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Cella 211: recensione del film di Daniel Monzòn

Cella 211: recensione del film di Daniel Monzòn

“Forse si mettono a un uomo i ferri ai piedi solo perché non fugga o ciò gli impedisca di correre? Niente affatto. I ferri non sono altro che un ludibrio, una vergogna e un peso, fisico e morale. Così almeno si presuppone. Essi non potranno mai ad alcuno impedire di fuggire. Il più inesperto, il meno abile dei detenuti saprà ben presto, senza gran fatica, segarli o farne saltare la ribaditura con un sasso.” Così Dostoevskij, in Memorie da una casa di morti e nell’incipit di questa recensione. In Cella 211, in cui si parla proprio di detenuti che riescono a fare saltare i propri ferri, tutto inizia però con una ferita, quella di un detenuto che si taglia le vene e tutto prosegue con un buon livello di tensione emotiva.

Il regista stesso Daniel Monzòn (El corazon del guerriero, El robo mas grande jamàs contado, La caja Kovak) ha parlato di ferite a proposito del film, ferita che scava dentro e fa male come poche perché “spiega la nostra fragilità e parla di come la vita di ognuno di noi sia appesa ad un filo.” Questa ferita è la storia di Juan Olivier, che dovrebbe iniziare il suo lavoro come secondino per un carcere di massima sicurezza. Dovrebbe, perché un frammento di intonaco del braccio più turbolento del carcere gli cade addosso e lo colpisce alla testa. Le guardie lo distendono temporaneamente nella cella 211, quella del detenuto morto suicida, ma non hanno il tempo di rianimarlo che i detenuti più pericolosi, guidati dal loro leader Malamadre, scatenano una rivolta e assumono il pieno controllo del carcere. Una volta rinvenuto, Juan non avrà altra scelta che fingersi detenuto a propria volta, tentando così di salvarsi, ma il gioco si rivelerà estremamente pericoloso…

Cella 211 uscirà nelle sale italiane il 16 aprile, distribuito dalla Bolero film. Il film è stato presentato all’ultimo Festival di Venezia nelle giornate degli autori e ha vinto 8 premi Goya nel suo paese d’origine, tra cui quello per Miglior Film, Miglior Regia e Miglior Attore. Il film è tratto dal romanzo di Francisco Pèrez Gandul, che ha affascinato molto affascinato il regista con la sua tensione e i suoi colpi di scena nonché per la descrizione di un universo realistico e di grande umanità.

Per filmare questo universo, la mdp (non è mai superfluo ricordare che si tratta di una digitale) si mette a servizio dei personaggi, priva di tecnicismi lambiccati e artifici stilistici, adottando uno stile di ripresa che alterna la macchina a mano a inquadrature fisse, intensissimo ed essenziale, ma sicuramente non povero di spettacolarità, per quanto il modello registico di Monzòn fosse, a suo dire, il documentario. Del resto, il regista ha all’attivo dei film particolarmente dinamici, forti di azioni spettacolari.

C’è una parte della critica che si sente chiamata a storcere pressoché aprioristicamente il naso dinanzi a quelle opere europee che peccano nell’avere un sapore simile ai blockbuster USA (e getta). In effetti il film appartiene a un genere largamente sperimentato dall’industria hollywoodiana, quello carcerario, e c’è da dire che spesso gioca a infilare scene madri –pestaggi, morti, e il rapporto tra Juan e Malamadre – una dietro l’altra (perdonabili, comunque, perché almeno non stupidamente gratuite), ma sarebbe un errore, bollarlo negativamente solo perché in parte riconducibile a una cinematografia hollywoodiana ad alto tasso spettacolare. Del resto, perché vergognarsi di essere spettacolari (o competitivi sul mercato che è dominato dagli USA), se si riesce a fare comunque un film valido?

Perché Cella 211 non è un capolavoro ma è un film interessante e ricco di tensione. Interessante, anche per come mostra luci e ombre degli esseri umani (di nuovo Dostoevskij, che certo Monzòn non ha scomodato) a contrasti forti come nella fotografia del folgorante incipit, contrasti che sono tanto dei detenuti quanto dei secondini e politicanti impegnati nelle trattative coi carcerati, tutti un po’ doppiogiochisti, chi più chi meno.

Si può lamentare, in effetti, il fatto che questo film non sia sceso tanto nel profondo lì dove poteva insistere di più, cioè proprio sui rapporti tra i personaggi, che sembrano a tratti ovvi e non compiutamente sviluppati e lasciati a un cliché di amicizia virile. Ma più che lamentare quello che a un film manca, e prima di rimpiangere altri grandi oggi dimenticati che si sono cimentati con il film carcerario senza essere americani né europei (Yilmaz Guney: chissà come e che film girerebbe oggi e se fosse accusato di essere anche lui vittima dello stereotipo carcerario hollywoodiano), è bene dire di quanto invece offre.

Se condividiamo le parole di Samuel Fuller nel godardiano Pierrot le fou, secondo cui un film è un campo di battaglia con amore odio violenza morte, in una parola “emozione”, ecco che siamo confermati nella nostra prima impressione a proposito di questo film. È una ferita. Ed emoziona!

Remember Me Premiere

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Ieri 1 Marzo a New York c’è stata la proiezione premiere di Remember Me, ultimo film dell’amatissimo Robert Patinson.

Ecco qualche foto della serata:

Per gli amanti del gossip…alla proiezione era presente anche Kristen Stuart, che è volata fino a NY nello stesso aereo di Rob, e ha occupato la poltrona al suo fianco in sala…

La Fox 2000 per Incarceron

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La Fox 2000 è riuscita ad avere i diritti di Incarceron, primo volume della trilogia fantasy di Catherine Fisher, che quindi sbarcherà presto al cinema.

Il romanzo dell’autrice inglese è uscito nel 2007 nel Regno Unito, diventando subito un piccolo cult per gli appassionati del genere. Il romanzo, rivolto a un pubblico tardo-adolescenziale, è uscito da poco anche negli Stati Uniti, e ha suscitato l’interesse di vari studios cinematografici.

Ora la Fox spera di avviare una saga che possa prendere il posto del franchise di Harry Potter, ormai avviato verso la sua naturale conclusione.

Nel frattempo è uscito anche il secondo volume della saga, Sapphique. I romanzi non sono ancora stati pubblicati in lingua italiana.

Di seguito la trama e il booktrailer:

Incarceron è una prigione così vasta che contiene non solo celle, ma anche foreste di metallo, città abbandonate e grandi terre selvagge. Finn, un prigioniero diciassettenne, non ha ricordi della sua infanzia, ma è sicuro di essere nato fuori da Incarceron. Ma sono in pochi a credere all’esistenza di un Fuori, quindi la fuga sembra impossibile. E poi Finn trova una chiave di cristallo che gli permette di comunicare con una ragazza di nome Claudia, che afferma di vivere Fuori: è la figlia del Guardiano di Incarceron, dice, ed è condannata a un matrimonio combinato. Finn è deciso a evadere dalla prigione, e Claudia crede di poterlo aiutare. Ma non sanno che Incarceron nasconde molti segreti, e che per fuggire servirà tutto il loro coraggio; e che la fuga costerà più di quanto possano immaginare. Perché Incarceron è vivo.

Immaginate una prigione vivente, così vasta da contenere corridoi e foreste, città e mari. Immaginate un prigioniero senza ricordi, certo di provenire da Fuori, anche se la prigione è sigillata da secoli e soltanto un uomo – per metà vero e per metà leggenda – è mai evaso. Immaginate una ragazza in un grande maniero, in una società che ha proibito il tempo, imprigionando tutti in un mondo seicentesco ma controllato dai computer; condannata a un matrimonio che non vuole, coinvolta in una congiura assassina che teme e desidera allo stesso tempo. Uno dei due è dentro, l’altra è fuori. Ma entrambi in catene. Immaginate una guerra che ha scavato la Luna, sette anelli a forma di teschio che contengono anime, una nave volante e una muraglia ai confini del mondo. Immaginate l’impensabile. Immaginate Incarceron.

The Hobbit in 3D?

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Sul forum del sito TheOneRing.net, del Toro ha mantenuto la promessa di tenere i fan aggiornati sulla questione, scrivendo che, proprio in virtù degli straordinari risultati del film di Cameron, la produzione ha iniziato a chiedere a lui e a Peter Jackson se anche i loro due film tratti dal romanzo di Tolkien possano essere girati in 3D.

127 ore per Danny Boyle

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127 ore per Danny Boyle

Dopo la gloria e i premi che ha raccolto con The Millionaire, Danny Boyle è stato ricoperto di importanti offerte per dirigere film grossi e importanti, ma  ha deciso di dedicarsi a un progetto molto più piccolo e, sicuramente, molto complicato.

Il film in questione è 127 Hours, la storia dello scalatore Aron Ralston, che rimasto intrappolato per sei giorni sotto un macigno si è poi amputato da solo un braccio riuscendo a sopravvivere. Nel ruolo del protagonista è già stato scritturato James Franco, e se l’attore in sé è una garanzia, restano molti dubbi su come il regista riuscirà a sviluppare in modo convincente una storia che ha un unico personaggio bloccato nello stesso posto per tutta la durata del film. In un’intervista a Empire, Boyle ha ammesso la “follia” intrinseca in un progetto del genere, ma ha spiegato le sue idee per rendere la cosa interessante:

Abbiamo pensato che, dal momento che ci sono così pochi personaggi, useremo due direttori della fotografia: Anthony Dod Mantle, che ha fatto 28 giorni dopo, e Enrique Chediak, che ha fatto 28 settimane dopo. Uno è nordeuropeo e l’altro sudamericano. Daranno al film apporti differenti, come in un film convenzionale dove ci sono un personaggio comico e un cattivo.

Sicuramente un’idea interessante, che però ancora non basta a rassicurare circa l’assenza di personaggi di supporto e di dialoghi. Nel cast compaiono anche Amber Tamblyn e Kate Mara come personaggi di contorno. In realtà, come ci spiega il regista, l’assenza di dialoghi con altri personaggi non implica però l’assenza di… monologhi:

Ci sono dialoghi all’inizio e alla fine, ovviamente, ma per tutto il film non ha nessuno con cui parlare. Ciò che abbiamo scoperto però è che [Ralston] aveva con sé una videocamera, e che ha registrato sei o sette messaggi, rivolti a coloro che pensava si sarebbero rattristati per la sua scomparsa, essenzialmente dei messaggi di addio. Abbiamo avuto modo di vederli, anche se lui tende a non mostrarli a nessuno. Quindi se volete sì, c’è del dialogo, con un futuro che lui pensa di non avere.

Jolie per Aronofsky?

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Dopo aver abbandonato il sequel di Wanted per recitare (forse) in Gravity di Alfonso Cuaron, Angelina Jolie è ora in trattative con Darren Aronofsky per il suo nuovo film, intitolato Serena…

 

Capitan America a giugno

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Capitan America a giugno

Un nuovo casting call di The First Avenger: Captain America, ripreso da Feature Film Casting, svela altri dettagli sull’inizio delle riprese del film di Joe Johnston, che negli ultimi giorni è stato oggetto di rumors scoraggianti riguardo alla possibilità che il regista si fosse allontanato dal progetto e le riprese fossero state rinviate.

In realtà il casting call conferma le riprese per l’estate 2010, e anzi fissa una data precisa:

“Le riprese inizieranno il 28 giugno 2010, l’uscita è fissata per il 22 luglio 2011.”

Gli studios coinvolti nella produzione sono Paramount Studios, Arad Productions e Marvel Studios. Nel giro di poco tempo, dunque, dovremmo scoprire chi interpreterà il protagonista Steve Rogers.

Prime immagini dal set di Knockout

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Dal set di Knockout arrivano le prime immagini, il nuovo film di Steven Soderbergh, con protagonista Gina Carano, lottatrice di arti marziali, insieme a Ewan McGregor e un barbuto Antonio Banderas…

 

The Wolfman: recensione del film con Benicio Del Toro

The Wolfman: recensione del film con Benicio Del Toro

Due premi oscar riuniti per The Wolfman, il remake del celebre uomo lupo di Lon Chaney jr datato 1941 e diretto da George Waggner, Benicio Del Toro nei panni di Lawrence Talbot ed Anthony Hopkins in quelli del padre padrone John Talbot. Ormai era rimasto uno dei pochi classici senza remake e la moda di oggi non poteva risparmiarsi dal ripescarlo a dispetto di una crisi di idee che sembra circondare il settore cinematografico pieno com’è di sequel, prequel e compagnia bella.

Questa pellicola ha avuto una lavorazione difficoltosa, dal regista Mark Romanek che lascia la direzione per problemi col cast, a molte scene rigirate varie volte fino alla laboriosa e complessa resa del make up “lupesco” di Benicio Del Toro affidato al leggendario truccatore Rick Baker vincitore di ben 6 premi Oscar. The Wolfman come detto, ricalca fedelmente la sceneggiatura del predecessore, aggiungedovi elementi per così dire “modernistici”, volti forse ad avvicinare un pubblico di teenager, i riferimenti vanno alle numerose scene dal sapore splatter ad una atmosfera decisamente tetra che ricorda da vicino Il mistero di Sleepy Hollow di Tim Burton

The Wolfman però scorre via senza suscitare particolari entusiasmi, rimanendo sì un’opera piacevole, ma priva di particolari picchi; sarà anche colpa dell’avvicendamento alla regia, il buon Johnston non osa granché ma anzi resta sulla falsariga di un canovaccio narrativo forse troppo poco “esplosivo” per un film horror.

Restano comunque le ottime interpretazioni di un Hopkins in stato di grazia, profondamente dentro al suo ruolo, una doppia personalità resa credibile anche dal trucco che lo invecchia decisamente, ed un Benicio Del Toro che rende bene le inquietudini del suo personaggio in preda alle pulsioni animalesche, così come alle paure che ne discendono. Poteva essere un gran film ma è riuscito solo a metà restando su una sufficienza che forse farà felici solo coloro che cercano le classiche due ore da passare con un blockbuster americano.

Ancora voci su the Nolan Brothers

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Christopher Nolan supervisionerà lo sviluppo di Lanterna Verde, The Man of Steel (che verrà diretto da suo fratello) e The Flash, e dopo Batman 3 dirigerà la Justice League

Nicole Kidman e Brooklyn Decker per Sandler

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Adam Sandler sta allestendo un cast femminile davvero notevole per la sua nuova commedia, intitolata Just Go With It.

The Flash ci siamo!

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The Flash ci siamo!

Sembra finalmente partire il progetto di uno dei cinecomic più attesi dagli appassionati di fumetti di tutto il mondo, quello dedicato al fulmineo supereroe dalla DC Comics The Flash.

Transformers 3 a Chicago e Mosca.

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Transformers 3 a Chicago e Mosca.


Il sito ufficiale del regista Michael Bay ha pubblicato la notizia su due location in cui verranno girate due scene d’azione di Transformers 3, e più precisamente Chicago e Mosca.


Il terzo capitolo della saga sarà interpretato ancora una volta dalla coppia di giovani star formata da Shia LaBeouf e Megan Fox, ed uscirà nelle sale americane il 1 luglio del 2011.

Ricordiamo che il secondo capitolo uscito lo scorso anno soltanto negli Stati Uniti ha incassato più di 400 milioni di dollari.

 

Conferme per Zoolander 2

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Conferme per Zoolander 2

Dopo anni di attesa, la Paramount ha finalmente dato il via libera al sequel di Zoolander, cult movie del 2001 con Ben Stiller, che sarà scritto e diretto dallo sceneggiatore di Iron Man 2, Justin Theroux.

Damon diventa R.F. Kennedy

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L’attore Matt Damon, fresco di nomination all’Oscar per Invictus, interpreterà ora il senatore Robert F. Kennedy in un nuovo biopic, diretto dal regista di Seabiscuit Gary Ross.

Uscite al cinema 25 febbraio

Uscite al cinema 25 febbraio


Codice Genesi: diretto dai fratelli Hughes il film racconta di mondo devastato da una guerra mondiale, dove le bombe atomiche non hanno lasciato altro che desolazione. Solo i più forti sono sopravvissuti e tra questi c’è Eli(Denzel Washington) che, armato di macete e sorretto da una saldissima fede, attraversa l’America per compiere la sua missione.

 

Goyer, e Brothers Nolan per Superman

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Goyer, e Brothers Nolan per Superman

David S. Goyer, sceneggiatore di film come Batman Begins e Il Cavaliere Oscuro, scriverà Man of Steel – il reboot di Superman – su supervisione di Christopher Nolan.

E’ LatinoReview a dare lo scoop: lo sceneggiatore di Blade, Ghost Rider 2, di Batman Begins e autore della storia del Cavaliere Oscuro David S. Goyer scriverà la storia di Man of Steel – attuale titolo del nuovo film di Superman.

Ecco i dettagli: Goyer sta solo aiutando la stesura della storia di Batman 3, proprio come fatto nel Cavaliere Oscuro, e quindi potrà occuparsi di Man of Steel. E’ stato Thomas Tull, a capo della Legendary Pictures, a decidere repentinamente di contattare Goyer chiudendo le infinite discussioni con la DC Entertainment. Goyer aveva una idea che riporta il film ai tempi dell’incarnazione di John Byrne, un film credibile e moderno. Il film non verrà chiamato Superman ma Man of Steel. Non ci sarà Brandon Routh, e neanche… Nicolas Cage. Bryan Singer non sarà il regista. Mark Millar non verrà coinvolto, principalmente perché è sempre stato antipatico a Paul Levitz.

La storia di Goyer coinvolge sia Lex Luthor che Brainiac. Non è una storia di origini: il pubblico sa già la storia di Superman. Il Daily Planet ha problemi a causa di internet, e la storia è legata immensamente alla mitologia della Kryptonite.

Inoltre a sostenere lo scoop ci sono pezzi di Variety e IGN.com che hanno contattato il responsabile dela Legendary Pictures:

Variety – l’autorevole agenzia ha confermato da subito (che, cosa assai rara, cita Latinoreview) indicando che Goyer è in trattative con la Legendary Pictures e la Warner Bros. “Secondo fonti vicine alla compagnia, Goyer ha proposto un film molto ricco di azione che coinvolge Superman contro Lex Luthor e Brainiac, molto diverso dalla storia di origini vista in Superman Returns. Probabilmente Goyer verrà aiutato da un altro sceneggiatore, proprio come per Il Cavaliere Oscuro”.

IGN.com – il sito, dopo aver riportato la parziale smentita di AICN, ha contattato le proprie fonti e ha contro-smentito Harry Knowles, sostenendo che Tull (probabilmente colto in contropiede dal trapelare della notizia) ha volutamente ridimensionato la cosa. “Goyer è davvero al lavoro nel progetto, e anche Jonah Nolan – cosceneggiatore del Cavaliere Oscuro – lavorerà a Man of Steel con lui. Christopher Nolan sarà produttore esecutivo, e non regista, proprio come rumoreggiato da giorni. Avrà carta bianca, come produttore. La Warner Bros. ha molta fretta di realizzare il film prima che i diritti possano tornare agli eredi dei creatori del personaggio. La nostra fonte sostiene che la Warner è molto soddisfatta di quello che Goyer e Nolan hanno già fatto con lo script di Batman 3, e che attualmente Superman ha la priorità su tutto.

Fonte: Variety, AGN, Badtaste; LatinoReview

Crazy Heart: recensione del film con Jeff Bridges

Crazy Heart: recensione del film con Jeff Bridges

“Déjà vù”, è questa la prima parola che viene in mente vedendo il film Crazy Heart. Un Déjà vù che continua a protrarsi man mano che la vicenda (se pur ben raccontata) si evolve sino alla conclusione.  Per citare il film stesso sembra come “quando senti una bella canzone si ha l’impressione di averla già sentita”, ed  è ciò che accade sentendo(vedendo) il film.

La storia di Crazy Heart è quella di un famoso cantante country alcolizzato e caduto in disgrazia che grazie alla relazione con una giovane reporter tenta di rimettere in carreggiata sia la sua vita che la carriera. Fin qui, appunto tutto sembrerebbe già visto ma, rimanendo di questa opinione si rischia di crearsi un paraocchi che offuscherà invece le varie sfumature interessanti del film. Primo fra tutti la performance recitativa di Jeff Bridges che rimane costantemente su un livello decisamente alto di intensità emotiva.

È con la sua bravura infatti che il  personaggio esce fuori dai ranghi che fin’ora hanno caratterizzato le varie versioni di individui allo sbando(come fece del resto Mickey Rourke in The Wrestler), donando a Crazy Heart particolari momenti di vitalità e tenerezza; specchio di un’esistenza volutamente allontanata nella vita ma che prepotentemente si riaffaccia  davanti ai suoi occhi.  Ad affiancare la sua performance c’è anche la brava Maggie Gyllenhaal, che per la prima volta fa vedere qualcosa di buono e non solo scomode posizioni con cui interloquire con il resto del cast di Crazy Heart. A sostegno dei due c’è il grande Robert Duvall nei panni dell’amico che sostiene il cantante nei suoi momenti più bui. Come anche l’attore che interpreta la versione più giovane di Jeff Bridges e che da lui ha imparato tutto sulla musica e che la produzione ha tenuto nascosto nei crediti.

Le ultime parole vanno senz’altro spese per il regista di Crazy Heart Scott Cooper, che esordisce ottimamente con questa opera ben confezionata e senza ombra di dubbio ben raccontata. Resta da chiedersi se un pizzico di originalità in più avesse concesso al film maggiori trionfi. Ma comunque il film ha collezionato ben 3 nomination all’Oscar, rispettivamente una per Jeff Bridges, una per Maggie Gyllenhaal e una per la  migliore colonna sonora. Niente male per un esordiente. Aspettiamo il verdetto dell’Academy.

Il paradosso del fuori campo

Il presente saggio analizza una figura tecnica e linguistica precipuamente cinematografica e l’uso particolare che ne hanno fatto alcuni registi: il fuori campo. Ho scritto precipuamente poiché di fuori campo si può parlare anche per la fotografia e, volendo, per la pittura, ma nel cinema la sua presenza è più forte, in correlazione alla specificità di quest’arte che è, diversamente dalle altre due, è basata sulle immagini in movimento.

Addentro, A  lato, Addietro, Altrove.
Il paradosso del fuori campo cinematografico

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella…

Leopardi, L’infinito

In generale, nel cinema esistono il fuori campo visivo e quello sonoro. Il fuori campo visivo è lo spazio diegetico escluso dal campo dell’inquadratura e suscettibile di entrare a farne parte, nonché lo spazio non diegetico che non potrà mai far parte dell’inquadratura. Più dettagliatamente, Noël Burch distingue sei tipi di fuori campo visivo-spaziale: quattro di essi corrispondono ai quattro margini dell’inquadratura (superiore, inferiore, sinistro, destro) costituendo gli ideali prolungamenti di questa; un quinto fuori campo è quello situato dietro un qualsiasi elemento posto all’interno del campo visivo (ad esempio: un personaggio dietro una porta chiusa è fuori campo); il sesto fuori campo è invece posizionato dalla parte della macchina da presa in una sezione di spazio che l’angolo di ripresa non include nell’inquadratura. Quest’ultimo fuori campo costituirebbe lo “spazio interdetto”, il “fuori campo tabù”, e cioè il luogo della produzione materiale del film posto sempre fuori dal quadro, in cui si trovano la troupe e le attrezzature.

I fuori campo sonori sono classificabili secondo due criteri: acusmantico (i suoni di cui non si individua visivamente la fonte) e diegetico/extradiegetico. Se include tutti quei suoni la cui fonte non è individuabile visivamente nell’inquadratura, ma che è udibile dai personaggi della diegesi, il fuoricampo sonoro è definito “off screen sound”. Esiste poi “la voice off” di un dispositivo sonoro (una radio, un televisore, etc.) udibile dai personaggi, che può essere o meno acusmantica (ad esempio, una radio visibile o meno nell’inquadratura) e comunque sempre diegetica.

Un fuoricampo sonoro sempre extradiegetico è quello costituito dalla musica in colonna sonora esterna al piano della narrazione, non udibile dai personaggi della narrazione ma solo dallo spettatore, nonché la “voice over” di un narratore onnisciente, anch’essa non udibile dai personaggi ma unicamente dallo spettatore. Tuttavia un fuori campo può sempre diventare, potenzialmente, un “in campo”, allo stesso modo che ciò che è in campo può trovarsi successivamente fuori campo. Una porzione di spazio inizialmente esclusa dall’inquadratura ma che viene poi, tramite un movimento della mdp o uno zoom, inclusa in essa costituisce il fuoricampo cataforico (inquadratura potenziale). Se invece la mdp restituirà alla visione dello spettatore una porzione di spazio già mostrata in precedenza e nuovamente inclusa nell’inquadratura avremo il fuori campo anaforico (inquadratura ripetuta).

Lo spettatore presuppone il fuoricampo. Egli integra, cioè, con l’immaginazione lo spazio della diegesi presupponendone la continuazione oltre i bordi del quadro. Ad esempio, se la mdp inquadra unicamente il dettaglio di piedi in movimento, lo spettatore è naturalmente portato a presupporre una persona che cammina e che successivamente potrà essere inquadrata dalla mdp. In tal senso, il fuori campo è cataforico, cioè costituisce la possibilità pura di una successiva inquadratura, nonché la possibilità stessa del progresso della narrazione per immagini.

Diceva André Bazin che “le cadre est un cache”, ovvero che l’inquadratura è una benda, un nascondiglio. Essa stabilisce il visibile e allo stesso tempo l’invisibile. Il confine tra i due, per lo meno cinematograficamente, non è mai netto, non solo perché l’uno trapassa o può trapassare nell’altro, ma perché ciascuno di essi è definito ontologicamente anche grazie all’altro, ed entrambi sono sempre narrativamente co-implicati, esistendo in un regime di iper-dialettica, per dirla con Merleau-Ponty (che al rapporto tra visibile e invisibile dedica uno dei suoi ultimi scritti), dove non esistono sintesi definitive né opposizioni unilineari, ma è possibile una molteplicità di rapporti con una polivalenza di significati.

Se è possibile per un regista decidere e realizzare un “cadre”, ciò implica che automaticamente (e/o accidentalmente) si realizzi con essa anche una “cache” sulla quale la capacità di manipolazione del visivo di un regista sembra venire meno proprio per il carattere di automaticità e accidentalità che il fuori campo possiede. Vi sono però nella storia del cinema degli autori che hanno fatto del fuori campo un uso consapevole dal punto di vista tecnico, narrativo ed espressivo, conferendogli un’importanza tale da riscattarlo in parte o del tutto dal suo carattere di (almeno apparente) automaticità e accidentalità e anzi stabilendola proprio come figura tecnica, linguistica, stilistica. Tra gli altri ne passerò in rassegna quattro: Renoir, Welles, Tarkovskij, Bresson.

Uno dei film dove sicuramente il fuori campo assume particolare rilievo narrativo,  è sicuramente La regola del gioco (1939) di Jean Renoir. Il film di Renoir, da sempre annoverato tra i capolavori della storia del cinema, è in anticipo di due anni su quella “bibbia” delle tecniche cinematografiche che è Quarto Potere (1941) di Orson Welles per l’uso del piano sequenza e per il recupero della profondità di campo. Renoir si avvale a questo scopo di obiettivi di fabbricazione Lumiére opportunamente adattati. È certo che i fuori campo siano messi in causa in maniera forte pressoché lungo tutta la durata del film, ambientato per gran parte in una villa in campagna dove un nutrito numero di aristocratici francesi tiene un festeggiamento, mentre la mdp, fissa o in movimento ne segue i dialoghi, le battute di caccia, i pranzi, le vicende amorose, gli intrighi, ora incorniciati nelle architetture, ora al buio di uno spettacolo di danza, o nei corridoi e nelle stanze da letto.

Passiamo ora ad analizzare più dettagliatamente una scena del film: quella del pranzo dei servi della villa. Mentre il pranzo procede, i servi si scambiano confidenze e pettegolezzi sui signori che di cui sono o sono stati a servizio. La mdp segue in carrellata laterale da sinistra a destra una cameriera mentre porta a tavola tre vassoi, seguita da un maggiordomo. Stacco. Campo medio di Lisette, serva della padrona di casa Christine, seduta a capotavola, e altri due servi seduti accanto a lei. Stacco. Due cuochi intenti a preparare il pasto dei signori e criticare le loro abitudini in fatto di diete e ossessioni alimentari. Dopo un’altra piccola carrellata in cui la stessa cameriera vista precedentemente porta ancora il suo vassoio attorno al tavolo, è la volta di un piano di insieme della tavolata con Lisette a capotavola e tutti gli altri servi seduti.

Seguono dei primi piani di Lisette che parla a due dei commensali, voltando il capo ora a sinistra e ora a destra della mdp, finchè un nuovo primo piano su un altro maggiordomo precede lo stacco sulla rampa di scale che conduce alla tavolata da cui scende Schumacher, il guardiacaccia marito di Lisette.

Mentre Schumacher scende le scale, la mdp si avvicina  a un lato della tavolata, dove il cuoco visto precedentemente scambia un alcune chiacchiere coi commensali “impallando” il marito di Lisette poco dietro di lui, che a passi lenti si dirige verso la moglie seduta a tavola uscendo di campo a destra. Mentre il cuoco esce di campo, la mdp panoramica a destra, inquadrando così il guardiacaccia appoggiato dietro la sedia di Lisette mentre parla con lei. La mdp compie poi un movimento inverso al precedente, panoramicando verso sinistra rimettendo così in campo il cuoco tornato al lato della tavolata come visto nell’inquadratura precedente. Nel frattempo, vediamo Schumacher di spalle, allontanatosi dalla sedia di Lisette, dirigersi dalla destra al centro dell’inquadratura.

La mdp compie poi un ulteriore movimento verso sinistra, lasciando la tavolata fuoricampo e inquadrando Schumacher mentre sale le scale e incrocia il bracconiere Marceau che scende per unirsi alla tavolata. Marceau siede a tavola e comincia a chiacchierare con Lisette con l’intenzione di iniziare un corteggiamento. Stacco. La mdp inquadra in primo piano due servi seduti alla sinistra di Lisette, poi, panoramicando a sinistra, la stessa donna che sorride a Marceau dapprima fuori campo e poi visto di profilo. Stacco. Primo piano di Marceau ammiccante e quinta in campo di Lisette. Stacco. Una radio nella sala dove si svolge il pranzo ci mostra la fonte della musica diegetica e acusmantica udita precedentemente.  La dissolvenza incrociata dell’immagine della radio con quella di un orologio da tavolo in un salotto della villa, marca la fine della scena.

Dalla descrizione appena fatta è evidente che qui, come altrove nello stesso film, Renoir conferisce al fuori campo una notevole importanza. In che modo il fuori campo entra in gioco nella scena appena descritta? Abbiamo qui sia fuori campo visivi cataforici e anaforici nonché dei fuori campo sonori. Il fuori campo sonoro, in particolare, è costantemente in gioco per tutta la durata della scena. Sono fuori campo le voci di alcuni commensali non inquadrati mentre parlano, i rumori delle posate, e la musica proveniente dalla radio che vedremo solo alla fine della scena.

Sembra quasi che la mdp arrivi con ritardo a scoprire i volti di chi parla, come se la vita e il gioco degli intrighi, dei pettegolezzi, degli amori, scorresse indipendentemente da ciò che è dato vedere e sentire, tanto a noi spettatori quanto agli stessi personaggi, che di volta in volta perdono o acquistano visibilità, perdono o acquistano terreno di gioco. È così per il marito di Lisette, Schumacher, la cui entrata in campo è quasi subito celata, la sua visibilità ostacolata dalla figura del cuoco che scambia pettegolezzi con i commensali. Anche quando la macchina si sposta su Schumacher alle spalle di Lisette, è solo per poco, poiché presto ritorna nuovamente sul cuoco, conferendo così, all’inquadratura precedente pressoché identica, il valore di fuori campo anaforico. Schumacher abbandona poi la sala del pranzo, risalendo le scale e incontrando il bracconiere Marceau che insidia giocosamente sua moglie Lisette. Marceau rimane invece a lungo in campo, siede a tavola, e lungo è il primo piano che lo riguarda mentre mangia lanciando occhiate complici a Lisette. Non è casuale che il guardiacaccia sia così spesso fuori campo durante questa scena in cui viene a delinearsi in maniera più precisa il personaggio di Lisette, serva civettuola che accoglie il corteggiamento di Marceau.

I pavimenti della villa dove si svolge il film sono a scacchiera, così come la tovaglia del tavolo nella scena presa in esame, e in effetti quasi tutti i personaggi (tanto gli aristocratici quanto i servi) sono ben consapevoli di condurre le proprie esistenze come un gioco in cui il calcolo, il cinismo, le buone apparenze, sono fondamentali, ma “la regola” è non prendersi e non prendere assolutamente nulla sul serio, meno che mai l’amore e i sentimenti. Chi non accetta questa “regola del gioco” è destinato a soccombere, come l’aviatore romantico Jurieaux, o a commettere errori fatali come il guardiacaccia Schumacher, che, convinto di sparare a Octave, altro giocoso “spasimante” della sua Lisette, colpirà invece proprio Jurieaux.

La scena descritta si svolge in una cantina-cucina ai piani inferiori della villa, mentre sopra ha luogo il rendez-vous degli aristocratici, ma anche l’ambiente dei servi, piccolo borghesi fagocitati dall’universo dei potenti, partecipa degli stessi giochi di questi ultimi. Ciò che accade qui (in basso), è influenzato da ciò che accade ai piani superiori, in alto, fuori campo e comunque condizionante. Lo spettatore è portato a seguire con gli occhi ciò che vede nelle inquadrature, ma a tenere viva la sua attenzione anche su ciò che non vede, su quel gioco sotterraneo, simulato e dissimulato svelato rivelato (nel senso di “ due volte velato”)  che esclude inevitabilmente i personaggi più sinceri come Schumacher e quelli appassionati come Jurieaux.

La mdp di Renoir, così abile a cogliere “il gioco dell’amore e del caso”, così attenta e lieve nel suo aggirarsi senza centro per i labirinti della villa dove lo sguardo si sperde, si soffermerà, nel finale, sulle ombre degli aristocratici che a sera faranno ritorno alla villa, del tutto passivi di fronte alla morte di Jurieaux, tagliati fuori dalla realtà eppure colpevoli (forse proprio per la loro indifferenza e il loro cinismo), così “fuori campo” rispetto alla disgrazia della storia (siamo nel 1939, e il secondo conflitto mondiale è alle porte) e così parte in causa, attori di una farsa che termina in tragedia.

Ho scritto che La regola del gioco è in anticipo su Quarto potere per ciò che riguarda l’uso della profondità di campo e l’uso del piano sequenza. Tra le differenze linguistiche che esistono tra i due film, segnalerei proprio la diversa modalità dell’uso del fuori campo. A differenza di Renoir, Welles cerca di includere quanti più elementi possibili in una sola inquadratura in piano sequenza. A tal proposito cito la ben nota scena in cui viene deciso il destino di Kane bambino che gioca sulla neve inquadrato attraverso i bordi di una finestra, mentre la madre, all’interno della casa, discute la possibilità del suo affidamento con un banchiere.

La mdp di Welles crea spesso inquadrature centripete, in cui il fuori campo è progressivamente inglobato nell’inquadratura e viene dunque a trovarsi in campo, dando luogo quindi a dei fuori campo cataforici. Altre volte, il fuori campo realizza una sorta di “effetto eco” di personaggio uscito di campo. Un esempio in questo senso è costituito dalla scena in cui Susan abbandona Kane, passando attraverso delle porte e uscendo dalla reggia di Xanadu (e dalla vita di Kane), e venendosi così a trovare fuori campo. Di fatto, Susan esce dalla vita di Kane e questi sprofonderà sempre più nella propria monolitica solitudine su cui grava l’eco dell’abbandono da parte di sua moglie da lui stesso provocato.

Veniamo ora ad analizzare una scena in cui il fuori campo è usato come espediente tecnico e figura stilistica al contempo. La scena è tratta dal film Andrej Rublëv (1966), di Andrej Tarkovskij. Siamo poco dopo la metà del film, quando la città di Vladimir è stata saccheggiata da un esercito di tartari in complotto con dei russi, i quali hanno fatto irruzione nella cattedrale dell’Annunciazione. Tra i cadaveri nella chiesa semidistrutta, vi sono due superstiti: il pittore-monaco Andrej, e una donna sordomuta, che poco prima ha subito un tentativo di stupro da parte di un soldato russo, ucciso dal pittore.

Sconvolto, Andrej ha una visione di Teofane il Greco, anziano pittore suo maestro, morto alcuni anni prima. I due iniziano a parlare e Andrej palesa a Teofane il proprio turbamento circa gli episodi da poco accaduti, che lo hanno visto, tra l’altro, assassinare un uomo, e il pittore, colmo di sfiducia per gli uomini e sconvolto dalla loro crudeltà, matura il proposito di osservare un voto di silenzio e di non dipingere più.

Per tutto il dialogo tra i due personaggi, il fuori campo viene impiegato da Tarkovskij in maniera significativa come espediente tecnico volto ad connotare in senso espressivo lo sconforto di Andrej e il suo senso di smarrimento, nonché il suo dialogo “impossibile” con il morto Teofane in un’atmosfera oniroide.I due personaggi vengono a trovarsi di volta in volta in posizioni non plausibili rispetto alle loro uscite di campo. Mi spiego meglio: un personaggio lasciato fuori campo a sinistra dell’inquadratura, viene poi a trovarsi, senza stacchi e senza che egli passi davanti alla mdp, a destra, e viceversa. In pratica, Tarkovskij fa muovere il personaggio dietro la macchina da presa per poi farlo passare dal lato opposto nell’inquadratura successiva, quando tornerà in campo, raggiunto dal movimento della mdp, valorizzando così quel sesto fuori campo interdetto di cui parla Noel Burch.

Come è possibile notare dalle immagini, in oltre, i due personaggi sono illuminati in maniera differente: Andrej resta più spesso in ombra, mentre su Teofane scende una luce più intensa, che sembra connotarlo come visione onirica del pittore giovane. La scelta stilistica di Tarkovskij si rivela, seppure ardita, pienamente coerente con la situazione messa qui in scena e pertanto motivata dal punto di vista narrativo. Il fuori campo appare, nell’opera del regista sovietico, come uno degli elementi più rilevanti del suo stile registico.
Tornano utili, adesso le definizioni del fuori campo fatte da Gilles Deleuze. Egli distingue infatti un fuori campo relativo (a una singola inquadratura intesa come taglio parziale e prelievo da un ambiente più vasto) e uno assoluto (in cui l’inquadratura è taglio totale in rapporto a ogni campo possibile), da lui rinominati rispettivamente l’ “a-lato” e l’“altrove”. Scrive infatti il filosofo francese: “Ogni inquadratura determina un fuori campo. Non vi sono due tipi di quadro di cui uno soltanto rinvierebbe al fuori campo, ma due aspetti assai differenti del fuori campo di cui ognuno rinvia a un modo di inquadratura” .

Per avvalerci della terminologia deleuziana (qui, e in seguito a proposito del fuori campo in Bresson) potremmo dire che Tarkovskij oscilla tra l’ a-lato e l’altrove. Pur essendo Teofane visibile (a noi spettatori come ad Andrej), pur potendosi trovare “a-lato”, fuori campo rispetto allo spazio concreto degli interni della cattedrale di Vladimir, egli è al contempo presenza di un non specificato “altrove”, morto parlante di un aldilà non specificato, emanazione onirica della coscienza sconvolta di Andrej. Questo perchè i movimenti che compie fuori campo lo mostrano poi alternativamente ai due opposti lati del quadro, lo connotano come figura sospesa tra il reale e l’irreale, tra l’attuale e il virtuale, oscillante tra uno spazio immanente (a- lato) e concreto e un altro (altrove) trascendente e possibile, di cui Tarkovskij fa comunque sentire in qualche modo la presenza.

L’altro regista che mi propongo di analizzare a proposito del fuori campo è Robert Bresson. Accade più spesso che il fuori campo Bressoniano sia invece assoluto, sia cioè un altrove più che un a-lato. Nel cinema del regista francese sono frequenti le inquadrature di dettagli e particolari cui manca spesso un piano di insieme o un totale che connoti in maniera precisa l’ambientazione. Penso ad esempio al film Lancillotto e Ginevra (1974) in cui la sequenza del torneo dei cavalieri viene girata unicamente attraverso il succedersi di inquadrature di lance, dettagli di zoccoli e ventri di cavalli montati dai partecipanti.

Le inquadrature di Bresson innescano un tipo particolare di paradosso. Sono dettagli, dicevamo, il massimo cioè, dell’evidenza fotorealistica del mondo quotidiano, ma tale mondo non è rappresentato nelle sue proprietà spaziali concrete, bensì frammentato, rimandando a un Altrove assoluto, a un ambiente mai attuale e sempre virtuale perchè mai dato nelle inquadrature, che esiste unicamente e continuamente come spazio del possibile.
Dai casi presi in esame appare evidente come alcuni autori (ma se ne potrebbero citare anche altri, da Ophuls a Kubrick a Leone a Truffaut) abbiano conferito al fuori campo un valore di pratica (lo hanno cioè attivato consapevolmente) tecnica, narrativa, espressiva, stilistica, concettuale estremamente rilevante. Di più: essi hanno posto l’accento su ciò che nel cinema, fatto di immagini in movimento visibili, è invisibile in quanto non è immagine, non è in campo. Del resto, per il poeta citato in apertura del saggio, l’infinito non sarà visibile perché l’ultimo orizzonte è celato da una siepe, che invece è ben visibile, ma sedendo e mirando interminati spazi di là da quella….

Taxidermia: recensione del film di György Pálfi

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Taxidermia: recensione del film di György Pálfi

Taxidermia è il film del 2006 diretto da György Pálfi e con protagonisti nel cast Csaba Czene, Gergely Trocsanyi, Marc Bischoff,  Geza Hegedus D., Adel Stanczel.

La trama di Taxidermia

Tre generazioni di uomini, il nonno Vendel (Czene), suo figlio Kalman (Trocsanyi), e il di lui figlio Lajoska (Bischoff) attraverso tre periodi  dal Secondo conflitto mondiale passando per l’epoca della repubblica comunista, fino ai giorni nostri.

Vendel è un soldato erotomane dalle fantasie perverse e surreali, Kalman è un obeso campione di abbuffata sportiva durante il regime comunista.

Lajoska, suo figlio, è invece un esile imbalsamatore che cercherà di impagliarsi morendo, dopo aver imbalsamato il padre divorato da enormi gatti…

La recensione del film Taxidermia

Analisi: Il secondo lungometraggio dell’ungherese Pálfi (dopo Hukkle, 2002), presentato al 56esimo festival di Cannes non ha trovato in Italia la meritata distribuzione. È di sicuro un film per “stomaci forti”, con una visionarietà debordante degna di Jodorowsky e con gli sberleffi indigesti di un Makavejev o gli shock grotteschi di un Ferreri nell’affrontare le tematiche tabù connesse al corpo (sesso, cibo, morte). Ho fatto i nomi di tre registi di punta negli anni ’70, e forse perché, a parte il giapponese Takashi Miike e un certo Cronenberg (quello di Videodrome, La mosca, e Inseparabili), Pálfi non ha parenti prossimi nella contemporaneità quanto a coraggio e inventiva nel mostrare ciò che non siamo (più) abituati a vedere.

Forse proprio per questo, non solo il sottoscritto, ma anche altri che hanno detto qualcosa sul film in esame (demonizzandolo o osannandolo comunque sempre molto al di là dei suoi effettivi meriti e demeriti) si sono sentiti immediatamente chiamati a cercare possibili parentele e referenti nell’universo degli autori cinematografici. Forse semplicemente perché ciò che in questo film vediamo non è nuovo, ma neppure vecchio: è semplicemente differente. Proprio di fronte a qualcosa di differente, il logico cerca di analizzare e classificare, ipotizzare filiazioni e tassonomie. Ma il film si chiama invece Taxidermia, per cui sarebbe più giusto attenersi alla sua pelle, piuttosto che cercargliene altre.

L’idea del film Taxidermia nasce da due racconti dello scrittore ungherese Lajos Parti Nagy, trasposti in parte nelle storie di Vendel e di Kalman. Dallo scrittore, Pálfi mutua il senso del grottesco, nonché una certa attitudine al barocco debordante ma filtrata da uno sguardo distaccato.

E così tanto le perversioni di Vendel (la masturbazione praticata infilando il membro in una fessura di una baracca di legno, per dirne una) quanto gli exploit alimentari di Kalman (e il successivo “stretching” mediante vomito) o l’autoimbalsamazione di Lajoska (praticata tramite una macchina che lo tiene in vita e poi lo decapita) sono filmati con un’attitudine non emotivamente partecipativa (rare sono infatti le soggettive) anche quando la mdp sta “addosso” ai corpi e ai loro interni.

Il mood generale con il quale sono presentate queste vicende al limite dello shock è infatti di distacco ironico e sardonico. Perciò si può anche ridere, quando in un impeto d’orgoglio l’obeso Kalman, paralizzato dai chili di troppo, dice al figlio Lajoska (il cui nome riecheggia in vezzeggiativo quello dello scrittore da cui è tratto il soggetto del film, Lajos) con vanto che c’è una tecnica di vomito (!) che porta il suo nome.  

Se il mood è di distacco ironico, però, la mdp di Pálfi è tutt’altro che statica, benché non conosca mai movimenti frenetici e il ritmo generale del montaggio non sia mai serrato.

Si pensi a quando Vendel si china su una vasca di legno e la mdp parte da un’inquadratura in plongée per compiere una serie di carrellate circolari verso destra, passando attraverso il pavimento e inquadrando diverse situazioni che hanno come centro di riferimento proprio la vasca. Essa è quasi una sorta di arca intorno alla quale ruotano le sue ossessioni sessuali nonché il correlativo visivo di quanto dice il superiore di Vendel: “la fica fa ruotare il mondo”.

Nella vasca fanno il bagno due giovani donne che Vendel spia fantasticando, e lì avrà un rapporto con la carcassa di un maiale immaginando di averne uno con la grassa moglie del suo superiore. Che il rapporto fosse solo immaginato o reale non è dato scoprirlo. Certo è che per questo Vendel sarà ucciso dal suo superiore, la cui moglie partorirà davvero un bambino, Kalman, ma dalla coda suina. Lo stesso movimento rotatorio poc’anzi descritto sarà compiuto nuovamente dalla mdp quando ci presenterà con una ellissi temporale Kalman neonato (e castrato della sua coda suina) e poi adulto partecipare alla competizione olimpica di abbuffate.

È come se il cerchio fosse figura di una situazione senza uscita da ossessioni con un solo centro che esistono per tre generazioni, uguali nei padri come nei figli. E non già perché, come nelle tragedie greche, la colpa sia ereditaria, perché di colpe qui non si parla, ma, appunto, solo di ossessioni, quelle inconfessabili perché sgradite al pudore e al buon gusto, destinate a perdurare anche oltre la morte di chi le ha nutrite. Infatti, il corpo auto imbalsamato di Lajoska (Laio, quindi, ma senza un Edipo che lo assassini, perché è egli stesso anzi a liberare i famelici gatti che divoreranno suo padre Kalman), che non ha avuto figli continuerà a resistere nel tempo e ad essere ammirato anni dopo come un formidabile esperimento. Chi ne canta le glorie nel finale in un asettico padiglione scientifico è in qualche modo connesso alla morte/vita eterna di Lajoska. Si tratta infatti di un uomo che ha consegnato al tassidermista un feto da imbalsamare.

È significativo che i tentativi di approccio alle donne da parte di Lajoska siano sempre falliti e perciò egli non può trasmettere le proprie ossessioni a un figlio (del resto, nell’universo del film, la donna è solo oggetto generativo, assente, eppure è intorno a essa che ruota il mondo, come dice il tenente di Vendel). Le sue ossessioni gli sopravviveranno, vivendo nel suo corpo impagliato, trovando un correlativo nel feto che un uomo (non una donna) gli ha consegnato, per essere poi esaltate coram populi.

Taxidermia recensioneIn questa farsa visionaria non ho trovato, come qualcuno ha detto, la denuncia delle colpe di certa intellighentjia filosovietica ungherese (e non): ad esempio quella che con troppo ritardo ha ammesso i suoi errori e non lo ha fatto per il ’56 dei carri armati sovietici a Budapest. È pur vero che la parte centrale del film sulle ossessioni di trionfo nell’abbuffata sportiva è ambientata presumibilmente intorno agli anni ’50, ed è pur vero che il comunismo in Ungheria ha mostrato a lungo segni di crisi fino al fallimento del modello sovietico come falliscono le ossessioni dei tre protagonisti.

Vedo in Taxidermia un discorso che non può essere ristretto alla denuncia politica (che se ci fosse, e costituisse la chiave interpretativa del film, sarebbe comunque assai poco approfondita), ma un racconto visionario dal tono più generale, da apologo, quasi. Un apologo che in quanto tale non denuncia ma addita i lati torbidi di certe ossessioni, il loro fallimento e il loro trionfo, semmai questi possano coincidere e semmai possano essere (a torto) glorificati.

Nord: recensione del film di Denstad Langlo

Nord: recensione del film di Denstad Langlo

Nord è il primo lungometraggio di finzione del regista norvegese Denstad Langlo, precedentemente attivo nel documentario (Too much Norway, 2005 e 99% Honest, 2008). Nord è prodotto dalla Motlys, una delle principali case di produzione scandinave e arriva in Italia grazie alla distribuzione della Sacher (“Nanni Moretti presenta”), dopo aver vinto il premio FIPRESCI a Berlino e quello per la Miglior Regia al Tribeca film festival. Il film ha poi ottenuto anche un buon successo all’ultimo festival di Torino.

La prima cosa che verrebbe da fare a un critico che si trovi a scrivere di un regista pressoché nuovo e semisconosciuto è quella di dargli un’etichetta, rintracciare possibili parentele o filiazioni verso autori più noti, affini per contenuti e tematiche. Per questo film c’è già chi ha fatto il nome di un altro grande autore nordico come Kaurismaki, dal quale potrebbe derivare, al limite, l’aria stralunata di certi personaggi o situazioni, e magari si potrebbe anche fare il nome di Jarmusch per l’umorismo raffinato, il tema del viaggio e certe situazioni straniate di outsider bizzarri come e più del protagonista Jomar.

Nord, il film

Per altri versi, una certa critica è invece ossessionata dal giudicare il valore di un film in base alla sua novità, se era, cioè, più o meno inatteso. Entrambi gli atteggiamenti mettono a nudo la sorpresa della critica. Posso dunque dire che questo film è una sorpresa piacevole, più che una novità, e di fronte a ogni sorpresa si è disarmati e impreparati. Volendo, il film è un road movie, un genere non nuovo, certo. Ciò che costituisce la sorpresa vera sono la maturità e la misura dello sguardo del regista, sensibile agli splendidi paesaggi innevati (sensibilità ai luoghi che deve derivargli dal documentario) in cui si svolge il viaggio di Jomar, girato tra febbraio e marzo, i mesi più rigidi dell’inverno scandinavo. Il linguaggio di Langlo è misurato, senza compiacimenti tecnici, e la mdp si muove di rado, in maniera essenziale come a connotare certe situazioni: si veda il primo piano con carrello in avanti su Lotte, la bambina che ospita Jomar dopo che questi è rimasto accecato dalla neve nel corso del viaggio, quasi a sottolineare l’importanza dell’incontro per entrambi.

Nord si fa notare anche per un sapiente uso del montaggio, calibrato, funzionale a dosare i ritmi del racconto, le accelerazioni durante gli spostamenti di Jomar e le pause per i suoi incontri. A livello narrativo il film brilla di passaggi gradevoli: primo fra tutti, la trasmissione in TV sui disastri naturali che Jomar segue rapito nella sua baita alla stazione di sci e che causerà (prelundendolo) un disastro domestico durante il quale il protagonista manderà a fuoco la baita per una distrazione, innescando così il viaggio. Jomar in effetti non parte immediatamente dopo aver saputo di avere un figlio da raggiungere. Parte perché, potremmo dire, “ha la scusa buona” ovvero l’incendio, così da dovere abbandonare la stazione sciistica che gli è evidentemente venuta a noia, tanto che egli non usa l’estintore per spegnere l’incendio ma per sfondare la finestra dell’abitazione e partire sulla motoslitta.

Da novello Oblomov che passa la gran parte del suo tempo steso sul letto, Jomar intraprende un lungo viaggio dove l’elemento straniante e bizzarro è costituito dalle stesse persone che incontra: Ulrik, ad esempio, un giovane che dapprima lo tormenta con la sua omofobia e poi si proclama suo grande amico dopo avergli suggerito un modo alternativo per ubriacarsi, consistente nel tenersi legati sul capo opportunamente rasato, del cotone imbevuto di alcoolici. E poi c’è Ailo, un curioso eremita della tribù Sàmi, che vive in un tepee su un ghiacciaio, ultimo incontro prima di oltrepassare la montagna al di là della quale vivono la moglie e il figlio di Jomar.

Il viaggio (condito con musiche che riecheggiano il bluegrass che siamo abituati ad ascoltare magari in un film americano di praterie e canyon, e che qui si staglia contro fiordi e distese innevate) di questo collerico e folle (ma quanto più normale di altri) personaggio che alla bambina Lotte dice di “soffrire moltissimo”, parte perché un caso accelera le cose, e prende una prima svolta dopo che il protagonista è rimasto temporaneamente accecato dalla neve. Da Proust sappiamo che il viaggio consiste non nel vedere nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi, quelli che consentiranno a Jomar di intraprendere contatti via via sempre più profondi (ma sempre visti attraverso il filtro dell’ironia) con i personaggi che incontrerà, riacquistando fiducia in se stesso (riuscendo persino a compiere nuovamente un salto con gli sci e rialzarsi, contrariamente a quanto aveva fatto anni prima causando la separazione dalla compagna) fino alla meta, che sapientemente, il regista mostra appena, caricando quegli ultimi brevi fotogrammi di serena e sofferta speranza gravida di tutto ciò che abbiamo visto precedentemente. Con nuovi occhi.

Presto Sequel

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Presto Sequel

Dopo i rumors su David S. Goyer che ha lasciato la produzione di FlashForward per concentrarsi sullo script del terzo batman, e quelli di qualche giorno fa di Nikki Finke che ha annunciato di un Christopher Nolan  già al lavoro sullo script assieme a Jonathan Nolan e Goyer.

Ora giunge notizia dal popolare fansite BatmanOnFilm che  una fonte del sito (probabilmente interna alla produzione, visto che il messaggio è stato parzialmente censurato per mantenere segreta l’identità) ha rivelato che la troupe sembra già alla ricerca di location in giro per Chicago, dove si sono svolte le riprese di parte di Batman Begins e della maggior parte del Cavaliere Oscuro:

Stanno girando in lungo e in largo il distretto finanziario di Chicago. Se questo fosse confermato, significa che la pre-produzione sembrerebbe entrare nel vivo e che presto inizieranno i casting.

Rimaniamo in attesa di aggiornamenti.

Alba Rohrwacher si racconta

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Ieri sera, alla Sala Trevi “Alberto Sordi” di Roma, dopo le proiezioni dei film “Mio fratello è figlio unico” e “Riprendimi” da lei interpretati, l’attrice Alba Rohrwacher ha incontrato il pubblico in sala. L’incontro è stato condotto da Enrico Magrelli, Conservatore della Cineteca Nazionale, ed è stato seguito dalla proiezione del film “Il papà di Giovanna”.

Codice Genesi: recensione del film dei Fratelli Hughes

Codice Genesi: recensione del film dei Fratelli Hughes

Cosa accadrebbe se una guerra misteriosa , a seguito di eventi catastrofici facesse piombare il mondo al grado zero?… E’ questo che i Fratelli Hughes ci vogliono raccontare attraverso The Book of Eli (Codice Genesi): un mondo in cui qualsiasi brandello di civiltà sembrerebbe essere scomparso,(grazie al nostro talento di distruggere quello che la natura ci offre), lasciando strada libera alla bestia che si cela nell’essere umano fin dal periodo primordiale.

La trama di Codice Genesi

Sotto questo scenario post-apocalittico vive Eli (Denzel Washington), eroe vecchio stampo che sotto la fisicità di un uomo inamovibile e imbattibile(la sua veloce lama trafigge per ordine divino)  cova una spiritualità ormai perduta, che forse rappresenta l’unico tentativo di redenzione per un mondo oramai allo sbando. Nonostante il sole cocente e l’atmosfera surriscaldata per il troppo inquinamento, la terra vive nell’ombra di un abisso che solo le sacre scritture riporteranno alla luce.

Come ogni eroe che si rispetti Eli crede nella redenzione, ed è con questa speranza che egli prosegue il cammino segnatogli.  Ma  dove vi è un eroe  si cela anche un nemico, Carnagie (Gary Oldman) che ha gli stessi Hobby dell’eroe e  per buona parta del film anche gli stessi gusti in fatto di libri, ma con intenti differenti.

Codice Genesi cast
Cortesia di 01 Distribution

Codice Genesi è certamente un ottimo ritorno per i fratelli che nove anni fa  riportarono in vita il mito dello squartatore seriale. Il film è diretto in maniera quasi impeccabile, se non fosse per un dovere spettacolare dovuto all’aspetto blockbasteriano dell’opera ma, nonostante ciò i due rimangono della loro visione regalando una loro marcata personalità anche nelle scene d’azione più esasperate, dotando anche il film di citazione e peculiarità che strizzano l’occhio allo spettatore più attento.

Quello che ne viene fuori è un film che si divide fra due aspetti dominanti: quello di un film avventuroso e degno di un’azione molto concitata (soprattutto per i primi 30 min.); nell’altro caso invece, (a mio avviso la parte che prediligono i due autori) quello di un’opera più contemplativa e riflessiva che vive di una spiritualità vera e dominante dove il messaggio sembrerebbe essere che le parole pronunciate dalla bocca sbagliata servirebbero  a poco: non sono le parole che danno forza al messaggio quanto il modo e l’intento con il quale esso viene sprigionato.

Detto ciò, Codice Genesi è ingabbiato in un virtuosismo che a lungo andare rasenta il videoclip  e che serve solo a minare il suo percorso pur sempre interessante. Le ultime parole che sicuramente vanno pronunciate sono quelle sul cast che è di primo livello. Oltre ai formidabili protagonisti, Denzel Washington e Gary Oldman (che nella parte del cattivo diventa quasi disarmante per la bravura, tanto da oscurare il suo antagonista in alcuni momenti), si arricchisce di non meno noti attori di consolidata bravura come: il caratterista e estroso artista rock Tom Waits e l’attore inglese Michael Gambon.

Bruce Willis medita sui sequel

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Bruce Willis medita sui sequel di Die Hard e Unbreakable. Incalzato da MTV durante la promozione del Cop Out di Kevin Smith, Bruce Willis ha dichiarato che le riprese di un quinto Die Hard potrebbero molto probabilmente già svolgersi nel 2011, e che gradirebbe molto alla regia il ritorno di Len Wiseman, già autore del quarto atto.

Bruce si augura che McClane possa questa volta viaggiare per il mondo. Contemporaneamente, Willis ha anche discusso con M. Night Shyamalan di un possibile Unbreakable 2: non si placa tra attore e regista l’idea di mettere in scena un combattimento tra David ed Elijah.

Owen Wilson per Allen

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Owen Wilson per Allen

Owen Wilson al lavoro con Woody Allen. Evidentemente superati i problemi personali che lo avevano afflitto più di un anno fa e che lo avevano spinto a tentare il suicidio, Owen Wilson è di nuovo lanciatissimo nella sua carriera d’attore. Tanto da aver ottenuto un ruolo da protagonista nel nuovo film di Woody Allen, You Will Meet a Tall Dark Stranger.

Come d’abitudine, il regista di New York tiene ancora riservatissimi i dettagli della trama, e non è chiaro quale ruolo sarà interpretato da Wilson, che comunque dividerà il set con nomi del calibro di Anthony Hopkins, Antonio Banderas, Josh Brolin, Naomi Watts e Freida Pinto. Nonché, ovviamente, la premiere dame di Francia, Carla Bruni Sarkozy.

In attesa di vederlo nel film di Allen, Wilson sarà nelle sale italiane dopo l’estate con Ti presento i piccoli. Tra i suoi prossimi progetti, come noto, anche il doppiaggio del protagonista in Marmaduke, il film sul noto cane dei fumetti Sansone.

 

New entry in Pirati?

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New entry in Pirati?

Un’altra novità nel cast di Pirates of the Caribbean: On Stranger Tides, il quarto episodio della serie fantasy che con questo aggiornamento si conferma formato principalmente sulla trama di Mari Stregati di Tim Powers.

Ian McShane (Deadwood) è infatti in trattative avanzate per interpretare il leggendario pirata Barbanera. Vero nome Edward Teach, Barbanera era un pirata inglese che terrorizzò i mari delle indie occidentali e le coste delle colonie americane nei primi anni del settecento.

Se i rumors saranno confermati, dopo Penelope Cruz ad affiancare Jack Sparrow ci sarà anche MaShane. Possiamo immaginare che Jack Sparrow non sarà l’unico vero protagonista del film come invece si supponeva. Lo ha rivelato lo stesso Depp a Cinematical:

Non ci saranno Keira Knightley o Orlando Bloom nel film, ma non so… Non penso che ci sarà tantissimo Jack Sparrow. In realtà ci sarà un po’… di tutti.

Due icone della Hollywood che fu

Se ne sono andate a poca distanza l’una dall’altra, una al 19 dicembre 2009, l’altra il 22 gennaio 2010, due attrici della Hollywood dei tempi d’oro, non icone assolute come Marilyn Monroe o Audrey Hepburn, ma comunque interessanti, capaci di portare pubblico nelle sale con i loro film e di farsi conoscere, grazie a tv, vhs e dvd, anche dalle generazioni più giovani.

Jennifer Jones, morta a dicembre, aveva 91 anni, Jean Simmons, morta a gennaio, ne aveva 81, la prima, passionale e affascinante, la seconda, icona di classe simpatica e spiritosa. Jennifer Jones, classe 1918, era approdata ad Hollywood giovanissima alla fine degli anni Trenta, dove aveva sposato il produttore David O. Selznick, uomo chiave dietro numerosi kolossal, a cominciare da Via col vento.

Nel 1943, a venticinque anni, vinse l’Oscar come migliore attrice protagonista con Bernadette, la storia della fanciulla di Lourdes, ma non si adagiò sugli allori. Poco dopo interpretò un ruolo agli antipodi, quello della sensuale meticcia assetata di emozioni in Duello al sole, kolossal in cui Gregory Peck interpretava uno dei suoi pochi ruoli negativi. Negli anni successivi interpretò altri film di successo, come Il ritratto di Jennie, storia paranormale oggi considerata un classico del genere, L’amore è una cosa meravigliosa, uno dei film sentimentali più amati, Madame Bovary, sontuoso adattamento da Flaubert, Addio alle armi, dal romanzo di Hemingway, Buongiorno Miss Dove, storia di un’insegnante single adorata dai suoi allievi, Tenera è la notte, ispirato alla vita di Francis Scott Fitzgerald e al suo matrimonio con Zelda. Lasciò quasi del tutto il cinema a partire dagli anni Sessanta, dopo la morte del marito Selznick.

Jean Simmons, di origini inglesi, si fece notare nell’immediato dopoguerra interpretando Ofelia nell’Amleto di Laurence Olivier. A Hollywood interpretò kolossal di ambientazione antica come La tunica e soprattutto Spartacus di Kubrick, filmoni sentimentali come La regina vergine e Desirée, musical come Bulli e pupe, commedie come L’erba del vicino è sempre più verde. Dopo due matrimoni falliti, con l’attore Stewart Granger e con il regista Richard Brooks e alcuni problemi di alcolismo, Jean Simmons seppe riciclarsi con ruoli da anziana in diverse serie televisive, come Uccelli di rovo e Nord e Sud, svolgendo anche ruoli da doppiatrice (sua la voce della protagonista anziana nella versione inglese de Il castello di Howl di Hayao Miyazaki) e in radio.

Entrambe le attrici hanno rappresentato la varietà di ruoli e le possibilità di lavoro che avevano le donne all’interno dell’industria del cinema americano. Certo, c’erano stereotipi, ma nessuna delle due ha mai interpretato la donna fatale o la consolatrice dell’eroe, spaziando la prima tra sante, eroine romantiche, donne forti in anticipo sui tempi, la seconda tra ragazze spiritose, volitive, sognatrici ma con buon senso. Le generazioni più vecchie ricordano sia Jennifer Jones che Jean Simmons sugli schermi della loro giovinezza, i più giovani le hanno conosciute in pomeriggi davanti alla tv, in pellicole comunque ormai entrate nella storia del cinema, anche solo di quello popolare.

Il Missionario: recensione del film prodotto da Luc Besson

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Il Missionario: recensione del film prodotto da Luc Besson

Il Missionario è la nuova brillante commedia prodotta da Luc Besson. La trama è molto semplice e non può non ricordare, anche se molto alla lontana, il cult movie dell’1989 Non siamo angeli.

In Il Missionario dopo sette anni di carcere per rapina a mano armata, Mario è finalmente libero. Dopo poche ora di libertà, deve, però, fare i conti con i suoi ex-complici che reclamano la refurtiva. Per garantirsi l’incolumità decide di rivolgersi a suo fratello Patrick, l’unica persona di cui si può fidare, che, per il bene del fratello, decide di mandarlo in un paesino dell’Ardeche.

Quello che Mario non sa è che in quello stesso paesino stanno aspettando il nuovo parroco. Al suo arrivo, per una serie di equivoci, viene scambiato per il sostituto del defunto padre Etienne. Da qui, cominciano le peripezie di Don Mario. La vena comica è data principalmente dal chiasmo dei personaggi. Mentre Mario acquista sempre maggiori consensi dalla comunità, Padre Patrick si abbandona ad una vita lasciva, fatta di stupefacenti, donne e denaro.

Meritevoli di lodi soprattutto i due interpreti principali: Jean-Marie Bigard e Doudi Strajmayster che, pressocché sconosciuti in Italia, raccolgono molti consensi in patria.

Luc Besson ha deciso di affidare la regia al quasi esordiente Roger Delattre, che spesso si è affidato alla verve comica di Bigard, fino quasi allo svilimento del personaggio; puntando, e talvolta calcando troppo la mano, sull’equivoco, che, nonostante in molti casi possa apparire banale, diverte.

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