Il presente saggio analizza una
figura tecnica e linguistica precipuamente cinematografica e l’uso
particolare che ne hanno fatto alcuni registi: il fuori campo. Ho
scritto precipuamente poiché di fuori campo si può parlare anche
per la fotografia e, volendo, per la pittura, ma nel cinema la sua
presenza è più forte, in correlazione alla specificità di
quest’arte che è, diversamente dalle altre due, è basata sulle
immagini in movimento.
Addentro, A lato, Addietro,
Altrove.
Il paradosso del fuori campo cinematografico
Sempre caro mi fu quest’ermo
colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella…
Leopardi, L’infinito
In generale, nel cinema esistono il
fuori campo visivo e quello sonoro. Il fuori campo visivo è lo
spazio diegetico escluso dal campo dell’inquadratura e suscettibile
di entrare a farne parte, nonché lo spazio non diegetico che non
potrà mai far parte dell’inquadratura. Più dettagliatamente, Noël
Burch distingue sei tipi di fuori campo visivo-spaziale: quattro di
essi corrispondono ai quattro margini dell’inquadratura (superiore,
inferiore, sinistro, destro) costituendo gli ideali prolungamenti
di questa; un quinto fuori campo è quello situato dietro un
qualsiasi elemento posto all’interno del campo visivo (ad esempio:
un personaggio dietro una porta chiusa è fuori campo); il sesto
fuori campo è invece posizionato dalla parte della macchina da
presa in una sezione di spazio che l’angolo di ripresa non include
nell’inquadratura. Quest’ultimo fuori campo costituirebbe lo
“spazio interdetto”, il “fuori campo tabù”, e cioè il luogo della
produzione materiale del film posto sempre fuori dal quadro, in cui
si trovano la troupe e le attrezzature.
I fuori campo sonori sono
classificabili secondo due criteri: acusmantico (i suoni di cui non
si individua visivamente la fonte) e diegetico/extradiegetico. Se
include tutti quei suoni la cui fonte non è individuabile
visivamente nell’inquadratura, ma che è udibile dai personaggi
della diegesi, il fuoricampo sonoro è definito “off screen sound”.
Esiste poi “la voice off” di un dispositivo sonoro (una radio, un
televisore, etc.) udibile dai personaggi, che può essere o meno
acusmantica (ad esempio, una radio visibile o meno
nell’inquadratura) e comunque sempre diegetica.
Un fuoricampo sonoro sempre
extradiegetico è quello costituito dalla musica in colonna sonora
esterna al piano della narrazione, non udibile dai personaggi della
narrazione ma solo dallo spettatore, nonché la “voice over” di un
narratore onnisciente, anch’essa non udibile dai personaggi ma
unicamente dallo spettatore. Tuttavia un fuori campo può sempre
diventare, potenzialmente, un “in campo”, allo stesso modo che ciò
che è in campo può trovarsi successivamente fuori campo. Una
porzione di spazio inizialmente esclusa dall’inquadratura ma che
viene poi, tramite un movimento della mdp o uno zoom, inclusa in
essa costituisce il fuoricampo cataforico (inquadratura
potenziale). Se invece la mdp restituirà alla visione dello
spettatore una porzione di spazio già mostrata in precedenza e
nuovamente inclusa nell’inquadratura avremo il fuori campo
anaforico (inquadratura ripetuta).
Lo spettatore presuppone il
fuoricampo. Egli integra, cioè, con l’immaginazione lo spazio della
diegesi presupponendone la continuazione oltre i bordi del quadro.
Ad esempio, se la mdp inquadra unicamente il dettaglio di piedi in
movimento, lo spettatore è naturalmente portato a presupporre una
persona che cammina e che successivamente potrà essere inquadrata
dalla mdp. In tal senso, il fuori campo è cataforico, cioè
costituisce la possibilità pura di una successiva inquadratura,
nonché la possibilità stessa del progresso della narrazione per
immagini.
Diceva André Bazin che “le cadre
est un cache”, ovvero che l’inquadratura è una benda, un
nascondiglio. Essa stabilisce il visibile e allo stesso tempo
l’invisibile. Il confine tra i due, per lo meno
cinematograficamente, non è mai netto, non solo perché l’uno
trapassa o può trapassare nell’altro, ma perché ciascuno di essi è
definito ontologicamente anche grazie all’altro, ed entrambi sono
sempre narrativamente co-implicati, esistendo in un regime di
iper-dialettica, per dirla con Merleau-Ponty (che al rapporto tra
visibile e invisibile dedica uno dei suoi ultimi scritti), dove non
esistono sintesi definitive né opposizioni unilineari, ma è
possibile una molteplicità di rapporti con una polivalenza di
significati.
Se è possibile per un regista
decidere e realizzare un “cadre”, ciò implica che automaticamente
(e/o accidentalmente) si realizzi con essa anche una “cache” sulla
quale la capacità di manipolazione del visivo di un regista sembra
venire meno proprio per il carattere di automaticità e
accidentalità che il fuori campo possiede. Vi sono però nella
storia del cinema degli autori che hanno fatto del fuori campo un
uso consapevole dal punto di vista tecnico, narrativo ed
espressivo, conferendogli un’importanza tale da riscattarlo in
parte o del tutto dal suo carattere di (almeno apparente)
automaticità e accidentalità e anzi stabilendola proprio come
figura tecnica, linguistica, stilistica. Tra gli altri ne passerò
in rassegna quattro: Renoir, Welles, Tarkovskij, Bresson.
Uno dei film dove sicuramente il
fuori campo assume particolare rilievo narrativo, è
sicuramente La regola del gioco (1939) di Jean Renoir. Il film di
Renoir, da sempre annoverato tra i capolavori della storia del
cinema, è in anticipo di due anni su quella “bibbia” delle tecniche
cinematografiche che è Quarto Potere (1941) di Orson Welles per
l’uso del piano sequenza e per il recupero della profondità di
campo. Renoir si avvale a questo scopo di obiettivi di
fabbricazione Lumiére opportunamente adattati. È certo che i fuori
campo siano messi in causa in maniera forte pressoché lungo tutta
la durata del film, ambientato per gran parte in una villa in
campagna dove un nutrito numero di aristocratici francesi tiene un
festeggiamento, mentre la mdp, fissa o in movimento ne segue i
dialoghi, le battute di caccia, i pranzi, le vicende amorose, gli
intrighi, ora incorniciati nelle architetture, ora al buio di uno
spettacolo di danza, o nei corridoi e nelle stanze da letto.
Passiamo ora ad analizzare più
dettagliatamente una scena del film: quella del pranzo dei servi
della villa. Mentre il pranzo procede, i servi si scambiano
confidenze e pettegolezzi sui signori che di cui sono o sono stati
a servizio. La mdp segue in carrellata laterale da sinistra a
destra una cameriera mentre porta a tavola tre vassoi, seguita da
un maggiordomo. Stacco. Campo medio di Lisette, serva della padrona
di casa Christine, seduta a capotavola, e altri due servi seduti
accanto a lei. Stacco. Due cuochi intenti a preparare il pasto dei
signori e criticare le loro abitudini in fatto di diete e
ossessioni alimentari. Dopo un’altra piccola carrellata in cui la
stessa cameriera vista precedentemente porta ancora il suo vassoio
attorno al tavolo, è la volta di un piano di insieme della tavolata
con Lisette a capotavola e tutti gli altri servi seduti.
Seguono dei primi piani di Lisette
che parla a due dei commensali, voltando il capo ora a sinistra e
ora a destra della mdp, finchè un nuovo primo piano su un altro
maggiordomo precede lo stacco sulla rampa di scale che conduce alla
tavolata da cui scende Schumacher, il guardiacaccia marito di
Lisette.
Mentre Schumacher scende le scale,
la mdp si avvicina a un lato della tavolata, dove il cuoco
visto precedentemente scambia un alcune chiacchiere coi commensali
“impallando” il marito di Lisette poco dietro di lui, che a passi
lenti si dirige verso la moglie seduta a tavola uscendo di campo a
destra. Mentre il cuoco esce di campo, la mdp panoramica a destra,
inquadrando così il guardiacaccia appoggiato dietro la sedia di
Lisette mentre parla con lei. La mdp compie poi un movimento
inverso al precedente, panoramicando verso sinistra rimettendo così
in campo il cuoco tornato al lato della tavolata come visto
nell’inquadratura precedente. Nel frattempo, vediamo Schumacher di
spalle, allontanatosi dalla sedia di Lisette, dirigersi dalla
destra al centro dell’inquadratura.
La mdp compie poi un ulteriore
movimento verso sinistra, lasciando la tavolata fuoricampo e
inquadrando Schumacher mentre sale le scale e incrocia il
bracconiere Marceau che scende per unirsi alla tavolata. Marceau
siede a tavola e comincia a chiacchierare con Lisette con
l’intenzione di iniziare un corteggiamento. Stacco. La mdp inquadra
in primo piano due servi seduti alla sinistra di Lisette, poi,
panoramicando a sinistra, la stessa donna che sorride a Marceau
dapprima fuori campo e poi visto di profilo. Stacco. Primo piano di
Marceau ammiccante e quinta in campo di Lisette. Stacco. Una radio
nella sala dove si svolge il pranzo ci mostra la fonte della musica
diegetica e acusmantica udita precedentemente. La dissolvenza
incrociata dell’immagine della radio con quella di un orologio da
tavolo in un salotto della villa, marca la fine della scena.
Dalla descrizione appena fatta è
evidente che qui, come altrove nello stesso film, Renoir conferisce
al fuori campo una notevole importanza. In che modo il fuori campo
entra in gioco nella scena appena descritta? Abbiamo qui sia fuori
campo visivi cataforici e anaforici nonché dei fuori campo sonori.
Il fuori campo sonoro, in particolare, è costantemente in gioco per
tutta la durata della scena. Sono fuori campo le voci di alcuni
commensali non inquadrati mentre parlano, i rumori delle posate, e
la musica proveniente dalla radio che vedremo solo alla fine della
scena.
Sembra quasi che la mdp arrivi con
ritardo a scoprire i volti di chi parla, come se la vita e il gioco
degli intrighi, dei pettegolezzi, degli amori, scorresse
indipendentemente da ciò che è dato vedere e sentire, tanto a noi
spettatori quanto agli stessi personaggi, che di volta in volta
perdono o acquistano visibilità, perdono o acquistano terreno di
gioco. È così per il marito di Lisette, Schumacher, la cui entrata
in campo è quasi subito celata, la sua visibilità ostacolata dalla
figura del cuoco che scambia pettegolezzi con i commensali. Anche
quando la macchina si sposta su Schumacher alle spalle di Lisette,
è solo per poco, poiché presto ritorna nuovamente sul cuoco,
conferendo così, all’inquadratura precedente pressoché identica, il
valore di fuori campo anaforico. Schumacher abbandona poi la sala
del pranzo, risalendo le scale e incontrando il bracconiere Marceau
che insidia giocosamente sua moglie Lisette. Marceau rimane invece
a lungo in campo, siede a tavola, e lungo è il primo piano che lo
riguarda mentre mangia lanciando occhiate complici a Lisette. Non è
casuale che il guardiacaccia sia così spesso fuori campo durante
questa scena in cui viene a delinearsi in maniera più precisa il
personaggio di Lisette, serva civettuola che accoglie il
corteggiamento di Marceau.
I pavimenti della villa dove si
svolge il film sono a scacchiera, così come la tovaglia del tavolo
nella scena presa in esame, e in effetti quasi tutti i personaggi
(tanto gli aristocratici quanto i servi) sono ben consapevoli di
condurre le proprie esistenze come un gioco in cui il calcolo, il
cinismo, le buone apparenze, sono fondamentali, ma “la regola” è
non prendersi e non prendere assolutamente nulla sul serio, meno
che mai l’amore e i sentimenti. Chi non accetta questa “regola del
gioco” è destinato a soccombere, come l’aviatore romantico
Jurieaux, o a commettere errori fatali come il guardiacaccia
Schumacher, che, convinto di sparare a Octave, altro giocoso
“spasimante” della sua Lisette, colpirà invece proprio
Jurieaux.
La scena descritta si svolge in una
cantina-cucina ai piani inferiori della villa, mentre sopra ha
luogo il rendez-vous degli aristocratici, ma anche l’ambiente dei
servi, piccolo borghesi fagocitati dall’universo dei potenti,
partecipa degli stessi giochi di questi ultimi. Ciò che accade qui
(in basso), è influenzato da ciò che accade ai piani superiori, in
alto, fuori campo e comunque condizionante. Lo spettatore è portato
a seguire con gli occhi ciò che vede nelle inquadrature, ma a
tenere viva la sua attenzione anche su ciò che non vede, su quel
gioco sotterraneo, simulato e dissimulato svelato rivelato (nel
senso di “ due volte velato”) che esclude inevitabilmente i
personaggi più sinceri come Schumacher e quelli appassionati come
Jurieaux.
La mdp di Renoir, così abile a
cogliere “il gioco dell’amore e del caso”, così attenta e lieve nel
suo aggirarsi senza centro per i labirinti della villa dove lo
sguardo si sperde, si soffermerà, nel finale, sulle ombre degli
aristocratici che a sera faranno ritorno alla villa, del tutto
passivi di fronte alla morte di Jurieaux, tagliati fuori dalla
realtà eppure colpevoli (forse proprio per la loro indifferenza e
il loro cinismo), così “fuori campo” rispetto alla disgrazia della
storia (siamo nel 1939, e il secondo conflitto mondiale è alle
porte) e così parte in causa, attori di una farsa che termina in
tragedia.
Ho scritto che La regola del gioco
è in anticipo su Quarto potere per ciò che riguarda l’uso della
profondità di campo e l’uso del piano sequenza. Tra le differenze
linguistiche che esistono tra i due film, segnalerei proprio la
diversa modalità dell’uso del fuori campo. A differenza di Renoir,
Welles cerca di includere quanti più elementi possibili in una sola
inquadratura in piano sequenza. A tal proposito cito la ben nota
scena in cui viene deciso il destino di Kane bambino che gioca
sulla neve inquadrato attraverso i bordi di una finestra, mentre la
madre, all’interno della casa, discute la possibilità del suo
affidamento con un banchiere.
La mdp di Welles crea spesso
inquadrature centripete, in cui il fuori campo è progressivamente
inglobato nell’inquadratura e viene dunque a trovarsi in campo,
dando luogo quindi a dei fuori campo cataforici. Altre volte, il
fuori campo realizza una sorta di “effetto eco” di personaggio
uscito di campo. Un esempio in questo senso è costituito dalla
scena in cui Susan abbandona Kane, passando attraverso delle porte
e uscendo dalla reggia di Xanadu (e dalla vita di Kane), e
venendosi così a trovare fuori campo. Di fatto, Susan esce dalla
vita di Kane e questi sprofonderà sempre più nella propria
monolitica solitudine su cui grava l’eco dell’abbandono da parte di
sua moglie da lui stesso provocato.
Veniamo ora ad analizzare una scena
in cui il fuori campo è usato come espediente tecnico e figura
stilistica al contempo. La scena è tratta dal film Andrej Rublëv
(1966), di Andrej Tarkovskij. Siamo poco dopo la metà del film,
quando la città di Vladimir è stata saccheggiata da un esercito di
tartari in complotto con dei russi, i quali hanno fatto irruzione
nella cattedrale dell’Annunciazione. Tra i cadaveri nella chiesa
semidistrutta, vi sono due superstiti: il pittore-monaco Andrej, e
una donna sordomuta, che poco prima ha subito un tentativo di
stupro da parte di un soldato russo, ucciso dal pittore.
Sconvolto, Andrej ha una visione di
Teofane il Greco, anziano pittore suo maestro, morto alcuni anni
prima. I due iniziano a parlare e Andrej palesa a Teofane il
proprio turbamento circa gli episodi da poco accaduti, che lo hanno
visto, tra l’altro, assassinare un uomo, e il pittore, colmo di
sfiducia per gli uomini e sconvolto dalla loro crudeltà, matura il
proposito di osservare un voto di silenzio e di non dipingere
più.
Per tutto il dialogo tra i due
personaggi, il fuori campo viene impiegato da Tarkovskij in maniera
significativa come espediente tecnico volto ad connotare in senso
espressivo lo sconforto di Andrej e il suo senso di smarrimento,
nonché il suo dialogo “impossibile” con il morto Teofane in
un’atmosfera oniroide.I due personaggi vengono a trovarsi di volta
in volta in posizioni non plausibili rispetto alle loro uscite di
campo. Mi spiego meglio: un personaggio lasciato fuori campo a
sinistra dell’inquadratura, viene poi a trovarsi, senza stacchi e
senza che egli passi davanti alla mdp, a destra, e viceversa. In
pratica, Tarkovskij fa muovere il personaggio dietro la macchina da
presa per poi farlo passare dal lato opposto nell’inquadratura
successiva, quando tornerà in campo, raggiunto dal movimento della
mdp, valorizzando così quel sesto fuori campo interdetto di cui
parla Noel Burch.
Come è possibile notare dalle
immagini, in oltre, i due personaggi sono illuminati in maniera
differente: Andrej resta più spesso in ombra, mentre su Teofane
scende una luce più intensa, che sembra connotarlo come visione
onirica del pittore giovane. La scelta stilistica di Tarkovskij si
rivela, seppure ardita, pienamente coerente con la situazione messa
qui in scena e pertanto motivata dal punto di vista narrativo. Il
fuori campo appare, nell’opera del regista sovietico, come uno
degli elementi più rilevanti del suo stile registico.
Tornano utili, adesso le definizioni del fuori campo fatte da
Gilles Deleuze. Egli distingue infatti un fuori campo relativo (a
una singola inquadratura intesa come taglio parziale e prelievo da
un ambiente più vasto) e uno assoluto (in cui l’inquadratura è
taglio totale in rapporto a ogni campo possibile), da lui
rinominati rispettivamente l’ “a-lato” e l’“altrove”. Scrive
infatti il filosofo francese: “Ogni inquadratura determina un fuori
campo. Non vi sono due tipi di quadro di cui uno soltanto
rinvierebbe al fuori campo, ma due aspetti assai differenti del
fuori campo di cui ognuno rinvia a un modo di inquadratura” .
Per avvalerci della terminologia
deleuziana (qui, e in seguito a proposito del fuori campo in
Bresson) potremmo dire che Tarkovskij oscilla tra l’ a-lato e
l’altrove. Pur essendo Teofane visibile (a noi spettatori come ad
Andrej), pur potendosi trovare “a-lato”, fuori campo rispetto allo
spazio concreto degli interni della cattedrale di Vladimir, egli è
al contempo presenza di un non specificato “altrove”, morto
parlante di un aldilà non specificato, emanazione onirica della
coscienza sconvolta di Andrej. Questo perchè i movimenti che compie
fuori campo lo mostrano poi alternativamente ai due opposti lati
del quadro, lo connotano come figura sospesa tra il reale e
l’irreale, tra l’attuale e il virtuale, oscillante tra uno spazio
immanente (a- lato) e concreto e un altro (altrove) trascendente e
possibile, di cui Tarkovskij fa comunque sentire in qualche modo la
presenza.
L’altro regista che mi propongo di
analizzare a proposito del fuori campo è Robert Bresson. Accade più
spesso che il fuori campo Bressoniano sia invece assoluto, sia cioè
un altrove più che un a-lato. Nel cinema del regista francese sono
frequenti le inquadrature di dettagli e particolari cui manca
spesso un piano di insieme o un totale che connoti in maniera
precisa l’ambientazione. Penso ad esempio al film Lancillotto e
Ginevra (1974) in cui la sequenza del torneo dei cavalieri viene
girata unicamente attraverso il succedersi di inquadrature di
lance, dettagli di zoccoli e ventri di cavalli montati dai
partecipanti.
Le inquadrature di Bresson
innescano un tipo particolare di paradosso. Sono dettagli,
dicevamo, il massimo cioè, dell’evidenza fotorealistica del mondo
quotidiano, ma tale mondo non è rappresentato nelle sue proprietà
spaziali concrete, bensì frammentato, rimandando a un Altrove
assoluto, a un ambiente mai attuale e sempre virtuale perchè mai
dato nelle inquadrature, che esiste unicamente e continuamente come
spazio del possibile.
Dai casi presi in esame appare evidente come alcuni autori (ma se
ne potrebbero citare anche altri, da Ophuls a Kubrick a Leone a
Truffaut) abbiano conferito al fuori campo un valore di pratica (lo
hanno cioè attivato consapevolmente) tecnica, narrativa,
espressiva, stilistica, concettuale estremamente rilevante. Di più:
essi hanno posto l’accento su ciò che nel cinema, fatto di immagini
in movimento visibili, è invisibile in quanto non è immagine, non è
in campo. Del resto, per il poeta citato in apertura del saggio,
l’infinito non sarà visibile perché l’ultimo orizzonte è celato da
una siepe, che invece è ben visibile, ma sedendo e mirando
interminati spazi di là da quella….