Asteroid City, recensione del film di Wes Anderson – Cannes 76

Il regista torna al Festival a due anni da The French Dispatch

asteroid city recensione

Per qualcuno il suo ultimo The French Dispatch è stato il film più emozionante del Festival di Cannes del 2021, e il più deludente, e a distanza di due anni il nuovo film di Wes Anderson sembra essere sulla stessa lunghezza d’onda. Di nuovo sulla Croisette per Asteroid City, di nuovo in concorso per la Palma d’Oro con un affresco dei suoi, costruito su diversi livelli e sceneggiato insieme a Roman Coppola, ma soprattutto nel quale – con Jason Schwartzman e Scarlett Johansson (la cui “breve nudità” ha causato problemi con la censura) – appaiono in ruoli diversissimi tra loro Tom Hanks, Jeffrey Wright, Tilda Swinton, Bryan Cranston, Adrien Brody, Margot Robbie e Steve Carell.

 

Benvenuti ad Asteroid City

Nulla è reale ad Asteroid City, come vediamo sin dalla prima scena, nella quale un autore (Edward Norton) sta scrivendo la storia di una occasionale e variegata comunità, raccolta nel deserto del SouthWest statunitense – forse tra Arizona e Nevada – per il raduno di “giovani astronomi e cadetti spaziali” che riunisce studenti dotati e i loro genitori in una località caratterizzata dalla caduta di un piccolo meteorite ormai circa 3.000 anni prima.

L’ambientazione e – soprattutto – gli eventi eccezionali che vi si svolgono e che vediamo mentre vengono letteralmente messi in scena sono quelli della fantascienza di una volta, ma le relazioni che si stabiliscono tra gli 87 abitanti e i suddetti visitatori sono quanto di più umano ci sia. E di coerente con i precedenti del regista, tra militari pomposi, scienziati alienati, attori famosi e meno famosi, cantanti country e famiglie disfunzionali di ogni tipo.

Wes Anderson sci-fi contro l’Intelligenza Artificiale

Non è detto che Wes Anderson apprezzerebbe di veder definito il suo film “delizioso”, come in molti hanno fatto. Soprattutto dopo tanti precedenti nei quali però il gusto estetico e il talento decorativo del regista texano erano sicuramente più funzionali alla storia narrata. Che qui, al contrario, e come nel precedente The French Dispatch, sembra più finalizzata a permettergli di sfogare il suo estro e regalare al suo pubblico più appassionato quei ‘dettagli’ che tanto ce lo hanno fatto amare.

Nei tableaux che compone ognuno può trovare quel che vuole, da Billy Wilder a Steven Spielberg, dalle tragedie esistenziali e familiari di frontiera ai B-movie di fantascienza anni 50, con i quali il film ha in comune un narratore (Bryan Cranston) da dramma radiofonico. Tra set televisivo e teatro, dal bianco e nero alla solita palette di colori caldi e pastello, il fine settimana intorno al cratere nel deserto si sviluppa gradualmente, come gli intrecci tra i suoi protagonisti.

Su tutti il vedovo fotografo di guerra Augie Steenbeck (Jason Schwartzman), diviso tra figli, suocero (Tom Hanks) e la star Midge Campbell (Scarlett Johansson), fotografata in bagno in pose che vanno dalle Pin Up dell’epoca al Marat di Jacques-Louis David. Grandi nomi, che difficilmente potranno ambire a una nomination agli Oscar per la mancanza della possibilità di offrire una vera interpretazione, a differenza di quanto accaduto in passato per le candidature raccolte dai suoi film – non a caso per animazione, colonna sonora e sceneggiatura – o i premi andati ai costumi, la scenografia e il trucco ottenuti di Grand Budapest Hotel nel 2012.

Nella vita, “non puoi sapere cosa succederà”

Ma non importa. Come dice Bryan Cranston è come nella vita, “non puoi sapere cosa succederà, quanto durerà o chi incontrerai, devi solo andare avanti”. E, incurante di renderla comprensibile, Wes continua a raccontare la storia che ha dovuto girare approfittando persino della pandemia e della vera quarantena che stavamo vivendo nel mondo reale, prima che in quello rappresentato sullo schermo. Nel quale tutto viene sublimato, non è una novità, ma dove le cose spesso assumono contorni e significati diversi, o addirittura mai sottesi al significante.

Ma non importa nemmeno questo, dove sia il confine – o dove lo si superi – tra la creazione originale dell’artista o quella rielaborata dallo spettatore. Tanto più in una pièce così strutturata, che cambia continuamente di piano – dalla Asteroid City rappresentata al backstage dove i suoi interpreti tornano attori (che interpretano attori) – in un gioco di scatole cinesi. In ciascuna delle quali c’è un pezzetto del cuore del regista, una sua paura, un trauma irrisolto, o trasformato in topos.

Meno slegato e inutilmente denso dell’ultimo, con qualche – apprezzatissimo – inserto animato, ovviamente nella stop motion più artigianale possibile, qui l’unità di luogo aiuta sicuramente a non perdersi tra tante divagazioni e intermezzi. Forse non del tutto giustificate o necessarie, per una volta. Una volta di più, purtroppo, ché l’analisi del mondo del teatro e della televisione, dopo quello del giornalismo di The French Dispatch, offre sì uno smascheramento della realtà, ma fa sentire la mancanza di storie tanto articolate quanto riuscite, nelle quali l’accumulo di situazioni, battute, fotografie, personaggi, rendesse la sensazione di un film e non di una striscia domenicale.

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