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Sherlock Holmes: recensione del film di Guy Ritchie

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Sherlock Holmes: recensione del film di Guy Ritchie

Quando si parla di romanzi al cinema si tende a storcere sempre un po’ il naso, qualche volta il fedele lettore resta deluso, altre volte lo schermo non rende davvero giustizia ai personaggi di carta e inchiostro. Peggio ancora quando si tratta di classici di grande seguito e tradizione rivoluzionati per aspetto e caratteristiche. Tuttavia non è il caso dello Sherlock Holmes di Guy Ritchie, un bel film, nient’altro da dire, in perfetto stile del regista.

Il nostro Sherlock egregiamente impersonato da Robert Downey jr. nella sua seconda giovinezza offre un ritratto convincente avvincente e irriverente dell’investigatore privato più famoso di sempre, nato dalla penna di Sir Artur Conan Doyle, affiancato dal fedele e mai come ora intrigante Dottor Watson, un Jude Law in gran forma. Ottimo duetto dunque che si completa e si equilibria con una ironia leggere e mai fuori luogo. Sono proprio loro la forza del film, la loro alchimia, il loro essere vicendevolmente d’aiuto all’altro, il loro rispecchiare un rapporto d’amicizia che a scanso di accuse varie di omosessualità latente non ha paura di mostrarsi nella sua genuina sincerità. Tutto questo a scapito però dei personaggi secondari, le donne in particolare, che ci sono ma risultano un decor quasi trascurabile.

Ritchie sottopone al pubblico,com’era già stato annunciato, un Sherlock Holmes intatto nelle sue facoltà deduttive ma decisamente più sporco, prestante ed eccentrico di quello che eravamo abituati a pensare. E lo stesso trattamento è stato riservato a Watson, non più composto medico sottomesso seppur apprezzato,ma compagno, spalla e qualche volta artefice. Ma Guy Ritchie fa di più, non solo fa uscire il mito fuori di sé con la già citata operazione di “svecchiamento”,ma lo riconduce alle sue origini. Niente è davvero profondamente diverso dal romanzo: lo Holmes di Conan Doyle alterna periodi di eccessiva attività mentale a periodi letargici, è abile nei travestimenti, è irriverente verso le istituzioni ma sempre a loro fa riferimento, mantenendosi sul filo di ciò che è lecito. E tutto questo Ritchie ce lo mostra senza i filtri che la penna di Doyle ha avuto considerando i tempi. Il regista offre uno spettacolo a suon di pugni allo spettatore contemporaneo, ma allo stesso tempo strizza l’occhio al fedele lettore (ad esempio inquadrando l’insegna di Baker Street, o il numero 221b della stessa strada) dando equilibrio ad un film che si lascia vedere nonostante il sostanzioso numero di minuti.

E’ un po’ quello che è successo James Bond, quando invece di un attore bello ed elegante, è stato interpretato dal forzuto e un po’ trucido Daniel Craig, un cambio di rotta decisamente azzardato ma riuscito.

Sherlock Holmes – il montaggio riesce a tenere alta la suspense

Assolutamente ben fatte le scene d’azione, il montaggio riesce a tenere alta la suspense anche se alcuni tratti del film risultano prolissi. Per quanto riguarda la trama, l’esoterismo massonico di sottofondo ricorda vagamente le trama di From Hell che viene rievocato anche nell’ambientazione ma che non lasciano spazio a nessuna credenza extra sensoriale. Tutto è spiegato con la scienza e con qualche trucco da prestigiatore, il resto lo fa l’uomo, con le sue paure.

Scritto bene e recitato ancora meglio, lo Sherlock Holmes di Ritchie è sicuramente un film da vedere che lascia spazio a possibili sequel che forse inaugurerà un nuovo filone alternativo a quello dei cinefumetti.

Dorian Gray: recensione del film con Colin Firth

Dorian Gray: recensione del film con Colin Firth

Dorian Gray è un film che vuole sottolineare la sua autonomia rispetto all’opera da cui è tratto a partire dal titolo: il film di Oliver Parker è infatti ispirato al capolavoro dell’eccentrico Oscar Wilde, Il Ritratto di Dorian Gray, ma ne prende le distanze poiché volto a sottolineare gli aspetti più vari del personaggio di Dorian.

Se il romanzo muoveva dal ritratto e lasciava immaginare al lettore i vizi del protagonista, senza mai esplicitarli (ad eccezione di un delitto molto rilevante da lui commesso), il film è incentrato totalmente sulla figura di Dorian. Apprendiamo diversi aspetti del suo passato e tangibile è la sua evoluzione: ingenuo ventenne egli diventa poi un uomo corrotto dedito al piacere che maturerà infine la distinzione tra piacere e felicità.

Sedotto dalle parole di Lord Henry Wotton, Dorian Gray deciderà di vendere l’anima pur di conservare in eterno bellezza e giovinezza: a invecchiare è il suo ritratto, che riporterà tutti i marchi della sua progressiva depravazione. Il ritratto è una presenza oscura il cui orrore è intuibile per gran parte del film, per poi essere esplicitato in scene molto efficaci. Molte inquadrature adottano il suo punto di vista quando è l’anima di Dorian a scrutare dopo essere indagata. Originale e di forte impatto la scelta di rendere il ritratto una creatura viva e orripilante, che marcisce ed emette spaventosi suoni: di grande suggestione l’uso degli effetti speciali, soprattutto nel finale che lascia un po’ stupito lo spettatore (e l’appassionato del romanzo).

Dorian Gray è un dark come previsto, con una nota horror accentuata

Il film è dark come previsto, con una nota horror accentuata. Le scenografie, gli ambienti vittoriani e la fotografia fredda e cupa contribuiscono a rendere più tenebrosa la vicenda narrata. Il tono dark è evidenziato anche dalla suggestiva colonna sonora composta da Charlie Mole, mentre l’accurata ambientazione è consolidata dagli ottimi costumi d’epoca di Ruth Meyers. Dorian Gray non è però un’opera esente da difetti: la prima parte è certamente superiore alla seconda, nella quale la sceneggiatura prende maggiormente le distanze dall’opera di Wilde; a partire dal personaggio inventato di Emily Wotton sino al finale, di certo spettacolare ma anche un po’ distante dal romanzo. Degna di nota è anche un’anticipazione narrativa: il delitto commesso da Dorian avviene molto prima del previsto e non nell’ultima parte della vicenda, come nel romanzo.

Ma Dorian Gray non può essere apprezzato se paragonato al capolavoro di Wilde: bisogna guardarlo come un’opera a sé. È però opportuno sottolineare che lo spirito del romanzo è conservato nel film e che trovano spazio anche gli aforismi più amati. Il protagonista non sarà biondo e dagli occhi azzurri come nell’opera originale, ma ha gli occhi e il volto di Ben Barnes, che di fascino non manca: e l’obiettivo di Parker è proprio quello di insistere sull’idea che gli ideali della bellezza mutano con il tempo, ed è per questo che Dorian Gray è un giovane dagli occhi e capelli scuri. Tuttavia, come il film insegna, non bisogna soffermarsi sull’aspetto: per questo è necessario riconoscere che la prova di Ben Barnes supera certamente  le aspettative. Il giovane attore è espressivo e incarna perfettamente il Dorian ingenuo e corrotto poi.

Notevole anche l’interpretazione di Colin Firth: Henry Wotton è di certo un personaggio che si discosta dai ruoli interpretati da lui in passato, ma l’attore si dimostra assolutamente all’altezza del mordace e filantropo tentatore che influenza Dorian. Buone anche le prove di Ben Chaplin, ovvero il pittore Basil Hallward, e Rebecca Hall (Emily Wotton). Al di là del tema dell’immortalità, sempre attuale e riprodotto nel film come nel libro (“Sono un dio”, dice Dorian), Dorian Gray è quindi un film che sarà apprezzato da chi non indugerà nel paragone con il romanzo. Certamente non è un film che lascia indifferenti, ma che susciterà impressioni positive o negative a seconda dello spettatore. E come ci ricorda Oscar Wilde: “Vi è solo una cosa al mondo peggiore del far parlare di sé, ed è il non far parlare di sé”.

Triage: recensione del film con Colin Farrell

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Triage: recensione del film con Colin Farrell

A dispetto dello scorso anno, nel 2009 Roma apre bene. Triage di Tanovic (premio oscar per ‘No man’s land’) racconta la storia di un fotoreporter Mark, interpretato da un Colin Farrell davvero in vena alle prese con un misterioso trauma subito in Kurdistan, mentre cercava di immortalare il reportage della vita.

Per la prima parte Triage scorre lento, senza grandi cambiamenti nel ritmo narrativo, costringendosi all’interno di schemi convenzionali, addirittura banali, nonostante la profonda esperienza che il regista ha della guerra (Tanovic è bosniaco). Le scene sono crude pur non mancando di una certa bellezza estetica, soprattutto nelle inquadrature di paesaggio, gli interpreti buoni, trai quali spicca il medico ‘di frontiera’, interpretato da Branko Djuric, già compagno di viaggio di Tanovic per No Man’s Land e ora responsabile di una performance davvero notevole, fredda e coinvolgente insieme.

Triage Uno sguardo sulla guerra da parte di chi la guerra la vive ma non la fa.

Nella seconda macro sequenza, che possiamo individuare nel ritorno a Dublino di Mark e nella progressiva presa di coscienza dei protagonisti che ‘qualcosa è cambiato’, il ritmo di Triage rallenta ancora e se all’inizio abbiamo visto l’attaccamento del protagonista al suo lavoro, adesso possiamo entrare nelle dinamiche di coppia, scoprendo un’altrettanto importante figura femminile, Helena (Paz Vega) moglie di Mark e motore dell’azione in questo frangente. Anche la Vega, come Farrell e Djuric, offre una buona interpretazione, avvalorata anche dall’uso di una lingua, l’inglese, che non è la propria.

La svolta sia tematica che stilistica avviene con l’entrata in scena di Christopher Lee, nei panni dello psichiatra franchista Joaquin Morales, nonno di Helena e intenzionato, su richiesta della nipote, a portare la guarigione nella mente tormentata del fotoreporter.

Un ritmo un po’ discontinuo che si salva verso il finale e regala un’impronta fluida al racconto pur non rendendolo eccelso. Ma se nel ritmo il film ha qualche pecca, nella sceneggiatura e nell’interpretazione ha i due punti forti. Una scrittura di dialoghi salda e precisa, funzionale ma anche lievemente sarcastica, che riecheggia nella profonda e possente voce di un Lee che si conferma una leggenda, un uomo che ha fatto la storia del cinema, ma anche la storia dell’occidente così come lo conosciamo, avendo vissuto sulla sua pelle le grandi guerre moderne, soprattutto i 5 anni del secondo conflitto mondiale.

Attori superlativi che forse vanno al di là di quello che è il valore registico, che pure regala qualche bel momento e soprattutto un finale straziante, in grado di commuovere ma anche di smuovere gli animi, un finale che ti accompagna per un po’ fuori dalla sala.

Triage – Uno sguardo sulla guerra da parte di chi la guerra la vive ma non la fa.

Planet 51: recensione del film

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Planet 51: recensione del film

Planet 51 – In un pianeta esterno alla nostra galassia, la vita prosegue placida ed ordinaria senza grandi scossoni, fino a che atterra dalla spazio profondo una navicella aliena. Da essa uscirà un temibile…..astronauta della Nasa! Questo è Planet 51: una piccola storia che potrebbe definirsi un E.T. alla rovescia. Il Captano Charles T. Baker, fascinoso astronauta americano, arriva su un pianeta sconosciuto convinto di dover piantare solo una bandierina. In realtà avrà una sorpresa, si troverà davanti ad una civiltà del tutto uguale alla nostra, solo costituita da omini verdi e simpatici: degli alieni! Solo che la sua prospettiva sarà capovolta, è lui infatti l’alieno, il diverso proveniente da un altro mondo.

Come il piccolo E.T. si deve nascondere dalla forze armate grazie all’aiuto di Elliot, così Charles sarà costretto a scappare dalle autorità locali che vogliono rinchiuderlo nella base 9 (tipo la ‘nostra’ area 51?).

Planet 51: una piccola storia che potrebbe definirsi un E.T. alla rovescia.

Ancora una volta il cinema, questa volta quello d’animazione, ci sottopone ad un grave problema sociale, quello della xenofobia, raccontandoci una storia dai toni leggeri e non molto pretenziosa, infarcita di citazioni e che spesso tocca la retorica più bassa in diversi dialoghi. Il film affronta l’argomento che dovrebbe essere quello centrale con un distacco che a volte sfugge e senza la dovuta profondità concettuale che altri prodotti dello stesso genere sono riusciti a dare. La retorica dei contenuti però non impedisce un buon tratteggiamento dei personaggi, qelli secondari e ‘non umani’ soprattutto, mi riferisco a Rover, la sonda spaziale spaventosamente simile al famosissimo Wall-E, e ovviamente al cucciolo di cane alieno, un piccolo Alien in miniatura che conserva sia le caratteristiche fisiche del mostro di Cameron (forma della testa, corrosività dei liquidi corporei) sia quelle caratteriali (vedi la sorte del povero postino).

Un film senza pretese che offre ugualmente degli spunti di ilarità e di interesse, se non altro (per i cinefili) quello di rintracciare le varie citazione di cui il film è pieno, da quella banale dell’atterraggio con la colonna sonora (auto-cantata dall’astronauta) di 2001: Odissea nello Spazio, a quella palese di E.T. (la fuga in bicicletta), a quella un po’ più ricercata di Non aprite quella porta nel finale.

Nonostante la modestia del progetto e del risultato finale Planet 51 è da considerarsi un prodotto coraggioso almeno per quello che riguarda l’aspetto produttivo (coproduzione Spagna/Uk/USA), infatti nessuna delle grandi Major imperanti nel settore dell’animazione, vedi Pixar o DreamWorks, ha collaborato al progetto.

Nemico pubblico: recensione del film con Christian Bale

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Nemico pubblico: recensione del film con Christian Bale

Nemico pubblico – Il digitale è nato come la strumento della diretta, sfrutta l’immediatezza dell’immagine. Poi arriva Michael Mann, e tutto quello che si studia sul digitale come mezzo economico per realizzare un film di bassa qualità va in fumo. Perché Mann con il digitale ci ha realizzato Collateral, Miami Vice ed ora arriva Nemico Pubblico, il suo film forse più personale più aperto alla sperimentazione, ma allo stesso tempo un film che rivoluziona il modo di guardare al cinema e al genere in particolare.

La storia è quella famosissima oltreoceano di John Dillinger, un criminale specializzato nelle rapine in banca che nei primi anni ’30 ha fatto tremare le istituzioni americane. Ma questo Dillinger che Mann ci dipinge con la sua spettacolare fotografia sgranata è un po’ più articolato, complesso rispetto alle sue precedenti rappresentazioni. Mann è partito dalla fine, da quando il bandito John deve ricominciare la sua vita dopo un lungo periodo di reclusione. E lui scegli di raccontarlo alla vecchia maniera, come fosse un western. Un uomo prima di tutto, un duro che si atteggia a divo, ma che nella realtà ha ispirato in prima persona la costruzione della figura divistica negli anni dello star system.

Nemico pubblico – Mann ha riportato sulla schermo la figura mitica del crimine

Nemico pubblicoMann ha riportato sulla schermo la figura mitica e umana attraverso un incredibile Johnny Deep che nelle corde oscure del bandito ha trovato le sue, offrendo in questo modo un’interpretazione davvero convincente che affascina e si confà alla figura carismatica che ci viene presentata. Una persona carismatica dunque ma anarchica, che si scontra sia con la criminalità organizzata che ovviamente con la legge, impersonata da un bravissimo Christian Bale nei panni di Melvin Purvis, l’agente speciale che ha dato la caccia a Dillinger. Una recitazione sommessa fatta più di silenzi e sguardi che di parole che si aggiunge alle già numerose rilevanti interpretazioni di Bale. Ma chi brilla davvero in un universo di uomini è Marion Cotillard, semplicemente eccezionale nei panni della donna del bandito Billie Frechette: se qualcuno avesse avuto dubbi sul fatto che il suo Oscar fosse stato assegnato agli strati di trucco in La Vie en Rose, adesso deve ricredersi. Marion riesce ad essere potente e fragile, bella e crudele mantenendo le sue sembianze delicate.

Quello che però lascia un po’ l’amaro in bocca è una scrittura non troppo perfetta. A tratti apparentemente poco attenta a quelli che sono i nodi del racconto, sicuramente una sceneggiatura meno rarefatta avrebbe dato i giusti accenti ad una storia intrigante e ad un personaggio di tutto rispetto e di grande spessore. Peccato anche per l’aspetto musicale del film, che se nel finale regala insieme ad un sapiente montaggio attimi di reale suspense, nel corpo del film è estremamente rarefatta e quando compare, lo fa con prepotenza violentando il corso delle immagini.

Nonostante questo, Nemico Pubblico è un’esperienza visiva totale; la ripresa in digitale da l’impressione non  di un film d’epoca, ma di essere esattamente lì, nel 1934, con Dillinger e la sua gang rabbiosa e anarchica ad accumulare denaro senza mai curarsi del futuro, ed è esattamente ciò che Mann voleva accadesse. Proiettare lo spettatore nella storia, fargli vivere tutto ciò che è davvero successo, negli stessi luoghi che nel tempo sono diventati quasi leggendari, fargli assaggiare quasi l’odore della polvere da sparo che copiosamente viene utilizzata lungo tutto il film.

Una pellicola forse leggermente al di sotto delle aspettative, ma che surclassa i generi e le definizioni aprendo ancora una volta una sperimentazione visiva e concettuale del cinema laddove si credeva fosse stato già detto tutto. E questo tipo di rivoluzioni spettano soltanto a chi, come Mann, conosce profondamente il cinema e per questo è in grado di modificarne i codici.

Brotherhood: recensione

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Brotherhood: recensione

Brotherhood – Tutti ne parlano, nessuno ne racconta. L’omosessualità è senza dubbio un tema inflazionato e talvolta banalizzato. Ecco che dalla Danimarca arriva un piccolo gioiello e ogni racconto visto o ascoltato in precedenza sullo stesso tema diventa banale. Brotherhood di Nicolo Donato racconta la storia di due ragazzi, Jimmy e Lars, che si uniscono ad un gruppo di neo-nazi, salvo poi scoprire tra loro una passione ardente e autentica che collide violentemente con l’ideologia che i due dovrebbero abbracciare. La scelta sarà presto inevitabile: seguire i propri sentimenti o scegliere il gruppo?

BrotherhoodBrotherhood, con una gestazione di quattro anni, arriva al Festival di Roma sorprendendo ed emozionando, ma soprattutto facendo riflettere sul tema dell’ identità sessuale, ma anche su quello più profondo della scelta, del cambiamento della vendetta e della punizione. Brotherhood è un film fatto bene, costruito con attenzione e diligenza, con una fotografia notevole e degli interpreti eccezionali. Vince il Gran Premio della Giuria e Marc’Aurelio d’oro.

La trama di Brotherhood segue linee guida apparentemente convenzionali ponendo nella parte finale l’accento sulle conseguenze delle proprie scelte e delle proprie azioni presenti e passate. Con un misto di delicatezza narrativa e durezza delle immagini e dei temi trattati il film di Donato arriva al cuore e al cervello spingendo oltre la naturale organizzazione narrativa riguardo ai film sull’omosessualità che si vedono in giro. E’ prima di tutto una storia di crescita, una storia d’amore, una storia dura che svolta nel finale in maniera tanto interessante quanto inaspettata anche se annunciata.

Le conseguenze delle proprie azioni si pagano nel bene e nel male, si esce cambiati dai traumi della vita, ma tante volte la sofferenza non riesce a scalfire quelle che sono convinzioni assurde e tante volte simulate, il rimorso non attecchisce lì dove non c’è terreno fertile e tante volte l’amore si trova nei momenti, nei posti e con le persone mai immaginate.

Tutto questo è Brotherhood, un ritratto bellissimo di una storia d’amore.

Julie & Julia: recensione del film con Meryl Streep

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Julie & Julia: recensione del film con Meryl Streep

Julie & Julia – Con l’età si cambia, e nel mondo del cinema spesso si ci adatta a quello che viene offerto, soprattutto se sei un attore e in particolar modo se si tratta di una donna. Questa regola non vale per Meryl Streep che ha saputo fare degli ultimi anni a degli ultimi film veri e propri successi di pubblico e critica, pur non trattandosi di film ‘impegnati’.

La Streep si è infatti data con risultati eccellenti alla commedia, ed ecco, dopo Il Diavolo Veste Prada e Mamma Mia!, nei panni della cuoca più famosa d’America, Julia Child, nell’ultimo film scritto e diretta da Nora Ephron, presentato in anteprima al Festival di Roma per celebrare il Marco Aurelio d’Oro alla carriera che Meryl ha ricevuto per l’edizione 2009. Julie & Julia racconta le storie parallele di Julia (la Child) quando comincia ad appassionarsi alla cucina e scrive il suo libro di cucina francese per la casalinghe americane, e di Julie segretaria che 50 anni dopo gli inizi della Child, decide seguendo la sua ispirazione di realizzare in un anno tutte le ricette del libro di Julia.

Bravissimi attori (con la Streep si ricordano un elegante Stanley Tucci ed una sempre più brava Amy Adams) e storia interessante basata sulle scelte che possono cambiare la vita, sulle dinamiche matrimoniali e sull’amore che si prova per ciò che si fa, non riescono a fare dell’idea un grande film soprattutto per la durata eccessiva, due ore, che a tratti sembra non sussistere affatto lo svolgimento degli eventi, qualche volta addirittura stentati. La regia della Ephron è discreta, anche troppo e non valorizza la materia prima che ha avuto a disposizione.

I due episodi si differenziano per ritmi e esiti espressivi: tanto è spumeggiante e godibile quello della Streep, tanto è abbastanza prevedibile e scontato quello che vede protagonista la pur brava Adams.  Tuttavia Meryl non sbaglia un colpo, ancora una volta offre una prestazione eccellente, confermandosi l’attrice migliore del momento (uomini compresi), sopra le righe e vagamente eccentrica la sua Julia è vivace e vagamente isterica, appoggiata con classe e discrezione da quell’ottimo attore che si conferma essere Stanley Tucci, nel ruolo di Paul Child, marito di Julia.

Tratto da una storia vera e da due libri: Julie & Julia di Julie Powell (il personaggio di Amy Adams e da My life in France della stessa Julia Chirl, Julie & Julia è un film godibile, per due ore di buon cinema e sorrisi, senza esagerare però…
Curiosità: un bel cammeo di Dan Aykroyd.

Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo: recensione

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Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo: recensione

Prima la notizia dell’inizio di un nuovo film, poi qualche foto, poi la notizia shock (l’attore protagonista muore durante una pausa dalle riprese), poi ancora le voci: “il film si finirà!”, le prime immagini, il trailer, l’anteprima mondiale a Cannes e poi il grande annuncio per gli aficionados del Festival di Roma: Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo proiettato in anteprima italiana nell’ambito dell’omaggio a Heath Ledger.

Il grande giorno infine è arrivato e il pubblico è accorso numeroso ad osannare non solo la memoria di Heath, ma ad accogliere calorosamente la delegazione, Terry Gilliam e (l’altissima) Lily Cole. Saluti di benvenuto, applausi e luci spente: la lunga attesa è finita.

Il dottor Parnassus (Christopher Plummer) è un uomo vecchissimo, capo di una bizzarra compagnia di ambulanti che gira per le strade di Londra con il suo Carrozzone: l’Inmaginarium. Ma ci accorgiamo subito che qualcosa non va, qualcosa di strano si nasconde dietro un specchio magico al centro del palco di Parnassus, una porta verso altri mondi, dove le sembianze umane cambiano a seconda dell’animo della persona che viene trasportata all’interno.

Alla compagnia si aggiunge presto un nuovo elemento, Tony, un giovane che è stato ripescato dal London Bridge, dove penzolava da una forca. Che sia buono o cattivo, Tony si unisce a Parnassus e qui comincia il suo viaggio. La grande curiosità del pubblico è stata infine soddisfatta. Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo di Terry Gilliam, pur non godendo della luce di un prodotto eccelso, riesce a catturare ed affascinare, le scene di una Londra umida e triste, nella povertà del carrozzone di Parnassus assumono un fascino particolare e la storia misteriosa riesce a far scorrere via le due ore del film con facilità.

Pur risultando confuso nella trama soprattutto nella parte finale, Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo è un bel film, tripudio di effetti speciali che hanno colmato delle difficoltà di produzione che sono insorte durante la lavorazione a causa dell’accidentale morte di Ledger. Ma a dimostrazione che l’industria cinematografica ha ancora un anima, sono accorsi tre amici di Heath, Depp, Law e Farrell, a sostituire l’amico e a dargli il volto nei diversi mondi che il suo personaggio attraversa.

Gilliam è stato chiaro durante la conferenza stampa: le modifiche alla sceneggiatura sono state minime dopo la traumatica interruzione, ma il dubbio resta, qualcosa di poco organico permane alla fine del film che lascia un po’ l’amaro in bocca, forse determinato dalle altissime aspettative. Il tripudio di colori e le grandi interpretazioni tuttavia restano, facendo di Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo un film che si ricorderà, per la sorte assurda toccata al protagonista, per la storia, in profondità crudele e involontariamente profetica, per la dimostrazione che nonostante il cinema sia sempre più un’industria e non una fabbrica di sogni, esiste ancora un’anima in un lavoro ritmato dai numeri del guadagno.

La scritta finale, quasi come un epitaffio recita: un film di Heath Ledger e dei suoi amici, omaggio che Gilliam ha sottolineato definendosi soltanto il realizzatore di un prodotto che era stato pensato esattamente in quel modo dall’attore australiano.

American Prince/American Boy – recensione

American Prince/American Boy – recensione

American Prince/American Boy: a Profile Of Steven Prince; è questo il titolo completo del documentario evento della IV edizione del Festival internazionale del film di Roma per la sezione L’altro cinema – Extra diretta da Mario Sesti.

L’hanno ribattezzato il film ‘perduto’ di Martin Scorsese, un omaggio all’amico Steven Prince che ebbe una piccola parte in “Taxi Driver”. Tutto parte nel lontano 1978 quando Scorsese gira un lungo documentario, “American Boy: A profile of Steven Prince”, un’interminabile nottata hippy in cui Steven racconta la sua vita di eccessi, sospesa tra anfetamine, alcool, donne e loschi figuri. Di lì il silenzio, durato oltre trent’anni ed oggi l’opera nascosta del regista italo-americano, che fece di Prince un’icona pop a cui anche Tarantino si sarebbe ispirato in “Pulp Fiction” (nella scena in cui una Uma Thurman in overdose si risveglia grazie ad un’improvvisata iniezione di adrenalina),  viene riportata alla luce da Tommy Pallotta, che ne riprende il viso in primo piano dopo tanti anni, ma che tutto sommato non sembra poi così cambiato, esclusi i capelli bianchi e un po’ di rughe; al tempo nemmeno uno stravagante come lui può sfuggire. Il nuovo documentario alterna alle testimonianze di oggi alcune immagini di ieri dirette da un Martin Scorsese ben vestito, dalla barba lunga e i capelli gellati.

Il risultato è un viaggio nella vita di Prince che a tratti sembra la copia spudorata di una sceneggiatura, che ha nell’incredibile il suo forte e nella “fottuta fortuna”  del protagonista il surreale. Se non fosse che non è una sceneggiatura e quella non è una vita inventata. Seduto alla poltrona, bevendo un bicchiere di vino dopo l’altro il protagonista affronta i meandri della mente rievocando il suo passato sostenendo che la vita va presa al volo e che l’oggi è più importante del domani. Il tutto con la stessa follia e la stessa spensieratezza del Prince di Scorsese, come se in qualche modo il trascorrere del tempo non lo abbia nemmeno sfiorato.

The Warrior and The Wolf – recensione

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The Warrior and The Wolf – recensione

The Warrior and The Wolf  – Una guerra antica nelle regioni sperdute e inaccessibili della Cina imperiale spinge un esercito a sostare, durante un rigido inverno, in un paesino fantasma, abitato solo da mistici e forse da un popolo maledetto.

Le premesse per un film epico e misterioso ci sono tutte, e per certi versi The Warrior and The Wolf di Tian Zhuangzhuang offre una visione magnificente e disperata dell’uomo continuamente in lotta con se stesso, con il suo dovere e con la natura ostile, sia in forma per così dire metereologico, sia in forma mistico-magica, una caratteristica difficile da considerare realistica per l’occidente ma che nella mentalità e tradizione orientale appartiene agli interstizi della quotidianità.

The Warrior and The Wolf La storia di The Warrior and The Wolf  si basa su pochi elementi: la fedeltà del lupo verso il compagno che si sceglie per la vita, la storia della Cina imperiale e delle sue guerre per sedare le rivolte, la tradizione e l’onore del guerriero che sono fondamentali per quelle culture.

Lang Zai Ji, questo in titolo originale della pellicola, è una storia affascinante che forse non viene raccontata con la giusta chiarezza, una trama non perfettamente lineare e non completamente strutturata lascia lo spettatore in uno stato di confusione. Ma quel che davvero inficia la buona riuscita del film è la cattiva delineazione delle dinamiche interne tra i personaggi, ad esempio non sono chiari i rapporti tra il protagonista e il generale Zang, prima di riluttanza poi di dedizione, e allo stesso modo la relazione di amore/odio con la bella Maggie Q. non viene chiarita, non si spiegano le dinamiche del cambiamento né se ne danno motivazioni sostanziali.

The Warrior and The Wolf di Tian Zhuangzhuang offre una visione magnificente e disperata dell’uomo

Tuttavia The Warrior and The Wolf resta una bella esperienza visiva: le scene di battaglia, magnificamente costruite; i paesaggi sterminati dal fascino antico; anche le riproduzioni digitali dei lupi sono notevoli e il fascino che quest’animale esercita sulla cultura di ogni tempo è innegabile, eterno cattivo nelle favole al cinema è sempre dipinto come bestia nobile e schiva. Forse proprio per questa caratteristica di monogamia, l’uomo ne ha particolare considerazione sentendolo in qualche modo simile a sé.

The Warrior and The Wolf – in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma, Lang Zai Ji, è un unicum nella storia del concorso, una storia dal sapore antico e maledetto che però non viene espressa secondo tutte le sue potenzialità.

Oggi Sposi: recensione del film

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Oggi Sposi: recensione del film

C’era un volta la commedia all’italiana, oggi non c’è più. Luca Lucini con Oggi Sposi tenta la titanica impresa di riportare alla luce quello che di più caratteristico c’era nel nostro cinema passato: l’amarezza del sorriso, la caricatura e la critica alla società ipocrita. Il risultano non è pienamente riuscito anche se qualche spunto interessante c’è e viene colto parzialmente soprattutto se coinvolti sono Michele Placido e Luca Argentero, il cui episodio dei quattro, è senza dubbio il più divertente.

Tuttavia Oggi Sposi non brilla per acutezza, pur rappresentando una valida alternativa al cine-panettone che più ridanciano è senza dubbio più volgare e meno costruito. Oggi Sposi si avvale anche di buoni attori che si calano bene nei personaggi stereotipati e che danno verve a storie un po’ deboli, basti come esempio l’esasperata soubrette svampita di Gabriella Pession che lavorando per accumulo, condensa nel personaggio tutto il peggio del divismo spicciolo italiano. In definitiva film mediocre che punta sulla risata facile ma non riesce a tenere un ritmo che a tratti sembra sfuggire di mano alla stesso regista creando caos.

Il concerto – recensione

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Il concerto – recensione

Il concerto – Un direttore d’orchestra allontanato dal suo lavoro per aver difeso i suoi musicisti ebrei durante la seconda guerra mondiale, è ridotto a fare le pulizie nello stesso teatro che un tempo lo osannava ad artista indiscusso. Si presenterà a lui una sola occasione di realizzare il suo sogno, tornare a dirigere la sua orchestra e ritornare allo splendore della musica. Radu Mihaileanu acclamato regista di Train de vie, ritorna con una storia forte e commovente, che diverte ed emoziona, eccezionale.

Il concerto Il concerto – Mihaileanu si conferma un capace narratore per immagini, sia dal punto di vista del linguaggio, sobrio e contenuto, sia per la storia, l’umanità e la freschezza con cui racconta questa storia di sofferenza e riscatto.

I personaggi, tratteggiati con poche linee guida che ne caratterizzano la provenienza e gli stereotipi, si mescolano in questo colorato spaccato di umanità: gli ebrei praticanti sono gentili, ma attenti al profitto e al commercio; i russi veraci allegri e dediti alla bottiglia; gli zingari confusionari ma con una grande dote innata per il ritmo e la musica; i comunisti più radicali ancora sognatori ed idealisti.  Una parodia sociale costruita magistralmente, un’armonia di realtà e creature diverse che nella musica, nel concerto di Tchaikovsky per violino ed orchestra, trovano il loro riscatto, la speranza di una ritrovata dignità e realizzazione personale.

Il concerto – Mihaileanu si conferma un capace narratore per immagini

Il regista si fa in mezzo ai personaggi, magistralmente interpretati, e ne scova paure e difetti, doti e ambizioni, aggiungendo addirittura una punta di mistero che alla fine si rivela un saldo legame umano, una ritrovata felicità, un’ottimismo senza retorica che pervade come un dolce velo la storia così come la musica dona espressività ed emozione ad un epilogo forse improbabile ma ben costruito e potente.

Come pochi film Il concerto riesce a far piangere e ridere allo stesso tempo regalando due ore di cinema così come dovrebbe essere: divertente, emozionante, impegnato ma soprattutto poetico nella sua semplicità, un difficile equilibrio che Mihaileanu riesce a raggiungere nella sua pienezza.

Presentato nella Selezione Ufficiale fuori concorso a Roma, Il concerto è senza dubbio una delle migliori pellicole viste all’Auditorium nell’anno 2009.

Tra le nuvole – recensione

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Tra le nuvole – recensione

Il vincitore della seconda edizione del Festival di Roma, Jason Reitman, si presenta allo stesso pubblico capitolino con Tra le nuvole, una commedia dal gusto vagamente cinico e decisamente disincantato insieme alla super star George Clooney e a la Vera Farmiga, altra vecchia conoscenza del Festival per The Departed.

George Clooney è un uomo che si occupa di licenziare impiegati per conto di altri, viene ‘assoldato’ da diverse imprese e viaggia nel mondo in aereo, le nuvole sono la sua casa più dello squallido monolocale che ha come quartier generale a Oahama. La sua vita è perfetta, niente legami, niente rimorsi, solo una valigia piccola e compatta dentro la quale con metodo rinchiude tutto il suo mondo. Tutto questo dura fino a che la minaccia di un progetto di licenziamenti via internet non lo metterà all’erta, e l’incontro con una bella viaggiatrice non farà tremare le sue fondamenta di scapolo impenitente.

Tra le nuvole – Reitman regala un altro film frizzante e divertente

Scrivendo magistralmente e dirigendo con la sua personale impronta, Reitman regala un altro film frizzante e divertente, ben costruito e recitato con leggerezza.

Come già ci ha abituati in passato con Juno e Thank You for Smoking, Reitman costruisce la storia su solide premesse (in genere la presentazione del personaggio principale attraverso le sue stesse parole) poi comincia il racconto che per quanto acuto e divertente si possa presentare non scade mai nel già visto, riservando sempre un finale a sorpresa che non ci si aspetta e che regala, soprattutto per questo film, un finale agrodolce, vagamente cinico ma con l’ottimismo che risiede nel cambiamento e nella redenzione.

Skellig – recensione

Skellig – recensione

È Skellig di David Almond ad aprire invece la sezione sempre molto propositiva di spunti narrativi che vanno oltre il mero intrattenimento per soli piccoli. Anche quest’anno non si smentisce, presentando come prima opera un curioso film, che fa del suo lato fantastico la sfumatura più interessante. Skellig ruota attorno al piccolo Michael, da poco approdato insieme alla propria famiglia in una decadente e pericolante casa.

SkelligMotivo del trasloco, la gravidanza della madre, incinta e pronta a regalare a Michael una sorellina. Peccato che la bimba nasca con una rara e pericolosa malformazione al cuore. Michael, combattuto dagli eventi, finisce per scoprire in giardino, all’interno di un vecchio magazzino, uno ’strano uomo’. Sembra un barbone, non riesce ad alzarsi, è sporco, mangia insetti ed ha una ’strana’ schiena. Accudito con amore e passione da Michael, Skelling, questo il suo nome (come al solito un ottimo Tim Roth che col passare degli anni sembra diventare sempre più bravo ad offrire interpretazione degne di nota), finirà per ritrovare le forze, finendo per svelargli il suo incredibile segreto…

Un opera, come anticipato che ha nella sua chiave fantastica la sua migliore peculiarità e come pezzo forte senza dubbio l’interpretazione dei suoi protagonisti, che oltre al Tim Roth mangiatore di insetti, che grazie ad un buono make-up, diventa una presenza scenica a tratti inquietante, e il giovane protagonista Bill Milner che certamente non sfigura, riuscendo talvolta anche ad insidiare lo scettro di re della pellicola ma, per brevi istanti al “mostruoso” Roth.

Il regista dal canto suo forse non riesce  a mantenere in equilibrio stabile fra i due nodi centragli del film, e pecca anche un pò di inesperienza sul fantastico e il mistero, tirando troppo per le lunghe gli enigmi dietro alla figura di Roth, diventando quasi un estenuante attesa, che a tratti ridimensiona l’opera, forse anche per l’eccessiva durata. Tuttavia, il risultato totale è di un film godibile ad un largo pubblico, che sia disposto a credere al fantastico e che assieme ai protagonisti si faccia trascinare per le vie di una Londra in secondo piano, quasi anonima.

Skellig – Ottimi alcuni riferimenti significanti sulla figura di Tim Roth, degni di approfondimento, che dietro ad esse vi sia celato qualche messaggio subliminale.

Barbarossa – recensione

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Barbarossa – recensione

Barbarossa – Quando con un occhio si guarda alla Storia e con l’altro all’intrattenimento cinematografico si fa spesso grande cinema, lo dimostrano i tanti capolavori storici che sono arrivati nelle sale negli ultimi anni. Questa equazione tuttavia non si verifica sempre e purtroppo Martinelli è caduto in pieno nella trappola che si è preparato da solo. Film pretenzioso e costoso, Barbarossa si presenta come una storia forte, epica, soprattutto reale, che promettendo tanto, delude profondamente lo spettatore. Una storia lunga scritta male e raccontata peggio.

L’intreccio è confuso, portato avanti seguendo i singhiozzi di un montaggio apparentemente casuale che non aiuta ad appassionarsi alla storia con tempi morti e momenti risolutivi trattati troppo in fretta, annoiando per i 139 minuti della sua durata. Martinelli si porta dietro l’eredità di regista di videoclip, proponendo un prodotto i cui blocchi narrativi non hanno consequenzialità né producono la giusta armonia che un racconto dovrebbe avere tra le sue parti. Pur supportato da tecnologie all’avanguardia come la crowd replication (per la prima volta in una produzione italiana), il regista mostra la sua inesperienza a sfruttarne il potenziale espressivo, inficiando la credibilità dell’immagine, come esempio per tutti valga l’utilizzo del digitale per riprodurre il sangue nella battaglia di Legnano: asettici schizzi rossi che partono dalle ferite dei guerrieri per proiettarsi verso lo spettatore, a ricordare gli altrettanto finti schizzi di sangue dei titoli di coda dello snyderiano 300; sarebbe bastato il sangue finto che nella tradizione italiana dell’horror ha espresso sempre bene, seppure in maniera talvolta grottesca, il disgusto e lo scempio dei corpi.

Gli ingenti mezzi messi a disposizione di Martinelli impallidiscono di fronte ad una sceneggiatura cattiva e senz’anima. Il regista cerca di dare un ritmo, ma senza seguire uno spartito mette male l’accento con l’abuso di ralenti che non sono giustificati dalla narrazione.

Eppure buone sono le interpretazioni di Rutger Hauer e F. Murray Abraham a dispetto dei ‘nostri’ attori. La bella Kasia Smutniak, alle prese con un personaggio controverso e complesso, non fa che ripetere gli stessi gesti scarmigliati e confusi per tutto il film e Raz Degan, nella sua stentata interpretazione, sembra l’unico elemento che possediamo per orientarci nel tempo, in quanto pare che il trascorrere degli anni nella storia venga misurato tramite in progressivo grado di disordine dei capelli dell’attore protagonista.

Le musiche di accompagnamento sono anonime, approssimative e senza il respiro epico e poetico che la storia dei ribelli avrebbe meritato. E’ vero, il coraggio andrebbe premiato, poiché Martinelli si dimostra coraggioso scegliendo sempre temi che vanno oltre il contemporaneo panorama delle storie italiane da cinema, né drammi familiari né cine-panettoni quindi, ma purtroppo non mette a frutto l’originalità dell’idea con la realizzazione di un buon prodotto. Barbarossa si potrebbe definire un passo falso, un altro dopo il non entusiasmante Carnera, e se è vero che ‘errarehumanum est, perseverare autem diabolicum’.

Baaria – recensione

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Baaria – recensione

Baarìa – “Noi Torrenuova vogliamo abbracciare il mondo intero, ma abbiamo le braccia troppo corte”. Questa la sintesi finale, che con voce stanca e fiacca proclama Peppino Torrenuova. E per qualcuno questa frase si adatterebbe anche alle ambizioni cinematografiche del regista del film. Una cosa è certa, solo un felice matrimonio tra un maestro del cinema come Giuseppe Tornatore e la Musa della Settima Arte poteva dar vita ad un film così. Mezzo secolo di storia sapientemente raccontati da una regia che si trasforma in occhi e da occhi che si fanno cuore pulsante di un fiume di vite, raccontate magnificamente.

Tornatore rivendica una libertà registica che in Italia è difficile trovare, regalandoci una speranza (per il futuro) e un’importante conferma. Sapiente nelle scelte registiche, formidabile nella direzione degli attori, soprattutto i più piccoli.

Convince la modella siciliana Margareth Madè, che in Baarìa vede il suo esordio, più di quanto faccia il bello e dannato Raoul Bova interpretando un giornalista romano. Efficaci e divertenti le interpretazioni di Lo Cascio, Ficarra (un gradino sopra gli altri), Picone, Aldo Baglio, Michele Placido e della strepitosa Lina Sastri in particolare. Qualche legittimo dubbio sulla frequente ed eccessiva presenza del personaggio/macchietta interpretato da Beppe Fiorello (Accatto i dollari! Scangiu Dollari!) eccessivamente cabarettistico.

Il regista dice in molte interviste che si tratta del suo film più personale, quello che avrebbe voluto fare dopo i sessant’anni. Ed effettivamente il film ha un po’ il sapore di un “testamento”, come se Tornatore avesse scritto le sue memorie, riassuntive tra l’altro del suo modo di fare cinema, del suo amore per l’immagine, curata e compiacente sino all’esagerazione. Le storie si intrecciano, si annodano e si snodano mentre gli anni passano in questo ottimo film corale, di ampio respiro.

Alcune note di demerito. Innanzitutto il montaggio e la regia di alcune sequenze del film. Disattenzioni e stacchi bruschi disorientano lo spettatore che fatica a trovare il suo posto nella sovrabbondanza di travelling (dolly e carrellate) che filmano la Bagheria ricostruita splendidamente da Mauro Sabatini (in Tunisia). La regia di Tornatore sottolinea l’importanza della scenografia ma a volte calca un po’ troppo la mano. Anche le musiche del maestro Ennio Morricone danno da pensare. Una ridondanza inaspettata, commentano le scene in modo eccessivo, protagoniste anche quando dovrebbero lasciar il posto alle immagini.

Grande attenzione ai particolari, Tornatore sembra dirigere ogni scena, anche la più piccola, con cura e amore paterno, rasentando in più occasioni la perfezione. Una pellicola in stile barocco che trasuda a volte poco sentimento, vero e originale. Come a dire che Baarìa è senza dubbio bellissimo, ma Nuovo Cinema Paradiso è più vero, più sincero. Certamente un ottimo film, da vedere e rivedere, con spunti e invenzioni formidabili, che entra di diritto nella cinquina dei film che rappresenteranno l’Italia nella notte degli Oscar. Troppo lungo per i gusti d’oltreoceano?! Speriamo di no.

Qualcuno ha avuto da ridire sul fatto che un film così apertamente schierato (Peppino il Comunista vede rosso, c’è poco da fare) sia stato prodotto dalla Medusa dell’amatissimo Silvio Berlusconi. A questa gente bisognerebbe far capire che il cinema è anche (o soprattutto?) industria e che vive di bravi imprenditori. In Italia spesso mancano, e i film nostrani troppe volte si portano dietro quell’odore di vecchio e putrido che tanto impedisce loro di varcare i nostri confini.

In definitiva, un bellissimo film, assolutamente da vedere. Bagheria filtra i sapori e i dissapori di un’Italia intera, con trovate divertenti e personaggi che fanno la smorfia a certi stereotipi sui siciliani. Senza contare i numerosi omaggi al cinema del passato. Per la sequenza che vede protagonisti Lattuada e Sordi sul set a Villa Palagonia (Bagheria), Tornatore scova il fotografo di scena che lavorò realmente su quel set, così da presentare alla perfezione questo fantastico tuffo nel passato. La regia è amorevole e quasi perfetta, la nostalgia si fa sentire. “Per quello che saremmo potuti essere e non siamo riusciti a diventare”. Il finale è commovente, di quelli del miglior cinema italiano.

Un’altra nota positiva è che la mafia in Baarìa di Tornatore viene accennata ma non le si dà mai troppo spazio, troppa importanza. Come a dire, c’è ma non si vede. Un po’ come in tutta Italia al giorno d’oggi. Rimane un solo dubbio, come sarebbe stato Baarìa se Tornatore lo avesse realizzato fra qualche anno, magari dopo i sessant’anni, come effettivamente desiderava fare?  (Forse ancor più bello….)

Voto: 8/10 Un kolossal d’autore come Baarìa non si vedeva da anni (o forse non si è mai visto). Bellissimo.

Di Ottavio Mussari

District 9: recensione del film con Sharlto Copley

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District 9: recensione del film con Sharlto Copley

Prendi un po’ de “La cosa” di John Carpenter, lo spunto visivi di “Cloverfield” e un po’ della visione Spielberghiana del mondo alieno ed ecco che per magia appare District 9. Ma veniamo a noi e appunto al film. Ambientato nel natio Sudafrica, a Johannesburg, lasciata da Blomkamp all’età di 18 anni per il Canada, District 9 parte come un reportage su un evento ormai cristallizzato: la presenza di una gigantesca nave aliena sospesa sul cielo della capitale sudafricana.

District 9: recensione del film con Sharlto Copley

Trovate in fin di vita, disidratati e affamati a bordo, centinaia di migliaia di “clandestini” vengono curate e rinchiuse in un ghetto alla periferia della città. Un ghetto vero, sporco e malsano, in cui queste creature insettiformi sopravvivono mangiando cibo per gatti, vittime dei traffici dei boss nigeriani della zona (anche questo basato su una situazione reale a Johannesburg, senza connotazioni razziste). Quando la situazione diventa esplosiva, il governo affida a una corporazione privata, la MNU, il compito di evacuare e bonificare la zona, per spostare gli alieni altrove. Da lì prende le mosse, tra un’intervista e un reportage televisivo, che danno alla storia uno straordinario carattere di film verità nella prima parte (forse l’unico spunto interessante dell’opera), la trama che vede protagonista un ambizioso ma ingenuo dipendente della MNU e un alieno col figlio, determinato a far funzionare la tecnologia che li riporterà alla nave madre e quindi in patria.

Se qualcuno si aspettava più originalità e rivoluzione nel genere Sci-fi, rimarrà un po’ deluso. Il film per l’appunto pecca di originalità, soprattutto riguardo all’evolversi della storia, troppo convenzionale e più delle volte prevedibile. Chi si aspettava un re-start per il genere Sci-fi che tanta soddisfazione ha dato con film come Alien e Predator deve fare ammenda di fronte ad un film lontano da quelle dimensioni.

Dristict 9

Tuttavia, il film contiene degli ottimi spunti registici, che per buona parte del film mantengono alta l’attenzione. L’inizio in stile documentario incuriosisce e al tempo stesso da un tocco sottile ed intrigante alla vicenda, e sotto questo punto di vista il regista si dimostra bravo ad amalgamare i vari pezzi tra il doc e la fiction, riuscendo nell’impresa di tirare fuori un buon prodotto fruibile dal grande pubblico in quella che ha detta di molti, anzi a dette di tutti è la natura del cinema: l’intrattenimento.

In aggiunta c’è anche spazio alla riflessione degli avvenimenti sociali che caratterizzano gran parte della contemporaneità e la sua situazione a dir poco spiacevole su ciò che riguarda la clandestinità, razzismo a cui si vanno ad aggiungere problemi di natura di diversità religiose etc. In definitiva il film rappresenta un tentativo sufficiente a riproporre un genere che ha affascinato le menti di molti giovani e che proietta il debuttante Blomkamp verso un futuro assai migliore, sempre che Cameron con il suo Avatar non si piazzi in mezzo e dica: “ehi sono io il maestro del genere.” Di fronte a ciò nemmeno lo stesso Blomkamp riuscirebbe a contraddirlo, visto che Alien è il suo film preferito.

Ricatto d’amore: recensione del film con Sandra Bullock

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Ricatto d’amore: recensione del film con Sandra Bullock

Ricatto d’amore – Un pretesto banale, la scadenza della Green Card, per una commedia romantica fresca e divertente, in pieno stile Made in Usa. Questo è Ricatto d’amore, in originale The Proposal, letteralmente La Proposta.

Sandra Bullock è una donna in carriera severa e feroce, una strega per i suoi sottoposti nella casa editrice. Ryan Reynolds è un giovane assistente, sottomesso e servizievole, che asseconda ogni pretesa della strega Bullock, per realizzare il suo sogno di diventare capo-redattore.

Ricatto d’amore

Due persone che sono a stretto contatto i cui rigidi rapporti di lavoro impediscono di conoscersi meglio, fino a che la minaccia per lei di essere espulsa dagli Stati Uniti per la scadenza della sua Green Card, scatena l’imprevisto. Reynolds sarà il prescelto, colui che , con un matrimonio di convenienza, permetterà alla strega cattiva di rimanere in terra USA.

Ovviamente il finale è previsto dall’inizio, e i personaggi sono stereotipati, ma la storia corre via senza pretese e con tanti sorrisi, con una Sandra Bullock in perfetta sintonia con i suoi costumi austeri e in perfetta forma fisica. Elegante e raffinata porta sulle sue spalle gran parte della storia, a dispetto di un Reynolds mono espressivo nonostante le innumerevoli opportunità cinematografiche che gli si stanno offrendo negli ultimi mesi.

Ricatto d’amore è una commedia spiritosa che lascia lo spettatore di buon umore, senza chiedere troppo e restituendo il giusto.

G.I. Joe la nascita dei Cobra – recensione

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G.I. Joe la nascita dei Cobra – recensione

G.I. Joe la nascita dei Cobra – Stephen Sommers ci presenta ancora una volta una pellicola d’azione che rispetta le aspettative del pubblico in cerca di intrattenimento senza troppe pretese. Ancora la Hasbro cerca di guadagnare sfruttando il cinema per i suoi leggendari giocattoli, dopo il travolgente successo di Transformers, che , almeno per il primo episodio, ha decisamente più consistenza e valore di questo film.

La storia è quella dei Joe, una squadra speciale che deve salvare il mondo da un gruppo di cattivi. Niente di nuovo nella forma e nella sostanza, anche se qualche scena ben congegnata riesce ad interessare lo spettatore, vedi la scena dell’attacco a Parigi. I personaggi, quasi tutti volti emergenti del nuovo panorama cinematografico, riesco a convincere, chi più chi meno, nei ruoli loro assegnati, su tutti la bella Rachel Nichols, la rossa Joe. Bello il personaggio di Snake Eyes, interpretato da Ray Park, che ricorda un po’ della malinconia degli X-Men.

G.I. Joe la nascita dei Cobra, il film

Sommers si tira dietro un po’ di cast della Mummia, Brendan Fraser e Arnold Vosloo, e combina diversi elementi action e comedy, per creare un film che senza pretese intrattiene, ma non convince e si dimentica presto. Anche visivamente, numerose sono le immagini e le suggestioni che ricordano Transformers, segno che forse le ambizioni di Sommers erano superiori a quelle poi avveratesi.

G.I. Joe la nascita dei Cobra è un film d’azione che sfrutta la tecnologia spettacolare per realizzare scene ben ritmate ma non destinate a passare in fretta nella storia del cinema e nell’immaginario degli spettatori.

Harry Potter e il Principe Mezzosangue: recensione del film

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Harry Potter e il Principe Mezzosangue: recensione del film

I Mangiamorte attaccano Londra, piombano dal cielo in forma di scie di fumo nero mortifero, attaccando maghi e babbani indiscriminatamente. In disparte, in un piccolo bar della metropolitana londinese, Harry Potter legge la Gazzetta del Profeta e flirta con una bella cameriera, poi alla finestra appare Albus Silente…e Harry viene catapultato verso il suo sesto anno a Hogwarts, e noi con lui. Carico di attese, il sesto episodio di Harry Potter, Harry Potter e il Principe Mezzosangue, mantiene le promesse: più cupo e più divertente degli altri. Evidente il ritorno al timore della sceneggiatura di Steve Kloves che nonostante la complessità del sesto libro, fa un ottimo lavoro di riduzione, mantenendo il senso del film e aggiungendo qua e là qualche efficace modifica al corso degli eventi.

In Harry ha 16 anni, deve affrontare un nuovo anno durante il quale sarà capitano della squadra di Quidditch, dovrà tener testa alla sua nuova popolarità con le ragazze, farà i conti con un nuovo, profondo sentimento che sta crescendo nei confronti della bella Ginny, sorella di Ron, avrà una vera e propria ossessione per il suo nemico Draco Malfoy, si imbatterà in un libro di pozioni, che è appartenuto al ‘Principe Mezzosangue’, ma soprattutto seguirà lezioni private con Silente, che con lui si addentrerà nei ricordi del Signore Oscuro Voldemort, quando era ancora un ragazzino.

Harry Potter e il Principe Mezzosangue, il film

Ma trasformati sono anche gli inseparabili amici di Harry, il rosso Ron, alle prese con la sua prima ragazza, un’ossessiva biondina tutta bacini e sorrisini frivoli, e Hermione, che si barcamena tra un insistente corteggiatore poco raffinato e la sua inaspettata, incontrollata, gelosia per Ron. Tanto mistero intorno a questa storia: chi è il Principe Mezzosangue? Cosa nasconde il nuovo professore di Pozioni sotto l’apparente cordialità? Cosa è successo alla mano destra di Silente, annerita e morta? Che cosa affligge Draco Malfoy? Interrogativi che troveranno una risposta nel corso del lunghissimo film, ben 150 minuti.

Harry Potter e il Principe Mezzosangue filmI toni del racconto in Harry Potter e il Principe Mezzosangue  si dipanano in buon equilibrio tra il serio e il faceto, lasciando molto spazio ai menage tra i ragazzi con gli ormoni in tumulto. Un fotografia affascinante ed efficace, mutevole come i toni del film, accompagna i protagonisti per le aule e i corridoi del castello rendendo l’atmosfera lieve e greve, festosa e macabra. Alla regia, di nuovo David Yates che se aveva fatto storcere il naso per L’Ordine della Fenice, adesso ha preso confidenza con i ritmi potteriani e si dimostra più capace di portare avanti la storia, ma il merito va soprattutto a Kloves, che come detto, ha ottimizzato i contenuti aggiungendo qualcosa. Ottimo lavoro sui personaggi, più articolati, finalmente cresciuti anche a livello professionale. Peccato per il finale che si sgonfia su se stesso e lascia passare sotto silenzio una grandiosa scena finale di battaglia ad Hogwarts.

Harry Potter e il Principe Mezzosangue è un film più adulto, che mette da parte gli incantesimi e si pone come pre-finale per l’ultimo atto atteso per il 2012. Menzione speciale a tutto il cast, ancora una volta la fucina inglese si mostra la migliore, per quanto riguarda si attori: oltre agli ovviamente bravi Michael Gambon e Alan Rickman, bene anche la new entry Jim Broadbent nei panni del Prof. Horace Lumacorno, ma soprattutto Helena Bonham Carter, mai così adatta e apparentemente a suo agio in un ruolo, la sua Bellatrix è superlativa.

 

Transformers – La vendetta del caduto: recensione del film con Megan Fox

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I presupposti ci sono tutti: i personaggi vincenti, i robot che già conosciamo e quelli nuovi, le relazioni e le situazioni nuove da esplorare, un intreccio che per quanto fantascientifico regge bene in Transformers – La vendetta del caduto. Tuttavia Michael Bay vuole strafare mettendo troppo di tutto e finendo con un risultato appunto affollato e un po’ confusionario, soprattutto alla fine.

La trama di Transformers – La vendetta del caduto

Sono passati due anni dall’epocale scontro tra Decepticon e Autobot, il governo degli Stati Uniti ha smantellato il settore 7 e ha istituito una unità speciale, il NEST, per combattere i focolai di Decepticon che faticano ad ammettere la sconfitta del loro leader Megatron, intanto Sam parte per il college, lasciandosi alle spalle dei genitori devastati dall’inevitabile crescita del loro unico figlio, e una fidanzata splendida e innamoratissima, ma inverosimilmente gelosa … Tutto sembra procedere bene a parte un nuovo ed invadente compagno di stanza, ma i guai cominciano quando Sam comincia a vedere strani simboli in cybertroniano e gli attacchi dei Decepticon si moltiplicano

Gli sceneggiatori, i pur bravi Roberto Orci e Alex Kurtzman insieme a Ehren Kruger, non hanno approfittato del fatto che il grosso lavoro di introdurre luoghi e personaggi era già stato fatto nel primo film e che quindi sarebbe stato più semplice per loro portare avanti un plot definito insieme ai tanti piccoli corollari che avrebbero seguito i diversi temi: la guerra vera e propria, i genitori di Sam, il rapporto tra Sam (Shia LaBeouf) e Michaela (Megan Fox) e così via. Il risultato dunque non è dei più esaltanti, soprattutto nella parte iniziale, dove una forzata ricerca della risata spinge i personaggi e soprattutto la madre di Sam, un’eccessiva July White, a scendere nell’imbarazzo generalizzato. Pesanti alcuni dialoghi, a volte prolissi altre volte superflui, a tratti anche un po’ volga rotti, anche per bocca dei robot, così compassati e dignitosi nel primo film.

Transformers 2: La Vendetta del Caduto, in scena John Turturro

John Turturro Shia LaBeouf Transformers - La vendetta del caduto
© TM and2009 Dreamworks LLC. and Paramount Pictures. All Rights Reserved.

La seconda parte Transformers 2: La Vendetta del Caduto si risolleva con l’entrata in scena di John Turturro, eccezionale nei panni dell’agente Simmons, relegato dal governo a vendere carne dopo lo smantellamento del Settore 7, la sua verve resta intatta nonostante cambi il registro tra una pellicola e l’altra. I moltissimi robot mantengono invece le promesse, sicuramente più umanizzati che antropomorfi, tengono la scena e perfezionano le trasformazioni, la mdp entra nelle loro viscere metalliche e rende lo spettatore partecipe del mutamento, merito soprattutto degli effettoni di cui il film fa uso e abuso e che sono sicuramente perfezionati e migliorati che in Transformers.

Si perdoni il continuo riferimento al primo film, ma è inevitabile, soprattutto quando si va a valutare l’evoluzione dei personaggi: un Sam più maturo e sicuro di sé si affaccia alla vita di college e cerca di mantenere invariati i rapporti con la splendida fidanzata, che dal canto suo non fa propriamente una bella figura, o meglio, è sicuramente un bel vedere, ma decisamente parla troppo e se le avessero fatto dir meno sarebbe stato sicuramente meglio per tutti.

Megan Fox in Transformers - La vendetta del caduto (2009)
© TM and2009 Dreamworks LLC. and Paramount Pictures. All Rights Reserved.

Ancora, i genitori più presenti hanno il loro, seppur breve (meno dei 15 minuti di Warhol), momento di gloria in una piccola ma intensa scena che coinvolge e quasi emoziona alla maniera di Bay. Ma i personaggi più interessanti sono sicuramente i robot: si delinea meglio il rapporto di Sam con il guardiano Bumblebee, amico fedele e a suo modo affettuoso, i Gemelli, decisamente troppo umani; capiamo meglio la natura di Megatron, che lungi dall’essere un villain a tutto tondo sfiora la codardia, forse offuscato dal ben più cattivo Fallen e dagli altri numerosi e terribili, Decepticon, soprattutto il mostruoso Devastator. Ma ancora una volta, su tutti si erge Optimus Prime: oltre a scoprire qualcosa in più delle sue origini, lo vediamo in azione potente e crudele contro il male nella sua incommensurabile umanità, accompagnato ancora dalla poderosa e bellissima colonna sonora di Steve Jablonsky che costella tutto il film di tracce favolose.

In definitiva Transformers 2: La Vendetta del Caduto è un bel film fracassone, che a tratti stordisce lo spettatore e che sicuramente perde il confronto con il primo Transformers, e che, come differenza principale, lascia presagire un sicuro sequel per completare la trilogia.

Moonacre e i segreti dell’ultima luna – recensione

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Moonacre e i segreti dell’ultima luna – recensione

Moonacre e i segreti dell’ultima luna – La 13enne Maria, cresciuta senza la madre, resta orfana anche del padre, che a dispetto delle apparenze, lascia dietro di sé una lunga serie di debiti che costringeranno la ragazzina a trasferirsi in campagna nella villa dello zio burbero a apparentemente misantropo. L’unica eredità che Maria riceve dal padre, è un grosso libro che racconta la storia dell’incantata valle di Moonacre.

Moonacre e i segreti dell'ultima lunaNel cercare di sciogliere la maledizione che grave sulla valle, Maria farà molti incontri, belli e brutti, e scoprirà il suo importante ruolo nella leggenda. Il film, non privo di spunti interessanti, è un pallido esempio di fantasy che dispiega ogni genere di banalità di genere per dar vita ad una storia un po’ scialba e telefonata. Molteplici i riferimenti a storie ben più famose: il giardino segreto, la bella e la bestia e tanti altri in cui la protagonista attraverso una sorta di viaggio iniziatico compie il suo destino.

Tuttavia Moonacre e i segreti dell’ultima luna resta un abbozzo di storia con personaggi poco approfonditi e intreccio che sta in piedi per mezzo di una storia nella storia. La performance di Dakota Blue Richards, nonostante la sue doti indiscusse, viene messa a dura prova nella versione italiana da un pessimo doppiaggio che ne appiattisce ogni inclinazione vocale, e il fascino di Natascha McElhone, per quanto notevole, non basta a creare un personaggio credibile. Tristissimo anche il cattivissimo (nell’intenzione del regista) Tim Curry, che sebbene invecchiato e appesantito resta sempre una presenza inquietante, anche se talvolta fine a se stessa. Nota di merito invece ai costumi di Beatrix Aruna Pasztor, un mix di antico e moderno, che, soprattutto negli abiti femminili, trova la sua massima eccellenza.

L’ungherese Gabor Csupo, già regista di Un Ponte per Terabithia, non riesce questa volta a dare un ritmo avvincente alla storia, optando per un racconto classico poco scandito e tutto sommato banale. Belli gli effetti che ci mostrano leoni neri, unicorni e mandrie di cavalli tra le onde, ma dai quali lo spettatore ormai smaliziato non riesce a trarre meraviglia.

 

Una Notte da Leoni: recensione del film

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Una Notte da Leoni: recensione del film

Bradley Cooper, astro nascente della commedia made in USA, l’ha definito “Memento che incontra Salvate il soldato Ryan!”. E paradossalmente, The Hangover (Il doposbornia), in Italia, Una Notte da Leoni, riesce nell’intento di dare un’idea generale del film, pellicola scatenante ed irriverente che cadenza la comicità più demenziale con una struttura alla Memento appunto che ne consolida la base di racconto ben costruito e raccontato.

Quattro amici partono per un week end al Las Vegas, per celebrare come si deve l’addio al celibato di uno di loro. Dopo un brindisi per iniziare la serata, ci troviamo direttamente in una suite d’albergo devastata, dove i nostri sono riversati sul pavimento in condizioni di doposbornia pietose, in compagnia di una gallina una tigre, che si scoprirà essere di proprietà di Mike Tyson, e di un neonato battezzato sul momento come Carlos. L’unico problema è che il futuro sposo non si trova e nessuno ricorda nula della notte appena trascorsa. Una Notte da Leoni seguirà i tre improbabili ed esilaranti amici alla ricerca dell’amico perduto con la speranza di ricostruire quello che è successo. Piccoli indizi li porteranno e scoprire luoghi e incontri notturni.

Una notte da leoni filmUna Notte da Leoni, raccontato con irriverente leggerezza da Todd Phillips, già regista di Starsky e Hutch, è un perfetto esempio di come la commedia riesca ad offrire un divertimento sano e addirittura intelligente quando la storia conduce per mano lo spettatore e presenta personaggi nei quali identificarsi ma dei quali ridere e scandalizzarsi nella più totale assenza di pretenziosità. Una commedia all’American Way che detta regole di comicità che alcuni dei ‘nostri’ in Penisola dovrebbero imparare. Infatti per quanto alcune trovate possano risultare poco originali e già sentiti, sono inserite con una freschezza e una precisione cadenzata nella storia che aiutano a definirla senza mai abbassare l’attenzione divertita dello spettatore. Anche l’eterogeneo assortimento dei personaggi contribuisce ad ottenere quel riverbero comico in ogni battuta, in ogni occhiata d’intesa dei tre eroi alla ricerca dello sposo sparito. Oltre al già citato Bradley Cooper ricordiamo Ed Helms e Zach Galifianakis, assolutamente splendidi.

Una volta tornati alle loro vite, i quattro rimarranno amici ma purtroppo per lo spettatore nessuno saprà mai cosa è successo durante quella notte da leoni…meno male che sotto il sedile posteriore della mercedes è rimasta la fotocamera con ricca documentazione!

I love Radio Rock: recensione del film di Richard Curtis

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I love Radio Rock: recensione del film di Richard Curtis

I love Radio Rock non si tratta di un film celebrativo del network romano più conosciuto negli ambienti underground della capitale, ma della radio più trasgressiva nell’Inghilterra degli anni 60, in cui il rock’n’roll spopolava per le strade, ma non sulle radio ufficiali, che potevano trasmetterlo solo per due ore alla settimana. E così nascevano radio pirata che trasmettevano da grosse barche ormeggiate nel Mare del Nord e i deejay erano più popolari delle stesse rockstar.

Sceneggiato e diretto da Richard Curtis, I love Radio Rock è una commedia brillante, ritmato da battute fulminanti e situazioni di puro divertimento, capace di ritrarre in modo essenziale ogni personaggio che anima la vita a bordo della radio pirata. La musica aziona ogni ingranaggio, dalle fulminee storie d’amore consumatesi sulla nave, alle amicizie nate tra un disco e l’altro, alle sfide lanciate tra le star della radio, fino agli sleali meccanismi dei quali il potere si serve per ostacolare la concorrenza dilagante e amorale del rock.

I love Radio Rock è una commedia brillante

Il potere è impersonato in modo incredibile da un Kenneth Branagh che rende il suo personaggio una macchietta di se stesso, uno stereotipo bigotto e puritano rianimato in questo film da scene memorabili (su tutte, l’emozionante cena di Natale in famiglia).

Dall’altra parte c’è la variegata comitiva di deejay che vivono per la musica e con la musica, 24 ore al giorno sulla nave – radio rock, allietati saltuariamente dalla visita di giovani fanciulle disinibite e affascinate dalla vita trasgressiva in mezzo al mare: dal proprietario della radio, un dandy votato alla causa della liberalizzazione dei costumi (Bill Nighy), al Conte, autentico esempio di vita spesa per la musica (un possente Philip Seymour Hoffman), a Gavin, la voce più sensuale del rock inglese (un esaltato Rhys Ifans) fino al giovane Carl (Tom Sturridge), che trova nella nave rockettara il percorso di formazione che ogni adolescente vorrebbe avere.

In I love Radio Rock un plauso al costumista: un tripudio di colori, fantasie optical e accessori assolutamente inutili vestono i corpi dei personaggi rendendoli completamente immersi in un’epoca ormai svanita, ma che ogni volta che torna lascia dietro di sé un senso di nostalgia.

Terminator Salvation: recensione del film con Christian Bale

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Terminator Salvation: recensione del film con Christian Bale

L’attesissimo sequel Terminator Salvation è arrivato nelle sale, promettendo adrenalina spettacolo, soprattutto un approccio più moderno rispetto all’originale, che resta l’indimenticabile primo film.

A volte le promesse non si mantengono, altre volte si, altre volte ancora si esagera e si finisce col portare nelle sale film che risultano fastidiosi. E’, purtroppo, il caso di Terminator Salvation, che lungi dall’essere un film totalmente negativo è troppo immerso nell’universo macchinista che fa di Christian Bale un soldato urlatore e spara-tutto, insulso ed egoista nel suo personaggio di John Connor, che avrebbe meritato un trattamento ben migliore. Ma non diamo la colpa al Christian che invece si impegna diligentemente, com’è suo solito, a portare a termine la missione pur con qualche capriccio di troppo sul set.

Terminator Salvation, il film con Christian Bale

Chi mai incolperemo per aver fatto di uno dei film più attesi della stagione un clamoroso fiasco (non al botteghino…)? Gran parte della colpa è senza dubbio di McG, il regista che dopo un inizio esaltante, vedi il piano sequenza dell’elicottero che precipita con Bale all’interno, si concentra tutto sullo spara spara contro le cattivissime ed attrezzatissimo macchine. Un abbozzo di storia decisamente interessante che crolla su se stesso, senza risparmiare nemmeno il ben costruito personaggio di Sam Worthington, umano meccanico che ruba la scena al povero Bale che già ne Il Cavaliere Oscuro si era fatto offuscare dal talento di Heath Ledger.

Si capisce bene, considerando la travagliata vicenda della sceneggiatura, la richiesta di soccorso inviata a Jonathan Nolan, per risollevare le sorti del film. Il buon Jonathan arriva sul set, consola l’amico Chris e mette mano alla sceneggiatura modificandone l’ultima parte. Il finale infatti si salva parzialmente anche se, come per tutto il film, resta quel qualcosa di inespresso che una storia comunque bella poteva dare. Bello il cameo di Shwarzy, ovviamente ricostruito in digitale, come è ‘espressivo’ lui nel ruolo di macchina mortifera nessuno! Risultato complessivo appena sufficiente, si salva infatti l’aspetto visivo del film…ma dopotutto non si tratta di un quadro, e una fotografia azzeccata non solleva un film mediocre.

Martyrs: recensione del film Horror

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Martyrs: recensione del film Horror

Martyrs – Una bambina spaventata e ferita, corre urlando lungo una strada di periferia. Quella bambina, accolta in un centro per l’infanzia, continua ad essere sempre spaventata e ad avere spaventose visioni. Dopo qualche anno, una famiglia apparentemente tranquilla viene trucidata da due giovani donne.

MartyrsÈ questo l’inizio di Martyrs, che si aggiunge al nutrito filone horror-splatter che imperversa nelle sale cinematografiche contemporanee.Un film che basato su una trama ai limiti del possibile, mette a nudo un maldestro tentativo da dare un fondo di misticismo ad un film che rimane tuttavia ancorato al genere senza offrire nulla più che intrattenimento, il quale in verità è molto relativo, considerando che a metà film, se non prima, la maggior parte delle persone in sala ha lasciato vuota la propria poltrona.

Martyrs

Presentato al Festival Internazionale del film di Roma nella sezione Extra curata da Mario Sesti, Martyrs presenta in questo la sua unica nota positiva: un film di genere horror splatter presentato ad un festival. Tuttavia si tratta del contesto e non del film, il quale invece a detta degli esperti del genere, non è assolutamente all’altezza dei primi due Saw o di The Ring. Deludente.

The Strangers: recensione del film con Liv Tyler

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The Strangers: recensione del film con Liv Tyler

Film d’esordio del regista/sceneggiatore Bertino, che già alla sua opera prima dimostra di conoscere i meccanismi di tensione del cinema horror. The Strangers raccontata è una delle tante storie di violenza accadute realmente, lontanamente ispirata ad una vicenda personale del regista e ai massacri compiuti per mano della Charles Manson Family.

The Strangers si apre con una nota circa le statistiche dei casi di aggressione che ogni anno avvengono in America: in tal modo il regista cerca di liberarsi dal dramma personale, cercando di inserire la vicenda in un contesto più ampio, facendo in modo cha la storia sia il riflesso della violenza in generale.

A prova di ciò basti considerare il fatto che Bertino rifiuta di raccontare la storia della coppia, accennando soltanto alla loro crisi, e concentrandosi invece sugli atti brutali da loro subiti. Così facendo egli non cade nel patetico e riesce a concentrarsi sul ritmo del film , ben equilibrato tra momenti di attesa ed esplosioni di violenza.

Quando Kristen (Liv Tyler) chiede una spiegazione per quello che stanno subendo, la risposta è chiaramente assurda ed è la dichiarazione palese del rifiuto di qualsiasi forma di psicologismo e della mancanza di un reale movente che spinge gli aggressori alla violenza.

« Perché ci fate questo? Perché eravate in casa »

The Strangers diventa espressione quindi di una violenza totalmente gratuita, confermata anche dal fatto che il regista non mostra mai i volti degli assassini, presentandoli talvolta come fantasmi che vengono fuori dal nulla: sono solo l’espressione del male irrazionale; la violenza spesso non ha un volto e vien fuori dal nulla proprio come gli aggressori protagonisti di questa vicenda. Finale inusuale e spiazzante, che vede i protagonisti morire alla luce del giorno; se gran parte delle violenze raccontate nei film di questo genere si consumano durante la notte, Bertino lascia che il delitto finale venga compiuto proprio al sorgere del sole. Con un gesto simbolico, l’aggressore apre la tenda e lascia che la luce inondi la stanza e soltanto dopo provvedono all’esecuzione tanto attesa durante tutto il film.

di Bino Mariani

Una notte al museo 2: recensione del film con Ben Stiller

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Una notte al museo 2: recensione del film con Ben Stiller

Ben Stiller torna a vestire i panni dell’ex guardiano notturno Larry Dailey, ma questa volta in una veste tutta nuova. Una Notte al Museo 2 ripropone le stesse tematiche del primo episodio, ma necessariamente sotto una diversa ottica, essendosi ormai esaurito l’effetto “novità” dell’idea originale. Dailey ha fatto fortuna vendendo le sue improbabili invenzioni, ma continua saltuariamente a frequentare il museo. La direzione, però, decide di sostituire molte attrazioni con degli ologrammi, condannando così Jedediah e amici all’immobilità eterna negli archivi dello Smithsonian di Washington. Inizia così per Dailey una nuova missione per salvare i suoi compagni di tante notti.

La trama di Una Notte al Museo 2 , ideata dagli stessi sceneggiatori del primo episodio Ben Garant e Thomas Lennon, si è dovuta pesantemente confrontare con l’eredità del predecessore e, soprattutto, con il fatto che l’aria fresca dell’idea originale era ormai finita. La soluzione è stata quella di “pensionare” alcuni dei personaggi principali, come il Roosevelt di Robin Williams, ridotto ad una comparsa, e di aggiungerne di nuovi, che potessero avere qualcosa da dire. Braccio destro di Stiller diventa Amelia Earhart (Amy Adams), famosissima pilota americana, dipinta come un’inarrestabile scavezzacollo determinata ad affermare il suo ruolo di pioniere femminile dell’aria persino in faccia ai fratelli Wright.

Una Notte al Museo 2, il film

Antagonista è il malvagio faraone Kah Mun Rah, fratello di Akmen Rah, ironicamente interpretato da Hank Azaria (già visto in Friends) con un difetto di pronuncia che gli fa perdere gran parte della sua carica di “cattivo”. La cosa, ovviamente, si sposa bene con l’intero film, che gioca sull’ironia e, più che nel primo episodio, con le icone della cultura americana, contrapposte ad altre non a caso straniere (un pizzico di nazionalismo filo-americano non è mai mancato in questo genere di film e, in fondo, è accettabile quando ci si può ridere sopra).

Da una parte abbiamo il mai domo Jedediah, un goffissimo generale Custer e il romanesco Ottaviano, costretti ad affrontare un Al Capone in bianco e nero, un Ivan “non così Terribile” e uno spassoso Napoleone, il quale se ne esce con alcune battute di stampo politico che faranno ridere soprattutto noi italiani. La storia scorre liscia senza particolari problemi o patemi d’animo e, infatti, non vi è mistero o impresa che occupi più di una ventina di minuti per essere risolta. Scelta forse poco drammatica, ma che contribuisce comunque a rendere il film leggero e piacevole da vedere. Vi sono alcuni grossi buchi, però, che non vengono spiegati. Se nel primo film, infatti, la baraonda creata dai reperti animati non viene notata dalle guardie in quanto esse stesse al corrente della magia, non è chiaro come in questo secondo episodio nessuno sembri accorgersi di nulla, nonostante disastri e danni che, nella realtà, avrebbero fatto scattare tutti gli allarmi della città. In definitiva i due autori e il regista Shawn Levy hanno deciso di giocare e divertirsi con tutti gli oggetti che hanno potuto trovare all’interno di un luogo come lo Smithsonian, non a caso uno dei musei più grandi del mondo.

Ne esce fuori una commedia divertente e che strapperà più di una risata, pur sforando a volte nell’esagerazione e in alcune situazioni tipiche da “vorrei girare questa scena, ma è chiaro che non posso in un film simile”. Ben Stiller interpreta il personaggio di Larry con la solita carica comica, ponendo però l’accento su come sia cambiato caratterialmente e come sia più deciso e sicuro di sé questo nuovo Dailey. Alla fine diventa un personaggio interessante, ma forse più ostico per il pubblico che volesse identificarsi in lui. I riflettori, infatti, finiscono per essere quasi tutti per Amelia Earhart, che eredita da Stiller il ruolo di eroina dolce e simpatica, seppur determinata. La regia di Levy è piuttosto frenetica in molti punti, ma ciò non è un male, in quanto conferisce un certo ritmo all’intera pellicola e riesce a comunicare la situazione fuori controllo che l’intero museo vive in questa particolare notte.

Il tutto è completato dalla colonna sonora di Alan Silvestri (Trilogia di Ritorno al Futuro) che si innesta bene nella narrazione facendo al tempo stesso il verso a produzioni più pompose e maestose. Interessante, infatti, è il contrasto in molte scene tra la goliardicità degli elementi in gioco e la conduzione della musica classica, più adatta ad un Jack Sparrow che a un Larry Dailey. Musica pop e rock si fondono ogni tanto, com’è caratteristica comune di Silvestri, con in più una comparsata solo “vocale”dei celebri Jonas Brothers nei panni di tre amorini svolazzanti a cantanti. Menzione d’onore per i responsabili degli effetti speciali, che hanno restituito alla vita un  intero museo in maniera magistrale, probabilmente divertendosi anche parecchio nel farlo.

In conclusione, Una Notte al Museo 2  è un film leggero e divertente, forse inferiore come carica al suo prequel, ma ugualmente godibile. Pollice alzato.

Angeli e Demoni: recensione del film con Tom Hanks

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Angeli e Demoni: recensione del film con Tom Hanks

Quello che Ron Howard e Dan Brown sanno fare bene insieme è creare suggestioni. Dalle prime immagini di Angeli e Demoni della rottura dell’anello piscatorio, all’intricato thriller che mescola arte, scienza e religione.

Niente da dire quindi, grande sceneggiatura (la firma di David Koepp si avverte), ottima regia con una bella visione della scena, funzionale alla narrazione, e ovviamente incredibile colonna sonora, a tratti forse troppo discreta, del maestro Hanz Zimmer. Tutto comincia nella solennità delle stanze papali, e tutto lì finisce, ma nel mezzo l’adrenalina e inseguimenti si susseguono senza sosta fino all’ultimo, forse per qualcuno prevedibile, colpo di scena. Tom Hanks ritorna negli atletici e sicuramente più giovani panni di Robert Langdon, a risolvere enigmi su commissione, profondendosi in dettagliate descrizioni dei rituali che seguono la morte del pontefice.

La realtà del film, così familiare per gli italiani e in particolare per i romani, non è scontata per il pubblico americano, che copioso ha inondato le sale di tutto lo Stato (così com’è successo in tutto il Mondo a quanto dice il box-office). Ovviamente grande prova d’attore, forse migliore che ne Il Codice da Vinci, per Hanks e ben supportato dal resto del cast su tutti in Ewan McGregor in grande forme, affascinante pure con l’abito talare. Ma anche uno degli ultimi orgogli nazionali esportati all’estero, Pierfrancesco Favino, nei panni dell’ispettore Olivetti tiene alto l’onore di fronte a cotanto protagonista fregiato a suo tempo da due premi Oscar. Apparentemente messo a caso, il personaggio femminile di Ayelet Zurer sembra servire più alla par condicio che alla storia.

Ma protagonista indiscussa in tutto il suo splendore (ricostruito) è senza dubbio Roma, città caotica ma bellissima e misteriosa, perfetto scenario di un discreto intrigo che però lascia tiepido chi si aspetta qualcosa di più. Grande intrattenimento quindi, ma non bastano riprese acrobatiche, belle battute e colonna sonora superba per fare un buon film, ci vuole l’anima, ma forse quella si può comprare, basta guardare i risultati ai botteghini.

San Valentino di sangue 3D: recensione del film Horror

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San Valentino di sangue 3D: recensione del film Horror

Prima di iniziare con l’analisi di San Valentino di sangue 3D, vorrei porre l’accento sul successo questo film sta avendo: le sale sono sempre piene, e in alcuni casi è doveroso prenotare i biglietti ed entrare quanto prima per godere di un buon posto; gli spettatori non sono soltanto i cultori del cinema horror,  bensì giovani d’ogni sorta curiosi di vedere la violenza in 3d. Considerato lo scarso successo di molte film horror, che al cinema vedono incassi soprattutto grazie ai cultori, viene da chiedersi cosa spinge lo spettatore a scegliere di subire la violenza in maniera così diretta.

È ovviamente tutto consequenziale all’avanzamento tecnologico che ci travolge e ci investe in maniera così distruttiva da  coinvolgere anche la dimensione emotiva: l’espressione affettiva è infatti sempre più mediata dal mezzo (che sia un PC o un telefonino cellulare); il contatto viene a mancare, ed internet impera all’insegna delle nuove relazioni virtuali. Considerando ciò, è chiaro come la terza dimensione al cinema si confaccia alle esigenza di una generazione aliena sempre di più al contatto fisico.

San Valentino di sangue 3D si inserisce direttamente nella linea dei nuovi videogames che mirano sempre più alla simulazione del reale, e all’interazione diretta tra uomo e macchina: mi riferisco in maniera specifica a tutti quei giochi che simulano attività sportive, allontanando sempre di più l’uomo dalla propria fisicità; la soddisfazione è grande le nuove generazioni impazziscono per i videogiochi di calcio al punto da preferire la finzione dallo sport reale. Tenendo conto di tutto ciò, è chiaro il motivo che spinge i giovani ad affollare le sale che proiettano San Valentino di sangue in 3d piuttosto che un “banale” horror movie che si limita a mostrare la violenza entro le due dimensioni: la terza dimensione colloca lo spettatore direttamente dentro la violenza, sempre però tenendolo al sicuro da qualsiasi contatto fisico. La violenza è quindi sempre più realistica ma non reale, e rispetta le esigenze di un pubblico portato alla ricerche di esperienze virtuali. Le due dimensioni non ci bastano più. Sempre più dentro lo schermo e sempre più fuori dal corpo.  Ora, dopo questa piccola digressione, passiamo all’analisi del film.

San valentino di sangue 3D, remake di un film culto

Dedito al genere horror, Patrick Lussier, già regista di Dracula’s legacy e White Noise the light, si prodiga in un remake di un film di culto degli anni ’80 molto amato da Tarantino. Assistiamo ad uno dei rari casi in cui il rifacimento supera l’originale, non solo dal punto di vista tecnico- visto l’uso del 3d – ma anche e soprattutto grazie ad una sceneggiatura più solida. Il prodotto non potrebbe essere più classico di questo, presentando quelli che sono i topoi  del genere slasher: scene di nudo esplicito; efferati omicidi ai danni di coppie indifese; corse ed inseguimenti per  il bosco; un killer che ritorna a sconvolgere un piccolo centro dopo molti anni; e naturalmente la final girl, al centro del dramma e superstite alla strage dell’assassino.

Un horror piuttosto standard, che non sovverte le regole, né sperimenta nuovi meccanismi di tensione, ma che però riesce in ogni caso a catturare in maniera prepotente l’attenzione dello spettatore, grazie ovviamente all’uso della tecnologia 3d: la violenza è tanta, e si protende fino a quasi toccare lo spettatore, divertendo ed entusiasmando i sadici fautori del cinema estremo, impressionando e soddisfacendo le pulsioni masochiste dei più timorosi, e le curiosità dei meno vicini al cinema di questo genere.