Frankenstein di Guillermo del Toro è finalmente nelle mani di tutti. Il film, scritto e diretto dal regista messicano e ispirato al celebre romanzo Frankenstein, o il moderno Prometeo di Mary Shelley, è stato distribuito su Netflix il 7 novembre ed è stato in concorso alla 82ª edizione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Nel cast figurano Oscar Isaac, Jacob Elordi, Mia Goth e Christoph Waltz. E dopo averlo visto, la domanda sorge spontanea: è lui il film “summa” di Del Toro?
Dal libro… a Guillermo del Toro
Dopo il successo del suo Pinocchio, premiato agli Oscar, Del Toro torna a confrontarsi con la letteratura classica e con una delle figure più emblematiche della narrativa gotica. Un progetto che sognava da oltre un decennio – fin dal 2010 – e che ora sembra pronto a diventare il manifesto definitivo della sua poetica cinematografica. Lo pensavamo prima che uscisse, ora è certo: Del Toro ha seguito, bene o male, la storia originale (sia a livello di veicolazione del messaggio che di impostazione), arricchendola però con la sua visione autoriale.E l’idea che la creatura di Frankenstein possa rappresentare il “mostro” per eccellenza del suo cinema non appare affatto azzardata. Per capirlo, però, bisogna partire dal principio.
I mostri di Guillermo del Toro
Guillermo del Toro ama i mostri. Sono loro il cuore pulsante del suo cinema: creature orrorifiche ma dolenti, protagoniste di fiabe dark che mettono in discussione l’umanità. Per lui, il monstrum non è un’entità negativa. Al contrario, incarna un Bene nascosto, frainteso, che la società condanna solo perché diverso. È su questo sguardo che si fonda l’intera visione autoriale del regista. Del Toro racconta l’Altro – il diverso, l’emarginato – perché è da lì che viene.
Le sue creature sono figure tragiche, spesso più umane degli uomini stessi, immerse in contesti storici segnati da violenza, guerra e oppressione. Ed è proprio l’uomo, il “normale”, a risultare spesso il vero mostro. E in Frankenstein, lo stesso uomo, alla fine, lo ammette.
Frankenstein: la sua creatura è davvero il suo mostro per eccellenza?
Due tra i suoi film più acclamati, Il labirinto del fauno e La forma dell’acqua, incarnano perfettamente questo principio. In entrambi i casi, Del Toro inserisce figure inquietanti – il Fauno e l’Uomo Anfibio – che inizialmente suscitano diffidenza ma si rivelano strumenti di salvezza per le protagoniste, a differenza dei loro antagonisti umani: il capitano Vidal e il colonnello Strickland.
Il Fauno guida Ofelia verso una verità nascosta – forse verso la morte, forse verso un ritorno al suo regno sotterraneo – ma è il crudele Vidal, simbolo del potere fascista, a toglierle la vita. L’Uomo Anfibio, invece, viene studiato come cavia militare e brutalizzato. Eppure salva Elisa, restituendole una nuova esistenza. In entrambi i film, perciò, i mostri sono salvifici. Mettono in luce la degenerazione dell’essere umano, la sua incapacità di accettare ciò che non comprende.
Con Pinocchio, il discorso si evolve. Il burattino, questa volta, è una creazione recente. Non nasce già “altro”, ma viene plasmato da un uomo – da un padre – e cresce in un contesto che prova a cambiarlo. Pinocchio è ribelle, curioso, pieno di slancio infantile verso la conoscenza e la bellezza. La sua scelta finale – schierarsi contro il Male, incarnato da Benito Mussolini – è un atto di libertà morale. Ed è proprio da qui che Del Toro approda naturalmente a Frankenstein. Se il Fauno e l’Uomo Anfibio sono creature già compiute, e Pinocchio un’anima in formazione che sceglie il Bene, la creatura di Frankenstein si pone in mezzo: è un essere che nasce neutro, ma viene corrotto. E non trova un vero e proprio lieto fine.
Una riflessione sul mondo
Nel romanzo originale di Mary Shelley (così come nel film), la creatura è inizialmente pura. È come un neonato gettato nel mondo: non conosce odio, dolore, nemmeno linguaggio. Un po’ come Pinocchio, a ben pensarci. Victor Frankenstein, però, la rifiuta. Non riesce ad accettare ciò che ha generato. La creatura impara a vivere da sola, spia una famiglia per apprendere emozioni, sogna il Bene. Ma viene respinta, odiata, tradita. Ed è lì che qualcosa si spezza.
Da spettatore silenzioso e sensibile, diventa assassino. Uccide, si vendica, agisce per rabbia. Non perché malvagio, ma perché ferito. La sua evoluzione – da innocente a mostro – è causata interamente dal comportamento umano. Del Toro, che ha sempre mostrato come i suoi mostri incarnino una purezza alternativa rispetto al mondo, trova proprio in questa figura il punto più profondo della sua poetica. Frankenstein non è una creatura che nasce mostro: lo diventa per colpa dell’uomo. È l’incarnazione materiale delle sue colpe, delle sue paure, della sua violenza. Questo lo vediamo sin dall’inizio anche nel film: Victor, che dovrebbe essere suo padre, lo tratta con disprezzo. Lo ferisce – anche fisicamente – con costanza, finché non tenta di bruciarlo vivo.
Tutto perché la Creatura pronuncia solo il suo nome – che, come dirà Elizabeth, “significa tutto per lui” – ma per lo scienziato è solo un errore di creazione. Da questo momento in poi non c’è più un confine netto tra Bene e Male. Nella Creatura convivono entrambi. Ma a prevalere è il Male che ha assorbito dal mondo e dal suo stesso padre. Ed è come se, attraverso di lei, Del Toro volesse mostrarci quanto facilmente la crudeltà umana possa deformare persino ciò che nasce incline al Bene – specie se trasmessa dalle persone che amiamo o che abbiamo accanto.
Il mostro perfetto per il suo cinema
La Creatura di Guillermo del Toro ne è consapevole più di tutti gli altri mostri raccontati nelle sue pellicole. Anzi, è come se fosse la rappresentazione di tutti loro. Capisce che l’uomo è egoista, che può essere malvagio, e sa che non accetta nulla che esca dai suoi canoni distorti. Lo dice lui stesso in una frase commovente: “Forse era così che andava il mondo. Vieni cacciato e ucciso solo perché sei quello che sei.” È da lì che parte tutto: la ricerca, la rabbia accecante. E quando alla fine arriva il perdono della stessa Creatura, assume un significato ancora più potente. In quel momento c’è la summa di tutto: c’è l’uomo che capisce di essere mostro – lo stesso Victor lo ammette: “Il mostro sono io”– e c’è il mostro che sa di poter essere più uomo dell’uomo stesso.
L’uomo mostro, il mostro uomo
Il libro di Shelley lo diceva bene: viviamo in un mondo che ci rende cattivi, che è cattivo, e che, senza rendersene conto, condanna l’altro a credere di essere peggio di lui. L’altro che nasce puro, incontaminato, e una volta messo al mondo affronta una prova difficilissima: dover combattere contro tutti gli orrori che vede per non soccombere a essi. E quando ce la fa – quelle poche volte – l’altro, il Mostro, il diverso, diventa anche la prova che si può sempre tornare indietro. Anche quando si hanno tutte le ragioni per lasciarsi travolgere dall’odio.
Ci insegna che si può essere migliori. Anzi, che chi è migliore è proprio colui che si etichetta come il male. Per tutte queste ragioni, Frankenstein rappresenta il punto di sintesi più potente del cinema di Guillermo del Toro: un film che, anche attraverso una rilettura personale della storia, diventa il suo manifesto definitivo. Perché la vera paura – e Del Toro ce lo ricorda da sempre – non risiede nelle creature diverse da noi, ma negli occhi che le guardano. E questa è un’opera che parla del nostro tempo più di quanto vorremmo ammettere.

