House M.D.
3. Grey’s Anatomy
4. Heroes
5. How I Met Your Mother
6. 24
7. Glee
8. True Blood
9. Dexter
10. Gossip Girl
Top 10 dei film in produzione più attesi degli ultimi 10
anni:
1. The Dark Knight Rises
2. Men in Black III
3. The Dictator
4. G.I. Joe: Retaliation
5. The Expendables 2
6. Battleship
7. The Avengers
8. Rock of Ages
9. The Hunger Games
10. Prometheus
Fonte: IMDb
What to Expect When You’re Expecting: cinque character poster
The Amazing Spider-Man: trama ufficiale e cameo d’eccezione!
Mission: Impossible – Protocollo fantasma: recensione del film con Tom Cruise
Con Mission: Impossible – Protocollo fantasma Tom Cruise ritorna nei panni dell’agente segreto Hunt, in quella che sembra l’inizio di una nuova trilogia in cui, oltre a vedere il nostro fare bello sfoggio delle sue straordinarie doti di stunt di se stesso, si introducono nuovi personaggi che al suo fianco potrebbero dare freschezza alla formula del franchise.
La trama di Mission: Impossible – Protocollo fantasma
In Mission: Impossible – Protocollo fantasma l’agente Ethan Hunt torna al cinema nella sua quarta indagine. Questa volta però l’IMF (Impossible Mission Force) non sarà dietro di lui a coprirgli le spalle, ad organizzare recuperi d’emergenza, a fornirgli l’attrezzatura ipertecnologica che sin dal primo film lo ha accompagnato nelle sue missioni. Questa volta Hunt si trova ad avere a che fare con una minaccia nucleare e soprattutto a fare i conti con una squadra, lui che ha sempre agito in solitaria. Questa volta la missione impossibile sarà riabilitare il suo nome, quello dell’agenzia e soprattutto diventare un team leader, il capo di una squadra di agenti operativi, tutti come lui, allontanati dal servizio del loro Paese.

La nuova squadra di agenti desautorizzati è composta dal notissimo leader, Tom Cruise, sempre più in forma e sprezzante nei confronti della forza di gravità, che nonostante l’età riesce ancora a competere con i vari giovanissimi attori che si travestono da supereroi nel cinema recente, gravitando l’attenzione su di sé. Ritroviamo in questo film Simon Pegg, che riprende il ruolo di Benji Dunn, promosso alla squadra operativa, fondamentale elemento nel cast per veicolare ironia in ogni momento, sempre con grande efficacia.
Jeremy Renner si aggiunge al gruppo, il suo William Brant è un sedicente analista che nasconde un passato oscuro che cerca a tutti i costi di scontare una colpa che grava sulla sua coscienza. Famme Fatale di turno è Paula Patton; lei è l’agente Jane Carter, decisamente fatale, che si unisce al gruppo e come tutti gli altri fa fatica a guadagnarsi la fiducia del nostro Ethan.
Alla regia, dopo De Palma, Woo e Abrams (qui in veste di produttore), si riconosce l’abile mano che fu dietro a Gli Incredibili della Pixar. Brad Bird regala allo spettatore un rutilante spettacolo pirotecnico dietro l’altro, a partire dei titoli di testa, passando per l’epica sequenza girata sul Burj Khalifa, a Dubai, l’edificio più alto del mondo.
Mission: Impossible – Protocollo fantasma, Tom Cruise è tornato in grande stile
Per tutti i nostalgici ritroviamo in questo quarto film, Mission: Impossible – Protocollo fantasma, i famigerati occhialini di Hunt, le maschere in lattice per i travestimenti, e ovviamente le celeberrime note della colonna sonora, riadattate da Michael Giacchino e che ripercorrono tutta la pellicola. L’idea di una nuova trilogia è evidente e fondata, dal momento che la storia convince anche se il ritmo narrativo risulta disomogeneo, soprattutto nella prima parte del racconto.
Tom Cruise è tornato in grande stile, riesce a portare avanti la sua storia personale con notevole energia e promette altre avventure ‘antigravitazionali’. Mission: Impossible – Protocollo fantasma è un film da vedere, per chi ha amato i precedenti capitoli e per chi si vuole semplicemente divertire pur senza conoscere i dettagli delle precedenti avventure di Ethan Hunt.
Polisse: recensione del film di Maïwenn
La regista francese Maïwenn porta sullo schermo la routine quotidiana della Sezione Protezione Minori (Brigade de Protection des Mineurs). A scatenare la curiosità della giovane e poliedrica transalpina verso questa tematica è stato un documentario di Virgil Vernier su questo particolare reparto: in Polisse ci sembra infatti di rivivere costantemente, a stretto contatto con gli uomini della Sezione, stralci di indagini su casi di abuso, pedofilia e delinquenza minorile. Ma la macchina da presa non si ferma a questo, vuole mostrarci ancora più chiaramente le ripercussioni emotive su Nadine (Karin Viard), Fred (Joey Starr), Iris (Marina Foïs), Mathieu (Nicolas Duvauchelle), di un lavoro che porta allo stremo persino chi è immerso in queste vicende quotidianamente.
Polisse, il film
Maïwenn riesce a far collimare perfettamente sia il lato documentaristico che quello più romanzesco. Il lavoro del cast accanto a veri agenti della Sezione Protezione Minori ha sicuramente facilitato il lavoro della regista facendo raggiungere a Polisse un alto livello di verosimiglianza in entrambi i lati. L’illusione della realtà è molto forte e coinvolge in pieno lo spettatore, il quale risulta totalmente immerso in ogni dramma che il film racconta.
Lo stile registico della giovane francese si accosta un po’ troppo a quello di numerose serie poliziesche viste e riviste in televisione. L’originalità non può di certo dirsi il punto forte della pellicola, ma nonostante tutto ne esce fuori un qualcosa di convincente ma soprattutto di coinvolgente, che porta lo spettatore ad immergersi totalmente negli orrori su cui indagano gli uomini della Sezione, ma anche a comprendere i complicati meccanismi che ci sono dietro questo lavoro.
L’unica parte che rimane confusionaria in Polisse risulta essere quella relativa alle numerose relazioni amorose all’interno del nucleo. Queste porzioni di pellicola avrebbero dovuto lasciare più spazio all’azione documentaristica del film. Maïwenn ed il suo Polisse ha sicuramente meritato il Prix du Jury a Cannes e un riconoscimento ancora maggiore lo otterrà sicuramente dal consenso del pubblico che lo vedrà in sala dal 3 Febbraio 2012.
L’arte di vincere – Moneyball: recensione del film con Brad Pitt
L’arte di vincere – Moneyball, regia di Bennett Miller, racconta di un sogno, di una scommessa fatta contro un sistema solido e chiuso, di un uomo coraggioso che voleva più della vittoria, voleva stravolgere il suo mondo, quello del baseball.
La trama di L’arte di vincere – Moneyball
L’arte di vincere – Moneyball è la storia di Billy Beane (Brad Pitt) che nella stagione del 2002 è stato general manager degli Oakland Athletic’s e si è trovato a dover rifondare la squadra senza soldi e con tre dei giocatori migliori ceduti a società più importanti. Contro tutto e tutti Billy si affida a Peter Brand (Jonah Hill), giovanotto goffo di movimenti ma agilissimo di mente, laureato in economia a Yale, e con lui costruisce una squadra servendosi di un metodo molto poco ortodosso.
Un metodo numerico, basato sulle percentuali di successo e le caratteristiche singole del giocatore. Beane e Brand andranno dunque contro la grande tradizione del baseball, raccogliendo mezzi giocatori, alcuni troppo vecchi, altri troppo giovani e irrequieti, altri ancora infortunati, e formeranno una squadra che riuscirà a sfondare il muro delle vittorie consecutive.

Un duo di irresistibili protagonisti
L’arte di Vincere – Moneyball ci trasporta quindi nel mondo del baseball scandagliandolo con attenzione, dilungandosi nei dettagli squisitamente tecnici, una vera gioia per gli appassionati. Non c’è da stupirsi quindi se il film ha ricevuto diverse candidature ai prossimi Oscar in un Paese in cui il baseball è un rito sociale piuttosto che uno sport. A gareggiare per la statuetta non è solo il film stesso, ma i suoi protagonisti.
Prima di tutto Brad Pitt, nei panni di Billy, è disgustosamente convincente mentre sgranocchia, divora, mangia e ingurgita tutto quello che si trova a tiro sputacchiando qua e la tabacco masticato a dovere. La sua interpretazione riesce a mostrare con grande sobrietà e funzionalità le sfaccettature di un personaggio che oscilla tra l’euforia e l’ottimismo fino a cadere nei più bui antri dello scoramento.
Accanto a lui c’è il giovane Jonah Hill, candidato come migliore non protagonista, molto conosciuto in America per un certo genere di commedia demenziale, e qui invece nei panni goffi, divertenti ma a suo modo carismatici dell’esperto di economia che riesce, insieme a Billy, a cambiare il volto del baseball. E chissà che questa bella coppia non possa riservarci sorprese agli Oscar, visto che Miller ha già portato fortuna al ritrovato Philip Seymour Hoffman qui nei panni dell’allenatore Art Howe.

L’arte di vincere – Moneyball è un puro trionfo
Il film si fregia anche di un’ottima partitura musicale di Mychael Danna, già autore della colonna sonora di Little Miss Sunshine. Quello che però rende davvero prezioso questo film è la fotografia del premio Oscar Wally Pfister (Inception), che disegna l’inquietudine dei personaggi sui loro volti attraverso ombre sapientemente distribuite. Bennett Miller ci mette il resto, riservandoci una regia sobria e davvero brillante in alcune scelte di inquadratura.
L’arte di vincere – Moneyball lascia dunque la sensazione di un grande trionfo, di quelli silenziosi e duraturi, è la storia di un ‘magnifico perdente’ che con il suo sogno ha cambiato per sempre le regole. Gli appassionati di baseball lo adoreranno, gli appassionati di cinema pure.
I Muppet tornano tra noi, questa volta sul grande schermo
Il corvo remake: nuovo regista e nuovo sceneggiatore!
Arrivano aimé due buone notizie per il remake del Corvo The Crow. La prima riguarda la controversia legale sui diritti del nuovo adattamento dell’opera. E’ di ieri la notizia che la Relativity Media e The Weinstein Company hanno risolto il problema e che sono pronte ora a produrre il film.
La seconda notizie è che questo ha creato un indotto e le cose si stanno muovendo rapidamente, tanto che la pellicola ha ora un nuovo regista, F. Javier Gutierrez, e un nuovo sceneggiatore, Jesse Wigutow. L’obiettivo è quello di andare sul set in autunno. Ora non resta che aspettare notizie sul casting, vi ricordiamo che il progetto è stato abbandonato da Bradley Cooper.
Fonte: Variety
Paradiso amaro: recensione del film con George Clooney
Alexander Payne – ritorna dopo ben sette anni dal suo fortunato ed ultimo lavoro Sideways – In viaggio con Jack – con Paradiso amaro, e lo fa ancora una volta facendo incetta di nomination agli Oscar. Per certi versi in questo caso il suo merito è minore rispetto alla precedente pellicola, che sorprese molto per la brillantezza della sceneggiatura e per l’ironica malinconia che sarebbero poi diventate lo stilema prediletto del regista, autore anche di A proposito di Schmidt.
The Descentans, titolo originale del film da noi tradotto Paradiso amaro, racconta la storia di Matt King (George Clooney), un marito e padre da sempre indifferente e distante dalla famiglia. Ma quando la moglie rimane vittima di un incidente in barca nel mare di Waikiki è costretto a riavvicinarsi alle due figlie, e quindi a riconsiderare il suo passato e valutare un nuovo futuro. Mentre i loro rapporti si ricompatteranno, Matt è anche alle prese con la difficile decisione legata alla vendita di un terreno di famiglia, richiesto dalle élite delle Hawaii ma anche da un gruppo di missionari.
Elaborare il lutto
Paradiso amaro racconta dunque la dimensione tragica di un uomo difronte a degli eventi drammatici con cui irrimediabilmente deve fare i conti e che rappresenta un bivio non solo per la propria esistenza, ma anche per la sua famiglia. Alexander Payne ancora una volta dimostra di essere molto abile nel muoversi dentro questo substrato di vissuto pieno di dolore e malinconia, abile nello scrutare con il suo sguardo le difficoltà e le peripezie di una condizione così, senza togliere il dubbio di quanto essa rappresenti l’inevitabile conclusione di una strada sinuosa e difficile da attraversare.

Quello di Payne è quindi un film su un percorso da affrontare, è il tentativo di rimettere insieme un rapporto e una famiglia che fino ad ora era vissuta in totale agonia, è soprattutto l’intenzione di King (George Clooney) di voler rimediare al passato, cercando di vivere il presente e modificare il futuro, cercare di riconciliare un puzzle che è per sua stessa natura in frantumi.
Paradiso amaro si muove su un equilibrio precario
Nonostante le buone intenzioni Paradiso amaro, pur assicurandosi l’ampia sufficienza, ha alcuni lati negativi che in qualche maniera ne offuscano la brillantezza. Se da un lato colpisce il lato tragicomico che regala forse i momenti migliori della pellicola, d’altro canto sorprende nell’accezione negativa, la forzata ricerca di una drammaticità eccessiva, che rileva l’intenzione di voler commuovere a tutti i costi. In questo è lo stesso Payne a peccare, nella mancata ricerca di un equilibrio perfetto fra le due nature che compongono il nucleo centrale della narrazione, che avrebbe reso il film più sincero e più dolce.
Detto ciò, rimangono i bei momenti del film e un cast che sorprende soprattutto nelle loro protagoniste femminili, fra tutte una delle due figlie di King, Alexandra, interpretata con sincera passione da Shailene Woodley, all’altezza del compito e capace di duettare con il talento di George Clooney.
The Raven: nuovo spettacolare poster!
Entertainment Weekly oggi propone in anteprima il nuovo teaser poster americano di The Raven – Gli ultimi giorni di Edgar Allan Poe (John Cusack), la nuova pellicola di James McTeigue (V for Vendetta, Ninja Assassin) ispirata alla figura e ai racconti dello scrittore di Boston.
Alexander Payne a Roma presenta Paradiso Amaro
L’arte di Vincere – Intervista a Brad Pitt
Brad Pitt parla dei protagonisti del film L’Arte
di Vincere, per il quale lui e Jonah Hill sono stati candidati
all’Oscar (rispettivamente per Miglior attore protagonista e
Migliore attore non protagonista). Dal 27 gennaio al
cinema.
Ulteriori info nella nostra Scheda-Film
Lily Collins rinuncia al remake di La Casa
Niente remake di La Casa per Lily Collins (vista in Abduction e prossima interprete di Mirror Mirror, film ispirato aBiancaneve): l’attrice britannica ha declinato il ruolo della protagonista femminile a causa dei troppi impegni concomitanti, tra cui il tour promozionale dello stesso Mirror Mirror e la partecipazione all’adattamento di The Mortal Instruments, ennesima saga post-adolescenziale (firmata da Cassandra Clare) che dopo il successo nelle librerie americane, si prepara a sbarcare sul grande schermo.
Il remake di Evil Dead dovrà trovare dunque una nuova interprete per il ruolo di Mia, una ragazza che nel corso di una gita tra amici finisce in una casa abbandonata… ovviamente infestata, con tuttò ciò che ne seguirà (rispettando il plot dell’originale). Regista del film sarà il semisconosciuto Fede Alvarez, regista uruguayano segnalatosi per il cortometraggio fantascientifico Ataque de Panico. La sceneggiatura è stata scritta dallo stesso Alvarez, assieme a Rodo Sayagues, con l’assistena di Diablo Cody. L’inizio delle riprese è previsto per il prossimo marzo, l’uscita nelle sale per l’aprile 2013.
Fonte: Empire
Cast completo per il nuovo horror di James Wan
Si va completando il cast del nuovo vilm di James Wan (regista del primo Saw e, più recentemente, di Insidious): dopo Patrick Wilson e Vera Farmiga è la volta di Ron Livingstone e Lily Taylor. Il titolo inizialmente scelto, The Conjuring, è stato in seguito scartato e al momento non ne è stato ancora trovato un altro. Wilson e la Farmiga interpreteranno una coppia di ‘investigatori psichici’ che affronteranno il caso più terrificante della loro vita in una fattoria del Rhode Island; qui, un’altra coppia (Livingstone e la Taylor) si è trasferita coi propri figli, solo per scoprirla infestate da una presenza dmeoniaca che decisamente non li vuole trai piedi. La sceneggiatura è stata scritta Chad e Carey Hayes, sulla base del caso della famiglia Perron, raccontato dagli investigatori Ed e Lorraine Warren, negli anni ’70. Le riprese dovrebbero cominciare nel prossimo marzo.
Fonte: Empire
Lena Headey a fianco di Ethan Hawke in Vigilandia
Dopo aver trovato in Ethan Hawke il protagonista, Vigilandia – sci-fi thriller di James DeMonaco (regista le cui precedenti opere non sono granché memorabili) ha trovato anche la sua controparte femminile in Lena Headey (protagonista in Terminator: The Sarah Connor Chronicles, oltre ad aver recitato in altre serie come Game of Thrones o White Collar).
Del film, che sarà un’opera a basso costo, si sa poco: regista e produttori hanno voluto mantenere il massimo riserbo. Produttore è Jason Blum (Insidious), la cui compagnia sta attualmente lavorando a Platinum Dunes di Michael Bay. Nota anche per il ruolo della Regina Gorgo in 300 di Zack Snyder, la Headey sarà sugli schermi in autunno col remake del fumettistico Dredd.
Fonte: Empire
Catherine Zeta-Jones torna sul set per Soderbergh
Steven Soderbergh continua a portare avanti il suo nuovo progetto, un ‘thriller – farmaceutico’ intitolato Side Effect: sul fronte del cast, arriva la conferma della partecipazione di Catherine Zeta-Jones, che nel film affiancherà Jude Law, Channing Tatum, e Blake Lively. La storia ruoterà proprio attorno al personaggio della Lively, preda di ansia e depressione a causa dell’imminente scarcerazione del marito; questo stato la poterà ad assumere una grande quantità di farmaci e le cose peggioreranno ulteriormente quando intreccerà una relazione col suo medico (interpretato da Jude Law).
La sceneggiatura è stata scritta da Scott Z Burns (The Informant, Contagion). Per gran parte degli attori principali non si tratta della prima collaborazione con Soderberg: la Zeta-Jones ha recitato in Traffic, Jude Law in Contagion, Tatum ha preso parte a Haywire, e farà parte anche di Magic Mike, altro film messo già in cantiere da Soderberg. Catherine Zeta-Jones sarà presto sugli schermi nel nuovo film di Stephen Frears e nel musical Rock of Ages.
Fonte: Empire
E’ morto Theo Angelopoulos
Road to the Oscar 2012: ecco una photogallery di tutti i candidati!
Eccoli i nominati, tutti a fremere per la grande notte del 26 febbraio che incoronerà uno di loro migliore dell’anno. Cinefilos.it vi offre una gallery sintetica ma esplicativa dei nominati per questa
Oscar 2012: tutte le nomination
Oscar 2012: annunciate le categorie principali
The Iron Lady – Intervista a Meryl Streep!
In attesa dell’uscita nelle sale di The Iron Lady, la fresca vincitrice del Golden Globe come miglior attrice Maryl Streep, ci racconta il film attraverso la sua esperienza sul set. Vi ricordiamo anche la nostra recensione: The Iron Lady.
Qual è stata la sua prima reazione quando la regista Phyllida Lloyd le ha proposto di interpretare il ruolo di Margaret Thatcher?
Quando Phyllida mi ha detto che avrebbe diretto un film sulla vita di Margaret Thatcher e sulle tematiche della sua leadership, ha immediatamente stuzzicato il mio interesse. Non sono molte le donne leader e non sono molti i registi interessati a sondare cosa significa per una donna essere una leader.
Riflettere sulle barriere che Margaret Thatcher ha dovuto abbattere per diventare la Premier del Regno Uniti significava entrare nella mente di una donna di fine anni ’70, quando riuscì ad emergere e ad assumere il comando del suo partito. E io non faccio che ripetere alle mie figlie che allora il mondo era molto diverso e che tuttavia alcune cose restano molto simili.
È stato interessante seguire le orme di una donna cresciuta durante la Guerra, scoprire la Gran Bretagna del dopoguerra, un periodo di privazioni e di ricostruzione, e vedere questa donna elaborare la propria filosofia e tradurla in pratica formulando soluzioni per quelle che lei considerava delle mancanze nel benessere economico del suo paese. È stato come osservareuna persona, casualmente donna, che tenta di risolvere enormi problemi di portata mondiale in un modo del tutto inedito per una donna.
È entrata in un circolo per soli uomini, nel mondo dell’alta borghesia, e ha preso tutti per la collottola. A prescindere dall’orientamento politico di ognuno, lo considera un risultato significativo?
Io come attrice, arrivando il primo giorno sul set per le prove mi sono sentita incredibilmente sconfortata perché mi sono trovata in mezzo a 40-45 meravigliosi attori inglesi ed ero l’unica donna nella stanza e credo di aver provato la sensazione che deve aver provato Margaret Thatcher arrivando alle riunioni del Partito Conservatore.
I giorni delle riprese nella ricostruzione del Parlamento sono stati particolarmente interessanti: come catturare l’attenzione di un’assemblea, come coinvolgere un pubblico che ti ascolta per riuscire a convincerlo della bontà della tua scelta politica sono situazioni con cui ci misuriamo ancora oggi in quanto esseri umani.
Ho visto registe lottare nel tentativo di assumere il comando. E non siamo ancora del tutto a nostro agio con il concetto di una donna al comando. Margaret Thatcher è stata realmente una grande innovatrice nel mostrare uno dei modi in cui una donna può assumere la leadership. Non aveva grandi problemi a capire come comandare e quindi, in un certo senso, gli uomini non hanno avuto grandi problemi a capire come seguirla. Secondo me è quando una donna esita sul modo di comandare o si preoccupa di come viene percepita o teme di perdere la prima femminilità che la sua abilità al comando ne risente.
Due temi che emergono nel film sono avere l’amore e perderlo e avere il potere e perderlo. Per lei quale dei due è più importante?
Credo che la riuscita del film dipenda dal fatto che alcuni momenti salienti di forte tensione e pressione nella sua vita politica sono controbilanciati da momenti di eguale rilevanza nella sua vita privata che hanno avuto ripercussioni altrettanto grandi su di lei come essere umano nella sua totalità. Quindi abbiamo cercato di fare un film su un essere umano a tutto tondo.
Margaret sostiene che se prendi decisioni dure, la gente ti odia oggi, ma ti ringrazierà per molte generazioni. Ed è sempre in questi termini che deve ragionare un leader, ma anche una madre, che deve pensare ‘è vero, adesso la faccio soffrire e lei mi odierà per quello che le impedisco di fare, ma a lungo andare mi ringrazierà’. Penso che siano preoccupazioni simili. Se un politico ragiona a breve termine, facilmente riscuote consensi, ma è bene avere un’ottica a lungo termine.
Il film è incredibilmente apolitico. Secondo lei il pubblico ne resterà sorpreso?
Non ho iniziato a lavorare al film con un’opinione politica su Margaret Thatcher. In tutta sincerità, sapevo scandalosamente poco dei suoi programmi politici. Sapevo che erano in linea con molti dei programmi del Presidente Reagan, che conoscevo meglio, ma non con tutti.
Quindi non mi interessava tanto approfondire gli obiettivi che ha perseguito quanto il costo che le sue scelte politiche hanno avuto su di lei come
persona. Quello che abbiamo cercato di illustrare, con tutta l’accuratezza di cui siamo stati capaci, sono stati i motivi dell’odio viscerale da un lato e dell’ammirazione profonda dall’altro suscitati dalle sue decisioni politiche. Ma ci preoccupava soprattutto il prezzo che deve pagare un individuo che prende decisioni così cruciali. Quando sei un leader con un enorme carico di responsabilità, come ne risenti sul piano umano e quanta capacità di resistenza devi avere per continuare a essere forte?
Interpreta Margaret in un arco temporale di 40 anni; dev’essere stata una sfida incredibile.
Interpretare 40 anni della vita di un personaggio è una sfida, ma quando arrivi alla mia età, ti sembra di avere ancora 20 anni, quindi non è stato un grande problema. Una parte di te si sente ancora la stessa persona che eri quando avevi 16 o 26 o 36 o 46 o 56 anni. Quindi hai accesso a tutte le persone e a tutte le età che hai già vissuto. Credo sia il grande vantaggio, se ne esiste uno, di diventare vecchia.
È stata una meravigliosa opportunità. Di solito il cinema ti colloca in un periodo specifico, ma questo è un film che consente di guardare al passato di una vita intera ed è stato davvero entusiasmante cercare di farlo. Voglio però aggiungere che la creazione di Margaret anziana è anche in gran parte merito, oltre che dello splendido lavoro dei truccatori J. Roy [Helland] e Marese [Langan], della geniale metamorfosi realizzata da Mark Coulier grazie alle protesi che ha disegnato.
Qual è stata la cronologia delle
riprese?
Il secondo giorno sul set, quando ero da poco sbarcata dall’aereo dal Connecticut, parlando con questo accento, abbiamo girato la scena della riunione di Gabinetto, quando lei è all’apice del comando e al tempo stesso sull’orlo del crollo nervoso.
Per rispondere alla sua domanda, non mi hanno aiutata affatto, girando tutto il film senza alcun ordine cronologico! Ma in fin dei conti credo sia stato un bene lanciarmi subito in una scena così ambiziosa, perché mi ha costretta a rimboccarmi le maniche come un Marine e a prepararmi a combattere. E ho combattuto ogni singolo giorno delle riprese.
Ora mi sveglio tutte le mattine pensando ‘Grazie a Dio non sono la leader del mondo libero, non sono il Presidente Obama!’. Oh, che compito! Una cosa che ti resta davvero dentro dopo aver interpretato un personaggio di proporzioni shakespeariane è il senso di gratitudine. Mi sento molto modesta e scoraggiata al pensiero dello spaventoso peso che Margaret Thatcher si era presa sulle spalle. È una posizione terribile, scomodissima e devastante quella di chi deve decidere di mandare delle persone a rischiare la morte e poi la sera appoggia la testa sul cuscino. La gente pensa che non paghi alcuno scotto e considera i personaggi pubblici come dei mostri o degli dei, ma la verità è che stanno tutti nel mezzo.
Pensa che il pubblico uscirà dal cinema con un’opinione mutata di Margaret Thatcher?
Non so se gli spettatori cambieranno opinione sulle sue scelte politiche, ma se non altro capiranno meglio le pressioni che ha dovuto sopportare e le
ragioni per cui, alla fine, la risposta che lei sembrava rappresentare all’epoca è stata respinta. Penso che quanto meno arriveranno a cogliere questo. E, alla fine, dopo che la risposta che lei rappresenta viene respinta, vedranno la persona che sopravvive a tutto questo anno dopo anno e, come chiunque altro, continua a rimuginare nella sua testa ‘Cos’era che…? Ricordi questo? Ricordi quest’altro?’.
La destinazione di ogni essere umano è la stessa.
Durante le riprese, la produzione ha diffuso una sua foto sul set nei panni di Margaret Thatcher che è stata pubblicata sulla prima pagina non solo di quasi tutti i quotidiani britannici in edicola, ma anche dei giornali internazionali. Qual è stata la sua reazione?
Quando la foto è stata ripresa da tutte le agenzie in Cina, nel Sudest Asiatico e in posti che non avremmo mai immaginato fossero interessati al progetto, ovviamente i produttori si sono esaltati: forse non è solo un film per sette persone a Westminster! È stato confortante per tutti.
Ma, parlando a livello generale, credo che ci sia una porzione di pubblico cinematografico spesso sottostimata, ovvero le donne, che raramente vedono sullo schermo i personaggi che interessano loro. C’è una sete di conoscenza nei confronti di Margaret Thatcher perché è stata un’innovatrice a molti livelli. Credo che questo film avrà un pubblico molto trasversale e incuriosirà anche le persone che di solito non vanno al cinema perché l’attuale offerta cinematografica le respinge o le annoia.
La stampa ha riferito che prima di girare questo film ha visitato la Camera dei Comuni. Che tipo di visita è stata e che cosa ha imparato?
È stato meraviglioso potermi fare un’idea del protocollo e del comportamento da tenere nella Camera dei Comuni. Abbiamo avuto accesso allo spazio dietro le quinte, non so bene come si chiami, dove ci sono una serie di piccoli uffici attraverso cui i deputati entrano nella Great Hall. Mi sentivo un po’ intimidita a stare nell’aula dove si è riunito per la prima volta il Parlamento inglese nel 1066, una sala sorprendentemente piccola in realtà. È stato toccante vedere quanto è piccola a confronto dell’enorme portata dei capitoli di storia che sono stati scritti al suo interno, della statura delle personalità che quei muri hanno accolto, della grandezza delle idee che sono scaturite da quel luogo. E anche vedere quanto è intima, come i deputati siedono uno di fronte all’altro, gridando uno con l’altro o assumendo un’aria annoiata. È un luogo piuttosto antagonistico.
E poi come è stato ricreare le scene dei suoi interventi dalla tribuna?
Sono state scene ad alta tensione e per certi aspetti sono servite a farmi entrare nella testa di Margaret Thatcher. Era una delle rare donne che facevano politica all’epoca. Ce n’erano altre, ma lei è stata una delle pochissime a raggiungere il vertice.
E non ci è riuscita promuovendo la sua immagine sui mezzi di informazione o con qualsiasi altra astuzia adottino le persone per costruire le proprie carriere politiche nell’attuale sistema, quando meno negli Stati Uniti. Non si preoccupava di essere affabile, ma di essere competente. Doveva essere più preparata e meglio preparata degli altri, doveva prevedere tutte le domande che chiunque avrebbe potuto rivolgerle, anche quelle che nessuno avrebbe
mai pensato di farle, doveva avere una risposta per ogni cosa, perché doveva essere più brava di qualsiasi altro uomo nella sua posizione per poter mantenere la sua posizione. C’era una resistenza enorme all’idea di una donna leader.
È stato entusiasmante incarnarla. A maggior ragione dopo aver visto una serie di filmati di repertorio che mi hanno mostrato la sua prontezza, la sua preparazione impeccabile, la sua determinazione a lottare, la sua capacità nel cogliere l’occasione giusta per sferrare un attacco, sicura di vincere. Un simile appetito è elettrizzante e necessario per avere la stoffa del leader.
Quali sono le doti migliori di Phyllida?
La sua qualità più grande come regista sta nel fatto che non esiste aspetto della lavorazione di un film in cui non abbia il massimo livello di talento. È dotata di grande pazienza e di grande lucidità mentale. Non ha mai virato dal film che avevamo tutti insieme convenuto di fare, non si è mai allontanata da quella visione durante la lavorazione. Spesso il cinema è un processo creativo così singolare e viscerale che inizi a lavorare a un film immaginandolo in un modo, ma poi lo trasformi in qualcos’altro fino ad arrivare a gettare la spugna e ad ammettere che ti è sfuggito di mano ed è diventato un’altra cosa.
Ma a noi questo non è successo, grazie allo sforzo che abbiamo fatto per mantenere gelosamente la sua visione. È incredibilmente coinvolgente: ti sollecita e ascolta qualsiasi proposta collaborativa tu le faccia e spesso ne tiene conto, anche se questo non la porta a modificare la destinazione originale del film che ha in mente. Sono molto fiera del fatto che tutti noi siamo arrivati alla stazione a cui avevamo previsto di scendere, perché è un risultato raro. Il cinema è una forma d’arte collaborativa, quindi può partire in molte direzioni diverse. Ma noi abbiamo avuto un grande sostegno da parte dei nostri produttori, dalla Pathé e dagli altri investitori. Ci hanno appoggiato in quello che abbiamo cercato di fare.
Al centro del film c’è la storia d’amore tra Margaret e Denis, altro personaggio affascinante, magistralmente interpretato da Jim Broadbent. Com’è stato lavorare con lui?
Ha un grandissimo senso dell’umorismo e, anche in molti dei ruoli più seri che gli ho visto interpretare, ha il talento dell’ironia e della comprensione empatica, due doti molto toccanti. Denis Thatcher è stato spesso dipinto all’opinione pubblica come una sorta di pagliaccio. E il profilo della sua veste pubblica è stato uno degli aspetti del personaggio, ma sapevamo che Jim avrebbe ancorato il suo protagonista in un substrato di spessore e comprensione della sua maschera di comicità, indagando sul ruolo che il suo senso dell’umorismo ha avuto nel vivacizzare la sua vita e quella di Margaret e sull’importanza della presenza in una coppia di uno disposto ad alleggerire le tensioni ridendo e scherzando. Penso che gran parte degli atteggiamenti nei confronti di Denis fossero dettati dal fatto che la sua posizione destabilizzava molte persone, uomini e donne. Era scioccante vedere una donna Capo di Stato e a quel punto lui cos’era? Il Signor Marito di…? Come potevano definirlo? Il “first husband”? Che cos’era?
In questa fase dell’evoluzione della specie umana solo adesso ci stiamo abituando ad accogliere queste nuove posizioni dei generi sessuali. Secondo
me lui era satireggiato, ma non sembrava provarne risentimento e questa sua reazione è stata davvero straordinaria. So che Jim Broadbent è arrivato sul set con un forte pregiudizio nei confronti di Margaret Thatcher e della sua politica. E man mano che abbiamo interpretato la vecchia coppia di coniugi, credo che abbia un po’ modificato la valutazione, non tanto del suo premierato o del suo operato politico, quanto del suo presunto lato umano che forse ha accettato di più. Di sicuro ha accettato me come attrice che vestiva i suoi panni: ho sentito da parte sua un affetto autentico e un sincero sgomento per la vita che era stata riservata loro.
Prima dell’inizio delle riprese ha passato un po’ di tempo con Alexandra Roach?
Alexandra Roach interpreta Margaret Thatcher giovane. Si è discusso molto di come fare assomigliare il suo incantevole nasino all’insù al mio, ma lei è stata al gioco! È un’attrice davvero incantevole. Ho trovato meraviglioso il rapporto che ha costruito con Harry, che interpreta Denis giovane. Hanno entrambi dedicato un’estrema cura al tentativo di dare ai due personaggi giovani il sapore dei due personaggi anziani. Hanno realmente fatto un ottimo lavoro.
Richard E. Grant si è divertito dicendo che i signori che la circondavano, i suoi colleghi di Gabinetto, erano come palline di naftalina di equità.
No, no, non pallina di naftalina. Li ha definiti falene, falene che circondano una sorgente di luce. Posso dire che Richard E. Grant si diverte in qualunque situazione. È una compagnia simpaticissima. Tutti quei signori sono stati fantastici con me, mi hanno accolta in un territorio a cui io non appartengo, essendo un’intrusa, un’americana.
Ma in un certo senso sono stata incoraggiata a interpretare Margaret Thatcher proprio per il fatto che lei stessa era un’intrusa in quel Partito Conservatore fatto di parrucconi laureati a Oxford e Cambridge in cui lei marciava imperterrita. E io ho pensato: se ce l’ha fatta lei, posso farcela anch’io.
E Anthony Head nei panni di Geoffrey Howe?
Un personaggio fondamentale. Per Margaret Thatcher rappresentava una roccia, una voce giudiziosa, una persona su cui poter sempre contare e quando alla Camera dei Comuni Geoffrey Howe si alzò e diede le dimissioni, ogni cosa precipitò verso la fine.
Anthony è un attore magnifico, estremamente affascinante sul piano personale, che qui interpreta splendidamente e con grande umiltà un uomo senza pretese, facendone un ritratto bellissimo. Percepisci il suo dolore e il suo disappunto. Era molto importante consentire un’identificazione con ogni singolo deputato e con la sua personalità. Ogni attore è arrivato sul set con una biografia esaustiva della persona che avrebbe rappresentato, non per cercare di imitarla, ma per tentare di incarnare qualche verità di quella persona e del ruolo che ha avuto in questa tragedia..
Qual è stato l’aspetto più bello della realizzazione di questo film?
Sicuramente l’opportunità di guardare una vita intera, perché nella fase della vita in cui sono io capita di guardarsi alle spalle e di ripensare a tutta la propria storia. A volte è sconvolgente quanto una vita può essere grande e piena di eventi che nel momento in cui li stai vivendo sembrano molto importanti.
Poi però ti rendi anche conto che quello che conta davvero è il presente, quello che vivi adesso, nel preciso istante e nel luogo in cui ti trovi a viverlo. E si può argomentare che l’unica cosa importante è vivere intensamente la propria vita nell’esatto momento in cui ci si trova e che è questa la cosa più difficile che esiste al mondo. In fondo è il principio del Buddismo Zen, vivere intensamente il qui e ora, sentirlo, esserci fino in fondo.
Quando siamo giovani, ognuno di noi dichiara quello che non farà mai, ma poi seguiamo tutti lo stesso destino, abbiamo tutti un inizio e una fine. È un’ambizione insolita per un film puntare l’intera narrazione verso quel momento, il momento della fine. Di solito un film tende verso un apogeo, un’aspirazione alta. Qui invece guardiamo un distillato di cosa significa aver vissuto una vita enorme, esagerata, intensissima e vederla poi sprofondare. Insomma, è poesia, non trova?