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L’uomo che ama: recensione del film con Pierfrancesco Favino

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L’uomo che ama: recensione del film con Pierfrancesco Favino

Il film di Maria Sole Tognazzi si presenta autonomamente dal titolo “L’uomo che ama”, e se c’è qualcosa di chiaro in questo film è appunto questo: il protagonista, Pierfrancesco Favino, è innamorato. Tuttavia nessuna buona storia può reggersi solo su un presupposto, infatti Favino, non solo ama, ma soffre, piange e fa soffrire.

Roberto è un tranquillo farmacista quarantenne che vive un’intensa relazione con Sara, la quale tuttavia decide di lasciarlo quando lui scopre, per caso, che la donna aveva rivisto un ex, di cui probabilmente era ancora innamorata. Lui è distrutto e cerca varie volte di incontrarla, con il risultato di sentirsi respingere perché lei non lo ama. Persino la titolare della farmacia in cui lavora nota la sua disperazione e gli consegna delle pillole per aiutarlo a dormire. Nella seconda parte del film Roberto è insieme ad Alba, una bella donna che lo ama sinceramente; lei si occupa di allestimenti nelle mostre d’arte. Ma le cose non sono quello che sembrano.

Un film presuntuoso per come si presenta: un saggio sull’amore visto dall’uomo. In realtà si risolve in un racconto per immagini che smarrisce il filo conduttore facendo perdere anche lo spettatore, una serie di lunghe passeggiate e di docce che vedono come protagonista l’attore romano che si barcamena tra una bellissima ed innamoratissima Bellucci che soffre, ed una misteriosa e sfuggente Rappoport che fa soffrire.

La sofferenza de L’uomo che ama

Annunciato come un film innovativo che dovrebbe mostrare l’altra metà dell’amore, si risolve nella fiera della banalità: anche l’uomo soffre, anche la bellissima viene lasciata, l’amore viene e va. Neanche la regia di Maria Sole Tognazzi riesce a dare al film un guizzo di originalità, tanto che il risultato appare come un videoclip poco ispirato. L’uomo che ama è capace di affossare anche attori bravi come Pierfrancesco Favino, ormai lanciato verso una carriera internazionale, e la Rappoport che aveva offerto una splendida prova ne La Sconosciuta di Tornatore.

Scelto per inaugurare la sezione Premiere del Festival di Roma, L’uomo che ama si fa portavoce di una tendenza del cinema italiano che si trascina sin da troppo tempo in cui il senso del racconto è annacquato da una classicità pretestuosa che avrebbe bisogno di una rivoluzione, con volti e voci nuove, che al momento non trovano spazio.

Nota positiva in chiusura, le musiche della sempre ispirata Carmen Consoli.

Rabelais/Sade

La distruzione, quindi, come la creazione, è uno dei mandati della natura
(Sade, La filosofia del Boudoir)

Il fatto che esistano dei bisogni sessuali negli esseri umani e negli animali è spiegato in biologia con la assunzione di un «istinto sessuale», per analogia con l’istinto di nutrizione (nel caso della fame). Il linguaggio d’ogni giorno, per quanto concerne i bisogni sessuali, non possiede una parola che corrisponda a «fame», mentre la scienza fa uso, a questo proposito, del termine «libido».
(Freud, Le aberrazioni sessuali)

“La borghesia non può più in alcun modo liberarsi della propria sorte […] e […] qualunque cosa un borghese faccia, sbaglia”
(Pasolini, Teorema)

Escono a distanza di poco tempo, 1974 e  1975, forse i due film in assoluto più estremi che la storia cinematografica del nostro paese abbia mai visto.
Si tratta di La grande abbuffata di Marco Ferreri e Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini.
Molto spesso parte della critica ha accostato questi film per i loro tratti in comune.
Se indubbiamente i due film presentano aspetti simili in certe situazioni rappresentate, nei temi e negli assunti  che li muovono, diverse sono invece sono le premesse ideologiche e  tematiche, nonché gli sviluppi espressivi e le strategie linguistiche messe in atto dai due autori, entrambi passati alla storia come provocatori e fustigatori di costumi.
Vediamo brevemente le trame di entrambi i film.

La grande abbuffata. Quattro uomini -un pilota di linea, un giudice, un produttore televisivo, un ristoratore- si chiudono in una villa nei pressi di Parigi al fine uccidersi mangiando oltremisura. A loro si unirà poi una maestra d’asilo. Uno per volta moriranno tutti, mentre la maestra si rinchiuderà nella villa.

Salò o le 120 giornate di Sodoma. Il film è basato sull’opera del marchese De Sade Le 120 giornate di Sodoma, ma trasposto nella Repubblica Sociale Italiana.
Quattro signori, rappresentanti altrettanti aspetti del potere (Eccellenza, Monsignore, Presidente, Duca) si riuniscono in una villa in compagnia di altrettante meretrici (tre di loro ecciteranno dei signori mediante racconti, mentre la quarta le accompagnerà al pianoforte).I signori rapiscono un gruppo di ragazze e ragazzi tra le brigate partigiane per disporne crudelmente e indiscriminatamente attuando su di essi atroci perversioni, seviziandoli e torturandoli. Il regolamento stilato dai quattro signori proibisce ogni insubordinazione, l’assoluta obbedienza e le pratiche religiose punibili con la morte, nonché i coiti tra individui di sesso diverso. Durante l’orgia finale di sesso e violenza, due giovani collaborazionisti dei signori improvvisano maldestramente qualche passo di valzer.

Sono evidenti i nodi comuni alle due pellicole. Entrambe fanno leva sull’eccesso (e infatti il Monsignore di Salò commenta il crudele regolamento stilato dai quattro signori con la frase “Tutto è buono quando è eccessivo”). La prima pone l’accento sugli eccessi alimentari (ma non manca l’aspetto sessuale, proprio dell’altro film), l’altra sugli eccessi sessuali (ma non manca l’aspetto del cibo, dominante in quella di Ferreri).  C’è forse un dato ulteriore, che accomuna queste due opere, ma tale dato è assunto e sviluppato in maniera differente dai due registi: il loro fondo critico nei confronti di alcuni aspetti caratteristici della società neocapitalistica, quali l’edonismo antiumanitario, assoluto e indiscriminato, e l’altrettanto assoluta opulenza, nonché le perversioni spesso represse.  Benché l’acredine e il piglio provocatorio sia comune a entrambi i film (e pressoché anche all’intero opus dei due autori), scrivevo poco più sopra che diversa è invece la modalità con cui la critica viene messa in atto dai due registi.
La grande abbuffata (di cui Pasolini stesso aveva scritto sulla rivista “Cinema Nuovo” nel numero di settembre-ottobre 1974, elogiandone alcuni aspetti e rimproverando invece l’arbitrarietà e la mancanza di articolazione dei principi metafisici e metaforici che sembrano aleggiare nel film, già colti da Maurizio Grande) si presenta, così come altri film del secondo Ferreri (dopo la fase di “commedie nere” quali La donna scimmia e L’ape regina), quale film “eventico” o fenomenologico, un po’ come il precedente Dillinger è morto (1968) o il successivo L’ultima donna (1978).
Non si può dire che in questi film vi sia una trama, intesa in senso tradizionale, come intreccio dove a un conflitto iniziale debbano seguire azioni che conducano al suo scioglimento, ma piuttosto una serie di eventi, atti (più che azioni drammaticamente dette) interpolati a una situazione di base pressoché priva di intreccio.
Del resto, quello della trama così intesa è un concetto forse più proprio di certa letteratura (il romanzo classico), o al limite di buona parte del teatro (almeno fino a Beckett escluso), mentre non è necessariamente attributo specifico del cinematografo.
Nel caso specifico di questo film, la situazione di base è presto detta e potrebbe essere liquidata in due righe: quattro amici appartenenti alla borghesia medio-alta compiono un quadruplice pantagruelico suicidio. Tutto il resto di ciò che vediamo nel film, dalla passione del pilota Marcello per le macchine d’epoca, alle inclinazioni artistiche del produttore Michel che suona il piano o improvvisa dei passi di danza, ai siparietti del cuoco Ugo che imita il Brando de Il padrino, non è che una serie di eventi accessori a quella situazione di base che segue il suo proprio clinamen del tutto indisturbata e in maniera inarrestabile, come inarrestabile è l’orgia gastronomica dei protagonisti. Tali eventi accessori, del resto, non contraddicono, non ostacolano, ma neppure accelerano l’iter della situazione di base.
D’altro canto Ferreri non ci lascia spiegazioni palesi del perché i suoi quattro protagonisti decidano di darsi ad eccessi alimentari fino a morirne. Probabilmente, non ne abbiamo bisogno. Egli non voleva fornirci che un apologo, privo di scavo psicologico (e del resto i personaggi –sempre che a Ferreri interessi ciò che siamo soliti definire “personaggio”- mantengono i nomi degli attori che li interpretano: Ugo-Tognazzi; Michel-Piccoli; Philippe-Noiret; Marcello-Mastroianni; Andreà-Ferreol), dove i protagonisti sono presentati dapprima come esemplari della borghesia medio-alta, ritratto ognuno nel suo ambiente personale, grigio, vacuo, squallido, ed osservati poi nella villa solo nel loro comportamento (con sguardo eventico, dicevamo), come animali.
Risultano illuminanti a questo proposito le parole del regista: “Nel mio film il mangiare diventa l’ultima speranza e disperazione presente davanti agli uomini. Più che dei significati metaforici particolari ho voluto rappresentare, come davanti allo specchio, dei personaggi della nostra società: sono stanco dei film sui sentimenti ed è per questo che ho voluto fare un opera fisiologica. (…) Ora è tempo di ritornare all’uomo come animale fisiologico. Non al corpo come realtà edonistica, ma come unica, tragica realtà di questa vita”.
Ed ecco, non è che il corpo l’unica tragica realtà di questa vita, allo stesso modo che per gli animali, così per gli uomini: l’assunto materialista di Ferreri è semplicissimo, tale che non necessita di spiegazioni logiche, quasi una tautologia.
Ma cosa accade quando è un borghese -ovvero un appartenente a quella classe che fa dell’autosufficienza, dell’autoconservazione, dell’integrità morale spesso paralizzante, dell’abbondanza i propri modus vivendi- a realizzare questa “tragica realtà” del corpo?
Un borghese non può che accostarsi ad essa in maniera automaticamente perversa, poiché si riappropria del naturale e delle sue uniche tragiche certezze (il corpo e il suo sostentamento) in maniera violenta ed eccessiva: egli è un complice della società dei consumi e della sua cultura (quella delle norme per il giudice interpretato da Noiret, quella dello spettacolo per il produttore Piccoli, quella del benessere alimentare e del successo dei personaggi di Tognazzi e Mastroianni), per cui il ritorno alla natura e all’animalità fisiologica –che è anche, come vedremo successivamente, un regressus ad uterum o ad nihil- non può attuarsi più secondo le norme (borghesi) della autoconservazione, ma attraverso la pulsione di morte in pieno disprezzo verso il proprio essere.
Se i protagonisti ferreriani appaiono in certo qual modo come folli o masochistici latori di un disprezzo antiumanitario,  i quattro signori del film pasoliniano sono inequivocabilmente dei sadici, mossi anch’essi da disprezzo. La differenza più evidente tra i quattro protagonisti ferreriani e i quattro signori del film di Pasolini è che questi ultimi sono uomini di Potere. Ma se Ferreri, per sua stessa affermazione, non ha voluto tanto rappresentare dei significati metaforici (quelli che del resto Pasolini, nel suo articolo su La grande abbuffata, aveva criticato come inerti e arbitrari perché non compiutamente articolati), Pasolini invece si serve almeno di due livelli metaforici.
Il primo è quello del sesso inteso come metafora dei rapporti di potere, come dominio diretto esercitato da alcuni individui sul corpo di altri (simile in questo, a un altro film maledetto, anch’esso, come Salò, uscito postumo: Querelle di Fassbinder).
Un sesso non più vissuto –come accadeva nella Trilogia della vita (Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle mille e una notte) in maniera totalmente naturale, sempre gioiosa anche nelle sue manifestazioni che la nostra cultura tende a demonizzare (il poeta omosessuale e i tre giovani ne Il fiore delle mille e una notte, ad esempio), ma esclusivamente come borghese possesso, dove gli atti sessuali non hanno mai come fine il piacere che da essi –naturalmente- deriva, ma il piacere che deriva dall’infliggerlo come crudeltà alle loro vittime. Del resto, la sessualità dei quattro signori, appare come perversa perché ancora –Freud alla mano- infantile (anale-escrementizia), o consumata sui corpi morti delle vittime nel finale.
Anche i quattro personaggi del film ferreriano, hanno, a ben vedere, una sessualità ancora infantile: evidente nel giudice Philippe che chiede alla maestra Andreà di sposarlo dopo che questa gli ha praticato un rapporto orale (stesso atto che abbiamo visto compiere precedentemente –ed è significativo- dalla sua balia), o nel fallocentrismo latente di Marcello, o in Ugo, che muore ingurgitando un enorme paté facendosi masturbare da Andreà.
In oltre, benché i personaggi de La grande abbuffata non siano visti secondo un modello tradizionale di scavo psicologico, è pur vero che molti tratti del film sono leggibili secondo certi parametri della letteratura psicoanalitica e antropologica.
In questo senso mi sembrano illuminanti le teorie di Abraham riprese poi da André Green.
Abraham distingue due modalità nella fase orale dello sviluppo della libido: la prima in cui prevale la suzione (del seno materno); la seconda (che corrisponde alla sottrazione del seno materno) in cui prevale il piacere di mordere e lacerare che corrisponde alla fase sadico-orale.
I personaggi ferreriani apparirebbero dunque tutti appartenenti alla seconda fase descritta da Abraham: essi sembrano sfogare il piacere di mordere e lacerare legato alla fase sadico orale connessa alla sottrazione del seno materno. Il giudice Philippe (rimasto sessualmente puer, come notava Pasolini), d’altro canto muore proprio dopo aver ingurgitato un gigantesco budino a forma di seno. Potremmo dire, in termini psiconanalitici, che egli ha realizzato il desiderio di incorporazione del seno materno proprio di quella fase dello sviluppo della libido. La figura materna del film è naturalmente il personaggio della maestra Andreà, che accompagna i quattro nel loro disfacimento, che è dunque anche una sorta di regressus ad uterum, simile (ma più cruento) a quello dei personaggi del successivo Chiedo asilo, che nel finale ritornano alle acque –materne- del mare.
Veniamo ora al secondo livello metaforico del film di Pasolini, che è quello della Storia. Il romanzo di Sade, autore settecentesco, trasposto nella Repubblica Sociale, coi quattro signori che citano a più riprese anche scrittori posteriori al tempo in cui il film è ambientato, non è un gratuito gioco colto d’autore.
Questa operazione può intendersi meglio alla luce dell’Abiura dalla trilogia della vita scritta dal poeta friulano all’indomani dell’uscita del film, protestando contro la falsa tolleranza che aveva scavalcato la lotta per la liberazione sessuale e il proliferare dei film boccacceschi usciti a seguito della sua trilogia.
In essa, Pasolini scrive fra l’altro: “Il crollo del presente implica anche il crollo del passato. La vita è un mucchio di insignificanti e ironiche rovine.”
È l’amara constatazione di un intellettuale che si rende conto che le armi della propria logica, della sua cultura e della sua coscienza storica non sono sufficienti a contrastare l’orrore del suo tempo, poiché il presente mantiene un terrificante rapporto di specularità col passato, e il Potere omologante di oggi, della neocapitalistica società dei consumi, non è diverso da quello fascista, come non è diverso dai crudeli personaggi sadiani: essi hanno come unico fine il dominio pieno e antiumanitario degli esseri umani.
Notava giustamente Moravia a proposito del film che in esso Pasolini si è servito “di Sade come di una pietra da lanciare contro la società italiana, con l’intento provocatorio di farla uscire allo scoperto, fuori dalla sua corruzione e dalla sua contraddittoria condanna dell’omosessualità.”
Lo sguardo di Pasolini è qui, in questo suo ultimo film, amaro più che altrove. La logica stessa, che egli adoperava da intellettuale per fustigare i costumi, non è che un prodotto della società dominante, un ulteriore strumento di tirannia di cui essa si serve per stabilire delle norme, discriminando ciò che è logico e ciò che non lo è. Ecco allora dove risiede la differenza sostanziale che separa il film di Pasolini da quello di Ferreri. Quest’ultimo ha lo sguardo di un entomologo o di un etologo, e come tale non riconosce alcuna logica alla cosiddetta società civile ma neppure –a livello metafisico- alla realtà stessa (ed era Pasolini stesso a notarlo, nell’articolo più volte citato su La grande abbuffata: “una contestazione assoluta, che mette in scacco «globalmente» la logica del reale, non ammettendo la possibilità di alcun genere di logica”): per Ferreri l’uomo non è aristotelicamente animale razionale, e dunque egli non può dare spiegazioni logiche né alla naturalezza del corpo (tanto nella sua creazione che nel suo disfacimento inteso anche come regressus ad uterum), né del quadruplice suicidio pantagruelico da lui messo in scena.
Pasolini ha invece l’amarezza di chi ha creduto fermamente, da intellettuale, che la logica e la ragione potessero essere ristabilite, con passione civile, anche lì dove sembravano “regnare l’arbitrarietà e il mistero”, benché la logica borghese del buon senso comune sia stata da lui criticata in più occasioni (l’episodio del film Le streghe “La terra vista dalla luna”, “Teorema”). Quella di Pasolini è una presa di coscienza da parte di un uomo, come scriveva Moravia “tradito dal suo paese”, per il quale ha lottato con forte passione, suo modo, ma ne è stato come respinto per la sua diversità morale e sessuale. Quella diversità sessuale che la società italiana borghese gli aveva fatto sentire come nemica, in un senso di colpa latente.
Anche il linguaggio è usato nei film in maniera differente: se per i protagonisti di Ferreri il linguaggio è quello della chiacchiera (heideggerianamente, il linguaggio del “si dice”) tipicamente borghese, usato come funzione meramente fatica (e forse in questo legato al puro piacere di dire, e perciò alla fase orale), i signori del film di Pasolini citano a memoria Baudelaire, Nietzsche, Klossowski: sono uomini di potere che hanno fagocitato la cultura dei pensatori “incendiari” di otto e novecento.
La condanna del Salò di Pasolini riguarda dunque in maniera specifica il Potere e la società borghese, quella di Ferreri certi aspetti della cultura borghese, ma il suo film appare distante da possibili visioni in termini politici o di lotta di classe (poiché da entomologo che non crede all’animale razionale, semplicemente, da anarchico disincantato non può credere neppure all’animale politico, ma solo all’animale in quanto tale?) e dunque la sua condanna viene ad assumere tinte metafisiche e kafkiane, come di un’oppressione dalla quale non è dato uscire, ma alla quale ci si può solo arrendere senza troppe rimuginazioni, come fosse “l’unica tragica realtà di questa vita”, la nostra stessa esistenza corporea che conosce la creazione come il disfacimento.

Festen: analisi di una sequenza

Festen: analisi di una sequenza

Festen (Dogme #1-Festen, Dan., Sve., 1998) è il primo film girato secondo i dettami del manifesto del movimento Dogma 95. I primi ad aderire al movimento, oltre al regista del film in questione Thomas Vinterberg e all’altro firmatario del manifesto (detto “voto di castità”) Lars Von Trier, furono Kristian Levring e Soren Kragh-Jacobsen.

Come è noto, il manifesto si proponeva di contrastare una certa tendenza del cinema che siamo soliti definire mainstream, rinunciando agli effetti speciali, agli investimenti ad alto budget, alle luci, a musiche non diegetiche, etc… , reagendo così anche all’impiego delle tecnologie digitali in uso nei film hollywoodiani e indicando una proposta alternativa di uso delle nuove tecnologie.

Eppure non si può non essere iconoclasti. Specialmente se si è della razza che farebbe cinema anche con gli specchietti retrovisori, o anche senza specchietti, semplicemente viaggiando in moto o attraversando la città. (Enrico Ghezzi)

Analizzando qui una sequenza del film, mi propongo di rintracciarne le affinità di tipo tecnico e linguistico con tutta una serie di altri canali mediatici storicamente e linguisticamente diversi da quello cinematografico in senso tradizionale. Da qualche tempo a questa parte si assiste infatti a quella che alcuni critici e teorici dei media hanno definito nei modi più diversi “contaminazione”, “ibridazione”, “intersezione”, “rimediazione”, etc… tra i linguaggi dei media così come storicamente li conosciamo e il nuovo volto che essi stanno assumendo nell’era del digitale.

Come nota giustamente Sanfilippo nel suo saggio La mimesi come produzione, i primi “film dogma” Festen e Idioti (Dogme #2-Idioterne, Dan., Sve., Fra., Ola., Ita., 1998)  sono spie di un nuovo corso della produzione cinematografica che “cerca di attestare il suo potere mimetico non attraverso l’ideologia dell’illusione referenziale ma imitando alcune pratiche diacritiche del video amatoriale”.

In tal senso, l’operazione svolta da Vinterberg con Festen si configurerebbe dunque come la ricerca di una strategia narrativa, espressiva mimetica diversa da quella dell’illusione referenziale del cinema classico e dell’attuale cinema mainstream, che sembra trovare il proprio corrispettivo linguistico appunto nelle varie pratiche attuali di video amatoriale.A questo proposito è necessario innanzitutto guardare al modo in cui i registi firmatari del manifesto si accostano al nuovo mezzo digitale, e dunque la telecamera da essi scelta.

Vintenberg usa delle telecamere da consumer più che da prosumer (e in tal senso la sua scelta apparirebbe, almeno sotto questo aspetto, più radicale di quella di Von Trier, che invece usa per il suo Idioti una telecamera analogica tradizionale da cui elimina però le lenti anamorfiche). Ne consegue un diverso modo di girare, di inquadrare, di narrare. Lo stesso Von Trier propone come nuovo termine atto a definire le operazioni da lui svolte in quanto operatore: “puntare”, più che un “inquadrare”.

L’operazione svolta da Vinterberg con Festen

Festen filmViene messa da parte la regolarità del découpage tradizionale, e il modo di girare sembra farsi più sensibile alle tentazioni del caso. Mi sembra che ritorni a questo proposito un’affermazione di Godard, che vale la pena citare per intero: “Ci sono grosso modo due generi di cineasti. Quelli che camminano per la strada con la testa bassa e quelli che camminano con la testa alta. I primi per vedere quel che avviene attorno a loro sono costretti ad alzare spesso e d’improvviso la testa e girarla ora a sinistra ora a destra e cogliere con una serie di sguardi ciò che si presenta ai loro occhi. Essi vedono. I secondi non vedono nulla, guardano, fissando la loro attenzione sul punto preciso che li interessa. Al momento di girare un film le inquadrature dei primi saranno ariose, fluide (Rossellini), quelle dei secondi precise al millimetro (Hitchcock). Nei primi si troverà un découpage senza dubbio disparato ma sensibilissimo alla tentazione del caso (Welles), e nei secondi dei movimenti di macchina non solo di straordinaria precisione in teatro di posa ma con un valore astratto di movimento nello spazio (Lang).”

Ciò è simile a quanto possono trovarsi a fare coloro i quali usano la videocamera compatta o qualsiasi strumento da consumer o videoamatore (oggi anche i più avanzati modelli di telefoni cellulari). Un videoamatore probabilmente non si dà tanto pensiero di ottenere un’inquadratura corretta o un corretto découpage secondo le regole della grammatica cinematografica. La sua attenzione è invece di volta in volta attirata da questo o da quell’elemento, da questa o quella situazione, in maniera più o meno casuale e imprevedibile.

Credo che in effetti Vinterberg somigli ai cineasti che camminano a testa bassa. Non sembra curarsi, proprio come un cineamatore della precisione delle inquadrature offrendo un decoupage disparato ma sensibilissimo alla tentazione del caso. Vengo ora all’analisi di una sequenza del film che mi sembra particolarmente rappresentativa di quanto appena enunciato.

È la sequenza in cui Kristian, dopo essere stato scacciato dal fratello Mikhael, rientra nella sala dove si sta festeggiando il sessantesimo compleanno di suo padre, tra parenti e amici, dinanzi ai quali ha accusato il genitore di aver abusato sessualmente di lui e della sorella (ora morta suicida) da bambini, e ora accusa violentemente la madre di essere rimasta indifferente di fronte alle atrocità compiute dal marito sui figli.

Kristian rientra nell’Hotel dove si tiene il festeggiamento, e si dirige con decisione verso la sala da pranzo. Un montaggio parallelo ci mostra il percorso di Kristian e ciò che avviene nella sala del festeggiamento, dove sua nonna sta cantando una canzone di fronte ai commensali. Il momento in cui Kristian rientra nell’Hotel è ripreso con una macchina a mano particolarmente vivace: la macchina inquadra dall’alto il pomello della porta ruotato da Kristian. Quando questi entra, la mdp lo riprende dapprima frontalmente, poi lo segue lasciandocene intravedere la quinta. Nel momento in cui la porta viene aperta c’è un sensibile aumento di illuminazione, così forte (e brutalmente inelegante, sporco) da non lasciarci percepire in maniera netta i contorni dell’ambiente. Stacco. Si torna alla sala da pranzo, dove la nonna di Kristian, inquadrata in MF in piedi di spalle sta cantando davanti ai commensali. A uno stacco segue un primo piano della donna ripresa di profilo. Dopo un altro stacco vediamo Kristian, inquadrato prima –wellesianamente- dal basso e poi di spalle a MF percorrere i corridoi dell’albergo e aprire le porte che conducono alla sala dove si tiene il ricevimento.

Segue un’altra inquadratura in PP del profilo della nonna di Kristian, poi un’altra inquadratura di Kristian di spalle mentre apre una seconda porta, ripresa con una lente a focale corta che distorce le linee dell’inquadratura, quindi di nuovo un’inquadratura di Kristian ripreso dal basso, e un PP della nonna nella sala da pranzo pressoché identico al precedente. A questo punto la mdp propone un ulteriore primo piano della nonna ma da una diversa angolazione, inquadrando il volto della donna frontalmente. Dopo un breve zoom all’indietro, la mdp, seguendo, quasi, il rumore della porta della sala da pranzo mentre viene aperta, panoramica brutalmente a schiaffo verso sinistra, per farci scoprire la sorgente del rumore: è Kristian, che appena rientrato, si dirige nuovamente verso il suo posto a tavola e facendo tentennare il bicchiere per richiamare l’attenzione degli ospiti, si accinge a riprendere il suo j’accuse nei confronti della madre. Uno stacco in jump-cut (che viola per altro la regola dei 30°) ci mostra Kristian in MF mentre riprende la parola, ma a questo punto una nuova panoramica a schiaffo verso destra scopre il fratello di lui Mikhael che prontamente si accinge a scacciare nuovamente Kristian dalla sala, aiutato da altri due invitati. Stacco sul nero dell’abito di uno degli invitati.

La macchina riprende ora lateralmente Kristian che si dimena mentre viene portato con forza verso l’uscita della sala. Segue un PP che include Kristian e Mikhael, poi un PPP del padre dei due mentre chiede che il figlio sia allontanato. Dopo un altro stacco ecco un CM della tavolata, che include sul fondo il gruppo di invitati che trascinano a viva forza Kristian fuori dalla porta. Stacco. Altro primo piano di Kristian fuori dalla porta. Stacco. Un invitato, ripreso dal basso, che si oppone a Kristian e chiude la porta della sala. La mdp inquadra per qualche istante la porta chiusa. Panoramica a schiaffo verso destra. Stacco. Segue un primo piano del padre di Kristian, che esprime la sua costernazione per l’episodio e invita la madre perché riprenda a cantare.

Anche da questa descrizione si può evincere come il modo di girare di Vinterberg costituisca qualcosa di profondamente diverso rispetto alla cinematografia mainstream, e come egli si accosti invece a certe soluzioni del video amatoriale, con il loro carico di disattenzioni, sporcature e quanto la grammatica cinematografica considera “errori”. Ne sono testimonianza, ad esempio, i succitati movimenti di panoramica a schiaffo, sporchi, ineleganti, così come alcuni stacchi di montaggio (la jump cut su Kristian che riprende posto a tavola, e lo stacco conclusivo sul volto del padre), nonché le sensibilissime variazioni nei toni della luce: una per tutte, le sovraesposizioni che si verificano quando i personaggi aprono delle porte.

Tutto ciò arriva a configurare, come sostiene Sanfilippo nel saggio più sopra citato, come una strategia mimetica alternativa e un regime di enunciazione altro rispetto a quello convenzionalmente stabilitosi nella narrazione cinematografica. Sanfilippo parla infatti di “sguardo soggetto”, indicando con ciò la figura produttrice dell’enunciazione che imprime una forte soggettività alla visione (a differenza di un enunciatore “oggettivo”, ma che non è ancorabile a una coscienza soggettiva vera e propria, che fa anche trasparire l’attività del processo di produzione del racconto. Con le dovute cautele, credo che tale discorso sia paragonabile a quello fatto a suo tempo da Pasolini a proposito della soggettiva libera indiretta.

Si tratta sostanzialmente della presa di possesso da parte di un narratore-autore (letterario, cinematografico, etc.) del discorso di un personaggio della sua opera, facendo sì che questo influenzi linguisticamente la stessa modalità di esposizione del narratore. Pasolini sosteneva che cinematograficamente si può giungere  ciò quando lo stile del film è influenzato dallo stato d’animo dominante di uno dei personaggi e che ciò consenta al regista una certa libertà linguistica e tecnica provocatoria, anche a prezzo di rompere il tabù del cinema classico che vuole che non si avverta la presenza della macchina da presa.

La macchina di Vinterberg, invece, “si sente”, e in maniera forte, quasi avesse fatto propria la soggettività ribelle di Kristian, e si sente fino a far coincidere il poverismo ascetico-asettico del Dogma con una forte matrice metalinguistica e materica. Nel film di Vinterberg infatti le inquadrature sono sporche, sgranate o sovraesposte, e si vedono, per un attimo, operatori in campo. I contorni delle inquadrature si sfaldano per effetto delle sfocature e delle sovraesposizioni fino a non poter più discernere in maniera netta campo e fuori campo. Come per Kristian tutto deve essere rivelato sfidando il padre, così per Vinterberg (e il suo operatore Dod Mantle) tutto diventa inquadrabile, da tutto la telecamera può essere attirata, proprio come l’occhio del cineamatore più sprovveduto ma sensibilissimo alle tentazioni di una realtà in fieri.

Benedetto Alessandro Sanfilippo, La mimesi come produzione, in Passages. Drammaturgie di confine, a cura di Antonella Ottai, Bulzoni Editore, Roma. In realtà non si può parlare di macchina da presa in senso stretto, essendo il film girato con una telecamera digitale. Per ragioni di comodità qui viene comunque usata la sigla “mdp”. Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano.

 

Flags of Our Father e Call of Duty: dallo schermo al gamepad

Flags of Our Father e Call of Duty: dallo schermo al gamepad

La sequenza presa in questione è tratta dal film Flags of Our Father, e l’analisi proposta si sviluppa tramite  un lavoro comparativo tra la sequenza del film e alcune sequenze tratte dal videogame di guerra Call of Duty; scopo di tale lavoro è quello di individuare assonanze tra le immagini di uno e dell’altro prodotto preso in questione avvalorando la tesi di una reciproca influenze tra i due mezzi analizzati mediata dallo sviluppo della computer grafica, e il conseguente cambiamento dell’estetica, del film e del videogame, proprio in virtù dell’influenza sopracitata.

La lunga sequenza dello sbarco

Prendiamo in esame la lunga sequenza dello sbarco delle truppe americane sull’isola giapponese di Iwo Jima,  teatro di violenti scenari di guerra, spesso accostata da molta critica alla sequenza dello sbarco in Normandia girata da Spielberg (che figura come produttore del film di Eastwood ) per Salvate il soldato Ryan. Tale affermazione risulta approssimativa nel momento in cui non tiene conto della spettacolarizzazione operata da Eastwood, il quale, diversamente dall’autore di Lo squalo, ricostruisce interi scenari in computer grafica, svincolando spesso la mdp dal suo referente indicale e puntando invece su una ricostruzione di intere scene in post-produzione; in tal senso, l’operazione compiuta accosta il film alle modalità di creazione operata dai videogame;  ovviamente non ci sarebbe nulla di particolare se tale intervento si limitasse ad una mera ricostruzione ex-novo operata dalla computer grafica: in realtà il film di Eastwood merita un approfondimento nel momento in cui egli  sembra ricalcare alcune modalità di riprese tipiche dei giochi di guerra FPS (first person shooter).

Ad avvalorare ciò, l’uso frequente di soggettive, o semi-soggettive dei militari intenti a far fuoco, o le numerose scene -caratteristiche proprio di questo genere di gioco- in cui il regista posiziona l’arma in diagonale nella parte bassa dell’inquadratura. Un espediente quest’ultimo tipico dei giochi FSP, ove lo scopo è ovviamente quello di creare un’interazione visiva tra lo schermo e il giocatore. Partendo da tali presupposti, è facile intuire il perché Clint Eastwood abbia usufruito di tali artifici compositivi: l’intento del regista è, in una prima analisi, quello di rendere lo spettatore partecipe alla guerra, liberandolo dalla sua condizione di spettatore passivo e immettendolo direttamente nello scenario di guerra, in una posizione che lo interpella e lo chiama in causa rendendolo attivo al limite delle possibilità offerta dallo schermo. Il passo successivo di un’operazione del genere è senz’altro il cinema 3d e le nuove forme ludiche di tipo interattivo(quelle offerte dal videogame appunto).

Flags of Our FatherA livello puramente formale quindi, il lavoro del regista si configura come una ripresa dei codici del linguaggio dei FPS game, rivolgendosi allo spettatore -nei momenti che rappresentano la guerra- instaurando un rapporto di interazione: tal interazione è spronata esclusivamente dall’impianto visivo ed esclude il coinvolgimento fisico, il quale è invece una prerogativa del videogame (gamepad). Per esemplificare tutto ciò basti mettere a confronto  le immagini qui riportate per capire quanto le modalità di ripresa del film di Eastwood siano debitrici al videogame FPS: le riprese in first person del videogame si configurano nel film come delle soggettive, le quali però, non appartenendo a nessuno(non vediamo quasi mai chi regge l’arma), elevano il ruolo dello spettatore a protagonista in prima persona (figure 2A e 2B); si tratta di “soggettive intercambiabili che rendono lo spazio una risultante dell’incrocio fra i diversi punti di vista dei personaggi in gioco”  e trovano le proprie origini nel videogame; anche i numerosi sguardi in macchina (figure 4A e 4B) da parte di terzi, che nel videogioco si rivolgono al character guidato dal player, nel film si rivolgono direttamente allo spettatore; laddove quindi, le modalità di ripresa del videogame vanno ad interpellare il giocatore, il film mettendo in scena i medesimi schemi compositivi attiva direttamente lo spettatore/giocatore rendendolo player del film e della guerra inscenata.  Come precedentemente affermato, il rapporto di influenza tra  cinema e videogame non è unilaterale; laddove il cinema va alla ricerca di espedienti visivi coinvolgenti propri dei videogiochi, è anche vero che sempre più spesso i videogame vanno verso una teatralizzazione propria del film, soffermandosi sempre di più sulla storia e costruendo sequenze sempre più realistiche che, svincolate dal gioco, si configurano come delle vere e proprie sequenze filmiche.

Di conseguenza il videogame esplora nuove possibilità, caratterizzando maggiormente i personaggi e gli scenari, proprio forte della fascinazione subita dal cinema. In tal senso basti confrontare un trailer di un film con i nuovi trailer dei videogame per capire quanto queste due arti visuali guardino l’una all’altra. Detto ciò, possiamo dedurre che, se il videogame tende verso il cinema cercando in esso la possibilità di rendere il gioco più realistico, il cinema da parte sua sembra che aspiri alle possibilità ludiche offerte dal videogame, come se volesse –paradossalmente- svincolarsi dagli intenti realistici per favorire una forma che miri invece ad un rapporto più interattivo con lo spettatore(vedi in tal senso il grande successo dei nuovi film in 3d).

Rapporto dialettico il film di Eastwood instauri con il videogame

Proprio partendo da tale considerazione cerchiamo di capire che tipo di rapporto dialettico il film di Eastwood instauri con il videogame. A prescindere dagli elementi prettamente formali, la scelta di Eastwood di far riferimento all’estetica del videogame va inquadrata all’interno del contesto e del tessuto narrativo del film stesso: il film infatti non è altro che il racconto di un falso storico, e va a distruggere uno dei simboli americani (la fotografia dei Marines che piantano la bandiera sulla collina di Iwo Jima). In tal caso, potremmo azzardare dicendo che la guerra rappresentata da Clint Eastwood non poteva essere del tutto realistica (come lo era invece la sequenza d’apertura di Salvate il soldato Ryan), in quanto lo stesso film si snoda attorno all’immagine falsa della fotografia. Un film dunque che si presenta come un gioco sull’immagine (quello della fotografia che in realtà un falso), e come l’immagine di un gioco(la rappresentazione dei soldati americani che piantano la seconda bandiera). Ovvero: Clint Eastwood si diverte a smontare la fotografia e con essa il mezzo fotografico e le sue capacità documentaristiche e mette in scena la “recita” dei militari che inscenano la seconda volta la conquista di Iwo Jima piantando una seconda bandiera.

Di conseguenza a tale considerazione viene messa in gioco la dicotomia finzione-realtà, sia in rapporto alle immagini sia a livello. La trama stessa si impernia sul rapporto tra finzione e realtà, e tale rapporto ovviamente trova riscontro nella nostra sequenza, dal momento in cui questa, forte della computer grafica che impera in maniera evidente, invece di adottare un approccio documentaristico(vedi Redacted), fa affidamento appunto all’iperrealismo ricreato dal computer, con un virtuosismo tale che va a discostarsi dalla realtà stessa, stravolgendola e rendendo invece la sequenza più vicina ad uno dei tanti momenti che si vivono giocando a Call of Duty e giochi affini. È come se il regista, partendo da una considerazione che va ad abbattere e contestare la veridicità del mezzo (sempre riferimento alla fotografia), avesse scelto anche formalmente un tipo di immagine che, scevra dal suo indice di riferimento, manifestasse la perdita del luogo reale e palesasse la sua inadeguatezza ad elevarsi a mezzo testimoniale.

M. Night Shyamalan Questioni di Stile

M. Night Shyamalan Questioni di Stile

In un’epoca cinematografica dove i film sono dominati da uno stile videoclip, a sua volta influenzato dalla moda di MTV, stupisce come un talento di nuova generazione come Night, scelga uno stile completamente differente, addirittura controcorrente. Siamo nell’era del montaggio veloce, che abusa del mezzo, dei continui remake, prequel, sequel, tratti da, dal romanzo di, etc. che talvolta o il più delle volte distruggono piuttosto che creare, trasformano un mito, un film unico in un espediente “commerciale” frutto di un’industria che produce se stessa e perde completamente il senso del narrare. O ancora nel periodo in cui mostrare le interiora di un individuo o semplicemente il massacro di un essere può generare successo o piacere per il pubblico, Night sceglie l’esatto opposto.

Sceglie di non filmare la tragedia, ma solo di anticiparla o farla intuire. Proprio in questo scenario impervio si insinua  M. Night Shyamalan; è con il suo stile rigido, con le sue fantastiche storie, la sua poetica ben formata e pronta a essere sviluppata che impone il suo cinema. Egli sceglie un senso registico “Classico”; sorprende ancor di più l’enorme successo di pubblico che ha avuto, nonostante remi contro l’industria cinematografica di oggi. Questo sta a testimoniare che non tutto è frutto del volere “commerciale” e che davanti ad un’ampia scelta, lo spettatore sceglie ancora il gusto e lo stile per vedere il cinema. Quello che maggiormente colpisce di Night è la propensione ad un equilibrio tanto precario quanto meticoloso, fra forma e contenuto, regia  e sceneggiatura, aspetto e significato, visione e messaggio. Tutto ciò è dimostrato dalle numerose sequenze dense di significato, in cui  movimenti della macchina da presa assumono un’importanza concettuale in riferimento ai contenuti della storia, senza tralasciare la spettacolarità e la bellezza delle scene.

Da questa riflessione si può iniziare un percorso di individuazione degli espedienti stilistici che sono accomunabili alla dialettica stile/significato, che fanno di Shyamalan un regista meticoloso e attentissimo.

Prendiamo in esame The Sixth Sense,  e in particolare la sequenza in cui Malcom rimane ferito dallo sparo. Colpito si sdraia a letto, mentre la macchina da presa si allontana da lui in plongeé[1].  La scelta del movimento è una sorta di soggettiva dell’anima di Malcom che abbandona il corpo fisico, facendoci intuire inevitabilmente la sua fine, la stessa anima che si ritroverà a vagare per il mondo in cerca di  Cole.

Un’altra sequenza in cui si può individuare meglio la scelta stilistica che esalta ancor di più il significato concettuale e l’uso funzionale della macchina da presa è quella del funerale della bambina. Qui la m.d.p. compie un magnifico piano sequenza della scena.

Per non rischiare di spezzare la tensione accumulata nel film, Shyamalan crea una sequenza molto interessante. L’occhio della telecamera segue Malcom e Cole che attraversano la casa, passando fra i presenti. Attraverso l’audio riusciamo a sentire i commenti delle persone, ed è grazie a questi commenti che arriviamo a capire a pieno  la storia della povera ragazza morta. In una semplice inquadratura il regista, da un lato riesce ad approfondire e a farci comprendere  la storia parallela della vittima, dall’altro riesce a far proseguire la storia di Cole che è venuto per superare le sue paure ed aiutare l’anima della ragazza. Per la prima volta, Shyamalan introduce l’uso del piano sequenza che diventerà importante per dare vita alle sue visioni registiche (si pensi alla costruzione narratologica di Unbreakable). A questo proposito va sottolineato come Shyamalam creda fermamente alla teoria di Walter Murch che nel suo In un batter d’occhio[2] dimostra l’importanza di usare pochi stacchi in un film, paragonando questa esperienza alla vista umana. Il nostro vedere è come un lungo piano sequenza o un insieme di piani sequenza, e in questa visione gli stacchi corrispondono allo sbattere delle palpebre. Questo concetto è completamente controcorrente con il montaggio frenetico contemporaneo che predilige una continua frammentazione, quasi  una scissione della visione in piccolissime parti.

Merita di essere sottolineato anche l’uso del fuori campo. Il cinema per Shyamalan deve riuscire a coprire tutto, andare oltre i limiti visivi imposti dai margini dell’inquadratura. Ed è in questa concezione che l’uso del fuori campo va oltre quello che potrebbe essere soltanto un mero espediente stilistico, in questa dimensione assume un valore poetico fortemente delineato.  Inoltre, l’uso del fuoricampo si accomuna perfettamente ad uno dei temi che ossessionano la filmografia del regista e che prende il titolo di questa tesi: Vedere e non vedere. Attraverso il fuoricampo noi non vediamo le cose che accadano ma ne percepiamo l’avvenimento. Pensiamo, a proposito di The Sixth Sense, al ragazzo che si è introdotto furtivamente in casa del protagonista Bruce Willis. Si uccide, sparandosi in fuori campo. Shyamalan ce lo nasconde magistralmente con una carrellata che si chiude sul muro, celandoci  il premere del grilletto, ma facendoci sentire il suono dello sparo.  Un’altra splendida sequenza è quando per la prima volta percepiamo qualcosa di strano in Cole  e in quello che gli accade intorno.  E’ mattina, Cole arriva in cucina a fare colazione, mentre beve il latte la madre si accorge che ha la cravatta sporca. Gliela prende e si dirige nel ripostiglio dove ne prende una pulita. Al ritorno trova Cole tremante e tutti i cassetti della cucina aperti. Non sappiamo cosa sia successo in quella stanza, perché la m.d.p. in un piano sequenza di grande fattura ha seguito il personaggio che interpreta la madre di Cole, anziché rimanere in cucina e mostrare cosa sia successo. Una sequenza terribilmente  angosciante, che spinge lo spettatore a immaginarsi  cosa sia successo ed a intuire gli avvenimenti che l’occhio non ha visto. Con questa sequenza Shyamalan introduce  lo spettatore nell’universo delle paure di Cole, senza però farlo immergere completamente nella realtà visiva che Cole è costretto ad affrontare.

Tuttavia, è in The Village che il fuori campo assume un connotato poetico. Il film è denso di cose che accadono in fuori campo, messe in stretta relazione con il significato concettuale della storia. Attraverso questo espediente Shyamalan dimostra un grande talento nel narrare attraverso le immagini e attraverso l’assenza di esse, cosa che accade raramente nella Hollywood contemporanea. Come il personaggio principale Ivy che è non vedente, lo spettatore comprende tutto ciò che serve attraverso il non vedere, attraverso la percezione degli altri sensi, attraverso la visione distorta delle cose. Come accade nella sequenza in cui ci vengono mostrate le creature innominabili. Una pozzanghera riflette immagini distorte di bosco, alberi e rami. Improvvisamente passa una figura rossa, che non vediamo direttamente, ma della quale intravediamo il riflesso rosso  sull’acqua. In un certo senso ne percepiamo il passare attraverso l’immagine distorta nell’acqua. Sequenza importante perché è la prima volta che ci troviamo di fronte alle creature che rendono difficile la sopravvivenza del villaggio. E’ una prima visione distorta che ci viene mostrata  con l’uso parziale del fuori campo. Fuori campo è anche  il bacio dei due protagonisti Ivy e Lucius, che ne sancisce l’unione. Ivy si sveglia in piena notte, come avesse avuto un incubo e si accorge della presenza di Lucius sul portico di casa sua. Gli si avvicina e comincia a parlare ininterrottamente, chiedendo fra l’altro perché Lucius non esprimesse ciò che pensa.  Il tutto illuminato magistralmente dalla fotografia accurata e straordinaria di Roger Deakins. E’ qui che Lucius dichiara il suo amore per Ivy. I due si baciano in fuori campo, quando si avvicinano per toccarsi con le labbra, la m.d.p. si muove lateralmente ad inquadrare una sedia vuota, sullo sfondo una nebbia che circonda tutto e tutti, una nebbia fortemente  significante che esprime lo stato di completa cecità degli abitanti, individui che non riescono a comprendere la verità che bussa alle loro porte.

Il fuori campo oltre ad essere un espediente stilistico/concettuale, viene impiegato dal regista indiano anche come puro intrattenimento che genera spaventose sensazioni. Come accade nella sequenza in cui Lucius percorre il confine vestito con il mantello e cappuccio giallo. In un impeto di coraggio, spinto dalla voglia di varcarne il limite, si porta oltre il confine. Qui si avvicina ad una pianta di bacche rosse (il colore proibito) e ne raccoglie un ramoscello. Improvvisamente sentiamo lo spezzarsi di un ramo e un gemito indistinto. La m.d.p. si sposta dal viso di Lucius verso la sua destra, qualcosa si muove e con la coda dell’obbiettivo vediamo una figura che si allontana. Un urlo indefinito si leva in lontananza e Lucius in preda al panico si allontana, ritornando entro il confine del villaggio.  L’inquadratura si chiude su di lui che rientra. Sul suo viso è disegnato il terrore appena provato. Attraverso il fuori campo ci accorgiamo di qualcosa, di una presenza estranea. Il colore giallo(bene) si scontro con il rosso(male). Ancora una volta Shyamalan da dimostrazione  delle sue qualità fuori dall’ordinario. Il non vedere diventa principalmente il mezzo con cui spaventare, con cui catapultare lo spettatore all’interno delle paure che affliggono il villaggio.  In questa sequenza si può notare facilmente anche un altro espediente stilistico/narrativo al quale Shyamalan ci ha abituati: le sfumature cromatiche[3]. E’ di rilevata importanza per la comprensione del significato concettuale dei film di Shyamalan individuare la simbologia dietro ai colori. In questo caso si fa riferimento  principalmente al Giallo e al Rosso, che rappresentano il dualismo (bene vs. male) all’interno della narrazione e che inevitabilmente finiranno per scontrarsi. Ritornando al fuori campo un altro grande esempio che mostra stilisticamente il senso vero del suo cinema è la sequenza dell’assedio in cantina di Signs.  In particolare, nel momento in cui il piccolo Morgan è aggredito da un alieno, che lo afferra con la mano. In questo momento di forte tensione Shyamalan compie qualcosa che è fuori dal comune e dagli schemi odierni; ovvero spezza il tutto facendo cadere per terra la torcia, unica fonte di luce. Sull’immagine cala il buio più nero, sentiamo urla, rumori, la m.d.p. continua a fissare la torcia, che ad un certo punto viene spostata inavvertitamente da un calcio. Ora la torcia riaccesa illumina Bo impaurito che si avvicina, la prende in mano e illumina ciò che avremmo voluto vedere per tutto il tempo. Qui Shyamalan da dimostrazione di tutta la  sua bravura nel voler spaventare semplicemente non mostrando, celando tutto. E’ qui che è individuabile il senso stilistico del cinema del regista, in questo fuori campo assoluto. Il buio è significante, corrisponde al buio conoscitivo dello spettatore, che fa appello all’unica cosa che gli rimane: l’immaginazione, sicuramente  più pericolosa di qualsiasi altra visione.

L’uso del piano sequenza  è palesemente individuabile nel modo  di girare di Night come tratto stilistico fondamentale. Anzi può essere ritenuto il mezzo espressivo per eccellenza. Lo si può trovare in ognuno dei suoi film e si potrebbe anche azzardare il paragone con un’altra figura del grande cinema che ha fatto del piano sequenza una ragione d’espressione: Michelangelo Antonioni. Anche se è fuori luogo paragonare lo stile  e le intenzioni di Shyamalan al lavoro svolto da Antonioni, si può ugualmente tentare di trovare dei punti in comune che rendono il parallelismo  almeno in parte sostenibile. Si pensi agli elaborati e virtuosistici movimenti di macchina che precedono, accompagnano e seguono gli attori, ponendoli sempre in relazione al paesaggio circostante (vedi The Village/Cronaca di un amore) e che diventano specchio della loro interiorità. Quegli stessi movimenti di macchina che assumono importanza in relazione alla struttura concettuale del film, o ancora al cinema dell’incomunicabilità elaborato dall’autore italiano e che guarda caso diventa tema fondamentale in film quali: The Sixth Sense, The Village e molti altri. O ancora, appunto l’uso del piano sequenza/fuori campo che vuole essere il mezzo con cui non dover frammentare l’esperienza in una serie di inquadrature, ma tentare di restituire , in una tranche de vie[4], la continuità ininterrotta dell’azione. Si fa particolare riferimento al finale di Professione Reporter, in cui un formidabile piano sequenza si lascia dietro l’omicidio del protagonista Jack Nicholson, che viene ucciso in fuori campo per poi mostrarci il suo cadavere sul letto dopo circa 3 minuti e mezzo.

Judy Garland in memoriam – biografia

Judy Garland in memoriam – biografia

Judy Garland – Il suo destino era scritto ancor prima che nascesse. I suoi genitori avevano in comune l’aspirazione di entrare nello show business. Frank Avent Gumm era un tenore che lavorava al teatro di Superior, nel Wisconsin. Nello stesso teatro, il pianista era una donna, Ethel Marian Minle, irlandese come lui. Formarono un duo artistico, Jack e Virginia Lee lavoravano nel vaudeville. In seguito divennero Mr. e Mrs. Frank Gumm e dalla loro unione nacquero due bambine: Sue e Virginia. Questa nuova condizione familiare costrinse Jack e Virginia, gli artisti, a fermarsi, lasciando spazio ai genitori. Si stabilirono a Grand Rapids, nel Michigan, dove Frank divenne direttore del teatro locale.

Judy Garland altezzaEthel addestrava le piccole Gumm al canto e alla danza e le avviò presto ai primi spettacoli. In questo breve periodo di stabilità emotiva e geografica nacque il 10 giugno del 1922 una terza figlia. Frank avrebbe preferito un maschio, e tutti pensavano che dopo due bambine, sarebbe arrivato un erede maschio per i Gumm. Tutti erano pronti a festeggiare la nascita di Francis, invece venne alla luce un’altra bambina, Frances Ethel, l’unica della famiglia che sarebbe riuscita a realizzare i sogni di fama e ricchezza dei genitori. La futura Judy Garland.

Il debutto della piccola Frances avvenne a soli due anni e mezzo, la sera di Natale del 1924. Questo particolare aneddoto è diventato quasi leggenda, e come ogni leggenda che si rispetti, l’occasione è stata più volte rivisitata e romanzata, ma l’essenza del racconto è rimasta tale. Durante uno spettacolo delle due sorelle maggiori, la futura Judy Garland, saltò sul palco e cominciò a cantare l’unica canzone che conosceva: Jingle Bells. In questa occasione, tutti i presenti si resero conto che l’unica delle sorelle Gumm a possedere del talento era proprio lei, la nuova arrivata Frances.

Judy Garland biografia

Questa scoperta illuminò Ethel che convinse il marito a trasferirsi a Los Angeles per tentare la scalata ad Hollywood. I Gumm vendettero la loro casa e partirono da Grand Rapids nell’estate del 1924. Tra la città del Minnesota e Los Angeles, Le Sorelle Gumm parteciparono ad ogni spettacolo di vaudeville che trovavano lungo la strada, e proprio in una di queste occasioni la piccola Baby incontrò per la prima volta Joe Jr. Yule, anche lui avviato da piccolo agli spettacoli di vaudeville.

Judy Garland: film

Dal 1921, quando al cinema uscì Il Monello (The Kid) di Chaplin, ad Hollywood si era diffusa la moda degli attori bambini, ed Ethel, il “capo”del clan Gumm, fu particolarmente attenta a questa tendenza.

Molti anni dopo, un’affermata Judy Garland ricorderà con un po’ di tristezza quei tre mesi trascorsi con tutta la famiglia stipati nel loro furgone per raggiungere “la città degli angeli”.

Judy Garland biografiaI Gumm vissero a Los Angeles per sei mesi, e Frank divenne direttore di un teatro a Lancaster, a circa ottanta miglia dal centro della città, Frances ebbe così  la possibilità di crescere guardando film nel teatro diretto dal padre che veniva adibito anche a sala cinematografica. Prima della partenza per Lancaster però, la previdente Ethel iscrisse le sue tre figlie alla Meglin Kiddies, un’agenzia per bambini attori. Ethel costringeva la piccola Frances a fare spettacoli d’intrattenimento ovunque, in teatri ed in ristoranti e nel 1932 decise che doveva provare l’assalto decisivo ad Hollywood usando come ariete la figlia minore. Convinse il marito a trasferirsi di nuovo, questa volta nel cuore di Los Angeles  ed iscrisse Frances alla Miss Lawlor’s School of Professional Children. In questa scuola, uno dei compagni di classe di Frances fu Mickey McGuire. A questo periodo risale il distacco dal padre. La madre in persona fu la principale responsabile di questa prematura separazione, poiché portando le figlie in tour, lasciava il marito a casa. Le Gumm Sisters si esibirono per una settimana a Denver e poi passarono a Chicago.

Proprio qui, all’Oriental Theater, George Jessel, che aveva il compito di compilare i cartelloni degli spettacoli, ed occupandosi di quello delle sorelle Gumm, sbagliò lo spelling del nome e scrisse Glumm. L’errore venne subito notato, ma lo stesso Jessel sostenendo che il nome Gumm fosse poco adatto per un numero di vaudeville, e poiché in quel momento era in compagnia del suo amico critico teatrale Roberto Garland, decise, in accordo con Ethel, di cambiare il nome al trio. Fu così che per la piccola Frances si profilò l‘inizio del suo nome d’arte. Judy Garland venne in seguito, in omaggio ad una canzone di Hoagy Carmichael, molto amata da sua madre.

Judy Garland biografiaNel 1934, quasi per caso, Judy Garland sostiene involontariamente il suo primo provino importante. Durante l’estate di quell’anno, la famiglia Gumm si trasferì al Cal-Nega Lodge a Lake Tahoe per quattro settimane. Il proprietario del locale le chiese di cantare per alcuni amici; questi “amici” erano: Lew Brown casting director per la Columbia Pictures; Harry Akst, famoso compositore; e Al Rosen, un agente di Hollywood. Alla fine della performance di Judy, Rosen fece scivolare nella mano della bambina un foglietto con il suo numero riferendo alla madre di contattarlo a Los Angeles. Proprio Rosen divenne il suo primo agente, e le procurò un provino alla M.G.M.

Quel giorno cominciò la grande avventura di Judy Garland alla Metro: cantò per Rosen; Rosen chiamò Ida Koverman, segretaria di Louis B. Mayer; lei chiamò lo stesso Mayer che contattò gli avvocati e le fece firmare sul posto, lo stesso giorno, un contratto. Si hanno diverse testimonianze di quell’episodio tutte sommariamente concordi sui punti importanti; tuttavia, se nei ricordi di Judy Garland è il padre ad accompagnarla al piano, nella versione di Roger Edens sarebbe stata invece Ethel, la madre, ad accompagnare la performance della figlia. È probabile che il desiderio della presenza paterna in un momento così importante della sua nuova vita avesse spinto Judy Garland a sostituirlo madre. Sappiamo infatti che Frank morì di meningite spinale in pochi mesi, proprio nel momento in cui la carriera della sua Baby stava assumendo una forma più concreta.

Poco dopo Judy Garland cominciò a prendere lezioni private giornaliere da Edens. Alla Metro Judy ritrovò Mickey Rooney, insieme ad altre future co-star: Deanna Durbin, Jackie Cooper, Freddie Bartholomew. Tuttavia per circa un anno cantò solo alla radio oppure a feste e cene organizzate negli Studios. Finalmente, nel 1936 le diedero una parte in un film insieme a Deanna Durbin, si trattava di Every Sunday. Le canzoni vennero affidate a Con Conrad e Herb Magidson. In questo film, Judy Garland mostrò non solo la sua grande capacità canora, che già era conosciuta, ma soprattutto le sue doti di attrice. Vitale e frizzante la Judy Garland quattordicenne mostra tutto il suo brio in contrasto con una Durbin allo stesso modo brava ma molto più composta e pacata.

Dopo Every Sunday, Judy Garland viene “prestata” alla 20th Century-Fox per la realizzazione del non eccezionale Pigskin Parade(1936). Nell’elenco del cast Judy Garland appare nona, ma questa classificazione non è giustificata dal film dove la maggior parte dei numeri musicali ruotano intorno a lei. Questa fu la prima ed ultima volta che la Metro permise a Judy Garland di partecipare a produzioni esterne.

Il film successivo di Judy Garland fu Follie di Broadway 1938 (Broadway Melody of 1938 di Roy Del Ruth, 1937). Ad un party per celebrare il 36esimo compleanno di Clarke Gable, Judy Garland cantò “You Made Me Love You” all’attore, e nel bel mezzo della canzone improvvisò un’ardente dichiarazione d’amore nei suoi confronti. Questa improvvisazione venne inserita nel film del 1937. In quel numero Judy fu capace di ricreare dal nulla, senza nessuna previa preparazione, il carattere del fan malato d’amore per il suo idolo. Quella dedica fu registrata per la Decca con il titolo di “Dear Mr. Gable” ed ebbe un enorme riscontro sul pubblico dando a Judy Garland il suo primo vero successo personale e avvicinandola al regno delle star.

Il film successivo, Thoroughbreds Don’t Cry (1937), è da notare solo perché segna la prima collaborazione con Mickey Rooney. Invece Viva l’Allegria (Everybody Sing di Edwin L. Marin) primo dei tre film che girerà nel 1938, la vede protagonista. È un’occasione importante per Judy Garland che però comincia a scoprire il prezzo della celebrità. Il rapporto con la madre, che Judy ritiene responsabile della sua prematura separazione dal padre, peggiora poiché è convinta dell’esistenza di un accordo tra Ethel e Mr. Mayer, che la costringe a lavorare a tutti i costi. Passa tutto il suo tempo davanti alla macchina da presa, e quando non lavora, è in giro per il Paese a promuovere i suoi film.

Listen, Darling, il suo secondo film del ’38, si ricorda perché nella sua colonna sonora c’è il primo grande successo di Judy Garland “Zing Went the Strings of My Heart”. Ancora nel 1938 collabora per la seconda volta con Mickey Rooney. Andy Hardy (Love Finds Andy Hardy di George B. Seitz) fa parte di una serie di film incentrati sulla figura di un giovane, Andy Hardy appunto, interpretato da Rooney. Louis B. Mayer si interessò a questo personaggio poiché, a suo parere, rispecchiava il sogno americano essendo le sue avventure incentrate su una visione sentimentale della vita domestica. Il personaggio di Judy era Betsy Booth, e lei si ritroverà ad impersonarlo altre due volte sempre al fianco di Rooney.

Judy Garland Il Mago di OZ

Judy Garland Il Mago di OZLove Finds Andy Hardy fu l’ultimo film che Judy Garland interpretò da semplice attrice bambina; il 1939 fu l’anno de Il Mago di Oz, e dopo quel film Judy Garland divenne una star. Il 1938 fu un anno decisivo per Judy. Il Mago di Oz era una favola ad episodi per bambini, che come filo conduttore aveva il personaggio di Dorothy, una bambina sperduta nel fantastico Regno di Oz, che cercava di ritornare a casa, in Kansas. La fama di questo romanzo era paragonabile a quella di Peter Pan, altra storia ambientata in un mondo parallelo, L’Isola che Non C’è, con protagonista un’altra bambina (in questo caso Wendy). Entrambe le storie portano lo stesso messaggio riguardo ai legami che si hanno con la propria casa e i propri affetti, e forse proprio questo messaggio piaceva a Louis B. Mayer, che, essendo un emigrato dall’Europa dell’Est, non aveva mai avuto una casa. Ma questo messaggio si avvicinava anche al desiderio di sicurezza che si stava diffondendo in America e nel mondo all’alba di una nuova Guerra. La produzione de Il Mago di Oz (The Wizard of Oz) voleva Shirley Temple per la parte di Dorothy, ma Arthur Freed propose la Garland. Fortunatamente per lei, esigenze di contratto che legavano la Temple alla 20th Century Fox le impedirono di andare avanti col progetto e così Judy Garland divenne (e per certi versi rimase per tutta la vita) Dorothy. La sua interpretazione di “Over the Rainbow” è diventata quasi leggenda e la canzone accompagna la sua memoria come un leit-motiv. Molto delle sue dichiarazioni successive facevano riferimento a quell’arcobaleno che voleva rappresentare una felicità perfetta che in vita non raggiunse mai, e quando nel 1969 morì, la canzone divenne il suo epitaffio.

Per prepararla anche fisicamente al suo personaggio, Jack Dawn, direttore del dipartimento trucco, la acconciò con denti finti ed una parrucca bionda, look che venne fortunatamente abbandonato dopo tre settimane di riprese, perché la produzione si decise a mantenere l’aspetto di Judy Garland il più naturale possibile. Oltre al make-up, un altro problema riguardante il personaggio di Dorothy era l’età. L’autore del romanzo, L. Frank Baum, non aveva specificato l’età di Dorothy, ma era più plausibile che fosse una bambina di dieci anni (l’età della Temple nel 1938) che una ragazza di sedici (l’età della Garland), inoltre lo sviluppo fisico di Judy Garland fu piuttosto precoce. Si usò quindi un corsetto che le schiacciava leggermente il petto al di sotto del vestito azzurro.

Il problema riguardante il trucco dei tre compagni di viaggio di Dorothy risultò molto più complesso. Ray Bolger, Jack Haley e Bert Lahr, che interpretavano rispettivamente lo Spaventapasseri, l’Omino di Latta e il Leone Codardo, dovevano trasformarsi in creature di fantasia, ma dovevano tuttavia essere credibili nei loro travestimenti. Nel 1933 la Paramount realizzò Alice nel Paese delle Meraviglie, e il film fu un disastro sia finanziario che di critica. I personaggi di fantasia indossavano maschere che li rendevano inespressivi e poco credibili. Così la produzione de Il Mago di Oz optò per un trucco applicato al volto dei personaggi insieme a protesi sintetiche che potessero ricostruire le fattezze degli esseri magici interpretati dagli attori, che dal canto loro soffrirono ore ed ore di trucco prima di portare sul set un viso sofferente per sotto i caldissimi riflettori di scena. Il make-up ideale venne trovato anche per Margaret Hamilton, la Strega Cattiva dell’Ovest; una particolare sfumatura di verde brillante con la quale le dipinsero faccia e mani che le conferiva un aspetto tanto surreale quanto crudele.

Legato al colore è uno degli aspetti più interessanti del film; la decisione di usare una fotografia seppia per le sequenze in Kansas, e di usare invece il colore vivido del Tecnicolor per le sequenze nel mondo magico di Oz fu funzionale, ma soprattutto efficace e di grande effetto sul pubblico ed in particolare sui bambini. Come compagni di viaggio Bolger, Haley e Lahr sono eccezionali, e anche loro, proprio grazie all’enorme successo del film rimasero per lungo tempo legati al loro personaggio.

È probabile che uno dei motivi principali che determinarono il planetario successo del film sia riconducibile proprio alla scelta di Judy Garland per la parte di Dorothy. La sua sincerità di interpretazione e la sua capacità di emozionare il pubblico non servirono mai meglio un film come nel caso de Il Mago di Oz. Il suo fronteggiare la strega con tale ardente coraggio, il suo accorato saluto agli amici fantastici di Oz, tutto contribuisce ad una interpretazione davvero eccellente per una ragazza così giovane ma così dotata.

Si tratta quindi di un film molto riuscito sia per i risultati al botteghino che per i commenti della critica che però non si lasciò sfuggire la nota stonata costituita dalle scimmie volanti della Strega Cattiva dell’Ovest, eccessivamente grottesche. La 20th Century Fox, sperando di eguagliare il successo della pellicola targata M.G.M., produsse un film fantasy a colori, tratto da una commedia di Maurice Maeterlinck, The Blue Bird. Il film fu un disastro, e per la sua protagonista femminile, Shirley Temple, si trattò del primo grosso insuccesso dall’inizio della sua carriera nel 1933.

Per Judy Garland invece si aprirono le porte della Mecca del Cinema. La sua performance di Dorothy le valse una statuetta speciale agli Academy Awards, un mini-Oscar, e le garantì un posto di prestigio tra le star del musical della M.G.M. Judy non era mai stata così famosa, e per lei incominciò un periodo di duro lavora, ma di grandissimo successo.

Insieme alla statuetta speciale, Judy Garland ebbe anche il privilegio di lasciare le sue impronte nel cemento del marciapiede di fronte al Grauman’s Chinese Theater. La cerimonia avvenne nella notte della première del suo secondo film del 1939, Ragazzi Attori (Babies in Arms di Busby Berkeley), e sancì per la diciassettenne Judy il suo nuovo status di star, inaugurando il periodo più proficuo e impegnato di tutta la sua vita. Tra il 1940 e il 1950, Judy Garland divenne la vera e propria regina del musical al cinema, recitò in circa 20 film e prese parte a show televisivi e trasmissioni radiofoniche.

Judy Garland è alla Metro quando lo star system è al suo apice e gli attori, firmando un contratto con la casa di produzione, si consegnano totalmente nelle mani dei produttori, in questo caso di Louis B. Mayer e Arthur Freed. Questo tipo di contratti costringevano infatti gli attori ad accettare qualunque ruolo venisse loro assegnato; inoltre potevano essere “prestati” ad altre case di produzione per una o più produzioni, ma senza ricevere alcun compenso personale; tuttavia ricevevano lo stesso compenso se lavoravano sei giorni a settimana oppure se rimanevano a casa aspettando che venisse assegnato loro un ruolo. Judy Garland visse il suo decennio più produttivo a queste condizioni, come molte delle star degli anni ’30 e ’40.
Poiché Judy tendeva ad ingrassare, sin dai tredici anni fu sottoposta a diete forzate per tenerne sotto controllo il peso, e fu così che arrivarono le primissime prescrizioni di pillole che potessero aiutarla a mantenere dimensioni costanti e “adatte” al mondo dello spettacolo. A questi medicinali si aggiunsero gli integratori per far si che i piccoli attori-bambini fossero in grado di lavorare fino a sessantadue ore di continuo, ed i sonniferi per permettere loro di dormire solo in determinate ore durante i tour. Fu così, proprio all’inizio della sua sfavillante carriera che cominciò il lento declino della salute di Miss Show Business.

I problemi fisici e psicologici di questa crescita viziata dall’assunzione ad alto dosaggio di medicinali, si rispecchiarono nella sua caotica vita privata, che Judy faticò sempre a tenere insieme. Ovviamente gli Studios cercarono sempre di arginare questa sua instabilità; Judy cominciò a seguire sedute psichiatriche già all’inizio degli anni ’40. Tuttavia il controllo che la Metro esercitava sulla vita della sua giovane miniera d’oro era così invadente che, quando Judy si sposò per la prima volta nel 1941 con David Rose, l’unione fu vista da Louis B. Mayer come una limitazione al suo potere su di lei. Si è detto addirittura che, proprio durante il primo matrimonio, Judy fosse  rimasta incinta, e le pressioni dei produttori (Mayer in primis) la costrinsero ad abortire, per non rovinare la sua immagine di “ragazza della porta accanto” sulla quale era stato costruito il personaggio “Judy Garland”. Questo evento la lasciò traumatizzata per il resto della vita. Molto diverso fu invece il comportamento di Mayer nel 1945, quando Judy sposò in seconde nozze Vincente Minnelli. Il regista, essendo anche lui “di proprietà” della Metro, ed essendo uno dei più quotati dell’epoca, riuscì ad ottenere la benedizione di Mr. Mayer.

Nonostante l’insorgere di queste prime difficoltà nella vita di Judy Garland, nel corso della decade d’oro durante la quale lavorò alla M.G.M., nessun segno di questi problemi è riscontrabile nel risultato finale di un film. Davanti all’obbiettivo niente riusciva a superare la sua incredibile naturalezza e sensibilità di recitazione. Rimase sempre e in qualunque condizione fisica, un’interprete intelligente e versatile per quanto il suo volto potesse portare i segni della sua sofferenza. Numerose sono le testimonianze della sua professionalità dopo il ciak; per uno dei suoi numeri più famosi e anche complessi, “Be a Clown”, lei e Gene Kelly diedero il meglio in una sola ripresa, con una previa preparazione di sole quattro ore. Chiunque abbia mai visto lo splendido numero che chiude The Pirate di Minnelli, può capire quanto il palcoscenico fosse la vera casa di Judy Garland.

Arthur Freed, che ai tempi di The Wizard of Oz era produttore associato e compositore, e che dall’inizio aveva appoggiato l’idea che dovesse essere Judy ad interpretare Dorothy, divenne produttore a tutti gli effetti. Era persuaso che la coppia Garland-Rooney potesse essere un binomio vincente, e propose di realizzare un musical con protagonisti i due attori. A questa idea si associò l’incredibile successo dei film sulla famiglia Hardy, che portarono Mickey Rooney al successo e al conferimento del soprannome di money-maker. Dopo la prima collaborazione, i due attori, le cui vite si erano intrecciate molto prima che i due diventassero delle star, ritornarono così a lavorare insieme ad un film: Ragazzi Attori (Babies in Arms di Busby Berkeley; 1939). Arthur Freed si occupò della colonna sonora: scrisse con il suo vecchio partner, Nacio Herb Brown, “Good Morning” appositamente per il film, e aggiunse “I Cried For You” scritta invece con Gus Arnheim; Harold Arlen e E. Y. Harburg, che avevano già lavorato a The Wizard of Oz, composero “God’s Country”. La sceneggiatura venne assegnata a Jack McGowan e ad uno degli scrittori degli show di Andy, Kay Van Riper.

Questo è i primo di quattro musical che Judy e Mickey faranno insieme nei successivi cinque anni, prima del passaggio di lei a ruoli più maturi e dell’arruolamento di lui nell’esercito. Baby in Arms si ricorda anche perché fu il primo film alla Metro di Busky Berkeley, che fino a quel momento aveva lavorato per la Warner. Nel film, Judy e Mickey sono dei talentuosi ragazzi che vogliono raggiungere il successo nel teatro di vaudeville andando contro le autorità del loro piccolo paese impersonate da Miss Steele (ancora una Margaret Hamilton nelle vesti di cattiva), che invece vuole che i ragazzi stiano lontani dal mondo corrotto dello show-business. Ovviamente i ragazzi devono riuscire a mettere in scena uno show non solo per realizzare il loro sogno ma anche per salvare le loro famiglie dall’indigenza.

In questo musical i due attori sono esuberanti e grintosi. Gli occhi di Judy non perdono mai la loro luce d’innocenza. Riusciva sempre a immedesimarsi nel suo ruolo e, a mano a mano che matura come donna e come attrice, diventa più rilassata e composta anche nell’interpretazione. In questo caso è iperattiva, irresistibile. La sua naturale espressività e il suo tono drammatico danno a “I Cried for You” una dolcezza di intensità incredibile considerando la giovane età dell’interprete. Allo stesso tempo, senza sminuire il mal d’amore del suo personaggio, riesce a far ridere il pubblico mettendo in evidenza i cliché che drammaturgicamente vengono utilizzati per inscenare proprio il medesimo male.

Il numero finale è costituito da una canzone “God’s Country” che solo una persona eccessivamente patriottica può apprezzare, considerando che il messaggio finale è un inno all’America come solo paese dove “ognuno è dittatore solo di se stesso”.

Il film, costato appena 600.000 $, guadagnò solo negli Stati Uniti 2.000.000 $. Mickey Rooney fu candidato all’Oscar per la sua interpretazione, e anche se non vinse ebbe comunque il piacere di premiare Judy nello stesso anno, quando ricevette la sua statuetta in miniatura per Il Mago di Oz.

La coppia Mickey-Judy, dopo lo sfolgorante successo di Babes in Arms, era ormai diventata una risorsa nazionale.

Dopo un’altra incursione nel mondo di Andy Hardy,     Musica indiavolata (Strike up the Band di Busby Berkeley), del 1940, è il secondo musical della coppia, e anche se i due attori dividono il cartellone, il film è in realtà lo show di Mickey. Tuttavia Freed e Roger Edens scrissero appositamente per Judy per questo film “Our Love Affair” e “I Ain’t Got Nobody” che Judy canta in una silenziosa biblioteca dopo l’orario di chiusura. Quando Judy, con la sua voce profonda ed emozionante, comincia a cantare sembra meno bambina di quanto non sia ancora. C’è un suo numero, in questo film, “La Conga”, in cui Judy eccelle particolarmente. Consiste in una ripresa continua che dura cinque minuti, e che viene interrotta solo quando irrompono in scena gli altri ballerini. Allora l’inquadratura si spezza in molteplici angolazioni ed anche il ritmo cambia rompendo la magia creata dalla sua voce. Il finale del film, ancora una volta con forti accenti patriottici, è una climax con un’ultima inquadratura che vede Judy e Mickey sovraimpressi alle quarantotto stelle della bandiera americana.

Arrivò però il momento di cambiare, e così Freed diede a Judy una pausa dal suo ciclo di film con Mickey e preparò il suo passaggio da ruoli giovanili a personaggi più maturi. Andando contro il parere di George M. Cohan, Freed fece pressione affinché a Judy venisse affidato il ruolo principale in Little Nellie Kelly, e una volta ottenuti i diritti dell’opera teatrale, eliminò alcune canzoni originali per scriverne delle altre. L’aggiunta più vistosa fu quella della famosissima “Singin’ in the Rain” di Freed-Brown. Judy interpreta un doppio ruolo: una madre che muore dando alla luce una bambina, e la bambina stessa, una volta cresciuta. Questa è anche l’unica volta in cui la Garland muore in un film, e quindi il suo doppio personaggio ha quasi il valore di un rientro in scena.

Anche se Judy non domina perfettamente il suo film successivo, Le fanciulle delle follie (Ziegfield Girl di Robert Z. Leonard) del 1941, il suo nome, nel cartellone del film, viene messo prima di quello delle due sue co-star più famose: Hedy Lamarr e Lana Turner.  Il film prende il titolo da una serie di spettacoli teatrali dei primi decenni del secolo. Basandosi su spettacoli teatrali molto elaborati difficili da trasporre al cinema, la trama del film si concentra sul ”dietro le quinte” degli spettacoli stessi dove un trio di show-girls delle follie cerca di risolvere i problemi legati alle loro performance. Il personaggio di Judy, una ragazza che vuole entrare a far parte delle follie, ha il suo accento drammatico nel rapporto con il padre, anche lui artista di vaudeville, e i suoi momenti migliori nelle sequenze cantate.

Nel 1941 Judy ritorna ancora al fortunato personaggio di Betsy Booth, nella serie della famiglia Hardy. Il film è La Vita Comincia per Andy Hardy (Life Begins for Andy Hardy di George Brackett Seitz) e lei avrà solo un piccolo ruolo nel film. Registrerà anche quattro canzoni, nessuna delle quali verrà inserita nel montaggio finale. Questa è la sua ultima volta per Andy Hardy.

Il terzo musical di Mickey e Judy fu realizzato sempre nel 1941. I ragazzi di Broadway (Babes on Broadway di Busby Berkeley) trasse beneficio dal collaudato rapporto tra i due attori, ma soprattutto dall’affiatata squadra di curatori delle musiche: Busky Berkeley, Arthur Freed e Roger Edens. Anche la struttura del film è scandita da momenti chiave molto simili, se non identici, rispetto a quelli di Babes in Arms, con il risolutivo trionfo finale dei due interpreti.

Il film risulta gradevole, un show giullaresco messo in scena da Berkeley con un discreto spirito di immaginazione, ma ai fini delle nostre intenzioni, è importante esclusivamente perché segna l’inizio della relazione professionale tra Judy Garland e Vincente Minnelli. Freed infatti, lo aveva prelevato dai palcoscenici di Hollywood, sperando di coltivare a favore della Metro il talento del giovane regista. Uno dei primi compiti che venne affidato a Vincente fu quello di supervisionare alcuni dei numeri musicali della Garland.

La politica delle Major durante la Seconda Guerra Mondiale era quella di promuovere le ragioni di Stato in merito alla situazione bellica. La M.G.M. non si sottrasse a questa regola, e così anche Judy, essendo l’attrice di punta della casa produttrice, divenne un simbolo patriottico, che sbandierava i valori delle patria e portava con sé il messaggio che there’s no place like home (non c’è nessun posto come casa), messaggio che si portava dietro dai tempi di The Wizard of Oz.

For Me and My Gal del 1942 si adatta al periodo bellico, tanto che si parla persino di un vincolo di guerra per Judy, e per tutte le star sotto contratto con la M.G.M.. Il sacrificio di Judy alla causa della guerra, da parte della Metro, la costrinse a pianificare con cura ogni sua singola ripresa, tant’è che quell’anno le sue apparizioni furono limitate ad un cortometraggio a carattere documentaristico intitolato We Must Have Music. Il film spiega il modo di lavorare del dipartimento musical ed è costituito da un parsimonioso uso di sequenze tagliate da Ziegfeld Girl. Probabilmente per una confusione di intenti, For Me and My Gal appare come un film piuttosto discontinuo; rappresenta il debutto al cinema di Gene Kelly dopo  i fasti di Broadway. Kelly era diventato famoso oltre che per le sue eccezionali doti di ballerino, anche per il suo personaggio di Pal Joey, che rielaborò rendendolo più complesso: non più l’avventuriero senza scrupoli con tutte le caratteristiche del vaudevillian, ma anche un uomo che cerca di redimersi agli occhi del pubblico attraverso un autentico e sofferto rimorso.

Il tempo della diegesi è da ricondursi all’inizio della Prima Guerra Mondiale; ce ne accorgiamo quando Judy, attraversando un treno da un vagone all’altro, incrocia Kelly che legge un quotidiano con in prima pagina la notizia dell’affondamento del Lusitania. Judy interpreta una cantante e ballerina  che lavora in coppia con George Murphy, mentre Kelly è un egocentrico artista che compare sullo stesso cartellone del duo artistico Hayden-Metcalf (appunto Garland-Murphy). L’ostilità iniziale dei personaggi di Judy e Gene si trasformerà ovviamente in un profondo feeling artistico che spingerà il precedente partner di Judy a farsi da parte. Le vite dei tre personaggi finiranno per riunirsi a Parigi, dove Judy canterà canzoni della Prima Guerra Mondiale per allietare i soldati mentre Kelly e Murphy, entrambi arruolati dall’esercito americano, si scontreranno in un corridoio.

Il film diretto da Berkeley, risulta terribilmente limitato. Oltre ad essere la vetrina cinematografica di Kelly, For Me and My Gal è anche un tributo ad un ‘american love’: lo spettacolo di Vaudeville. Il duetto “Ballin’ Jack” e l’assolo “After You’re Gone” furono incisi per la Decca e diventarono hits .

Il 1943 comincia per Judy con Presenting Lily Mars. Il progetto era stato pensato all’inizio dal produttore Joe Pasternak come un ruolo drammatico per Lana Turner, che venne poi modificato in un musical per Judy Garland. Il personaggio di Judy è una giovane donna di provincia che vuole avere successo nello show business.

Nello stesso anno, la produzione mise in cantiere un nuovo film, Girl Crazy, dove veniva riproposta ad un pubblico accondiscendente la coppia Rooney-Garland. In questo caso, però, per divergenze produttive, a Berkeley venne affidata solo la direzione dei numeri musicali, mentre la regia del film fu curata da Norman Taurog. Questa sarà l’ultimo volta insieme per Judy e Mickey. Il film nasce da uno spettacolo di Broadway del 1930, nel quale Ethel Merman interpreta la sensazionale canzone “I Got Rhythm”. Il terzo film di Judy nel 1943 è Thousands Cheer, un altro musical patriottico degli anni della guerra, ancora con Kelly che interpreta un ex circense che non lavora per lo Zio Sam.

Il suo film successivo, Incontriamoci a San Louis (Meet Me in Saint Louis; 1944), costituisce una fase importantissima per la sua carriera,  segnando il suo passaggio definitivo a ruoli più maturi. Non solo a livello artistico, ma anche a livello economico, il film segna un importante tappa nella storia della Metro, e Judy, essendo la principale fautrice di questa successo, ne trarrà giovamento non solo per la sua carriera di attrice, ma anche per un miglioramento ulteriore del suo status di star. A questo film ho dedicato il primo approfondimento nella seconda parte.

Dopo lo zuccheroso lieto fine di Meet Me in Saint Louis, Judy si cimenta, ancora diretta da Minnelli, nel suo unico film drammatico interpretato per la Metro, Ora di New York (The Clock; 1945). Questo fu anche per Minnelli il primo confronto con il dramma, e questa volta fu proprio Judy a volerlo come regista, chiedendo che venisse chiamato per rimpiazzare Fred Zinnemann. I protagonisti sono Judy e Robert Walker.

Una segreteria e un soldato in licenza per 48 ore si scontrano alla Pennsylvania Station, si piacciono e si innamorano, passano una notte e un giorno insieme e si lasciano. Minnelli cerca di fare di New York un terzo personaggio dando una caratterizzazione all’ambiente. I due attori protagonisti offrono delle belle performance e si nota con piacere che le caratteristiche di grande attrice bambina di Judy, sono cresciute con lei. Il suo controllo perfetto di tutto il suo corpo le permette di essere straordinaria non solo sul palcoscenico, cantando e ballando in modo divino, ma anche in questa isolata parte drammatica. Nello specifico del film, la scena della sua colazione silenziosa è di grande tenerezza. Grande è la sua abilità di sostenere la scena con il silenzio.

La sensibilità di Judy ne ha fatto una attrice davvero particolare e proprio questo aspetto della sua recitazione le ha permesso di ottenere, nel suo film successivo, Le ragazze di Harvey (The Harvey Girls; 1946), un risultato davvero affascinante. Si tratta di un western ambientato nel XIX secolo, nel quale una serie di sub plot si intrecciano al filo conduttore del film che è la storia d’amore tra Judy e John Hodiak. Proprio questo sembra essere il difetto del film, che appare troppo “occupato”, affollato di temi e personaggi da sembrare quasi un film ad episodi. Il film vinse un Oscar per la miglior canzone: “On the Atchinson, Topoeka and the Santa Fe”.

Il film successivo la vede ancora collaborare con Minnelli, che aveva sposato nel 1945. Si tratta di Ziegfeld Follies (1946), un film ed episodi in cui Judy interpreta il segmento intitolato A Great Lady Has ‘An Interview. Il film è composto da una dozzina di sequenze, tra comiche e musicali, interpretate da un artista diverso. La maggior parte delle sequenze musicali è diretta da Minnelli, mentre le altre vedono la collaborazione di altri registi come George Sidney, Roy Le Ruth e Robert Lewis. Lo stesso Minnelli ha scritto riguardo alla difficoltà di portare avanti progetti di questo genere; si trattava infatti di seguire i vari attori che avrebbero dovuto prendere parte al film, e chiedere loro un po’ di tempo libero per realizzare la sequenza che a loro spettava. Un lavoro poco organico, quindi, difficile da organizzare e da realizzare più per problemi legati alla disponibilità del cast artistico che alle effettive difficoltà di resa del film.

La pellicola ebbe un enorme successo, ostentava una ricchezza quasi eccessiva nelle sequenze musicali, fortemente in contrasto con quelle comiche, che invece apparivano come scarne e prive di scenografia, quasi si trattasse di cattiva televisione. Per quel che riguarda Judy, questo piccolo segmento, che potrebbe sembrare solo una stravagante interpretazione di una grande artista, è in realtà molto di più. Kay Thompson e Roger Edens scrissero del materiale appositamente per lei, e mai come in questo caso, Judy si trovò ad interpretare una parte che così palesemente poco le si addiceva. La sua Great Lady parla ad una folla di giornalisti e fotografi dei suoi futuri progetti, dice che deve essere sempre drammatica e mai apprezzata per il suo corpo. Dietro la sua entrata fluttuante e il suo boa di piume si nasconde un’aspra satira.

Ancora Minnelli la dirige in Nuvole passeggere (Till the Clouds Roll By; 1946). La loro relazione professionale fu davvero rara, una vera e propria collaborazione che ha dato alla luce film davvero notevoli. In questo caso, Minnelli si occupò esclusivamente dei due numeri musicali di Judy, mentre il resto del film venne diretto da Richard Whorf. Il film è, infatti, disomogeneo se si confrontano le sequenze dei numeri curate da Minnelli rispetto al resto del film diretto da Whorf. Essendo una biografia del compositore Kern, il film si basa fondamentalmente su un medley di sue canzoni tenuto insieme da una trama piuttosto esile. Jerome Kern morì poco prima che il film entrasse in produzione, per questo si è pensato che fosse un tributo alla sua memoria, ma non è questo il caso. Garland interpreta Marilyn Miller, un’attrice di commedie musicali degli anni ’20 e ’30.

Il pirata (The Pirate del 1948), colorata e sfarzosa avventura esotica, sarà l’ultima collaborazione di Judy e Vincente. Anche questo film è stato oggetto della mia analisi, come conclusione del periodo durante il quale Judy ha lavorato con Vincente Minnelli.

Ti amavo senza saperlo (Easter Parade di Charles Walters 1948) ebbe un successo eccezionale. Questo è l’unico film in cui due icone del cinema musicale come Judy Garland e Fred Astaire recitano insieme. La loro collaborazione fu il frutto di un caso; infatti i protagonisti del film dovevano essere Gene Kelly e Cyd Charisse. Purtroppo entrambi subirono degli infortuni durante la lavorazione e furono sostituiti appunto da Judy e Fred. Il loro successo al box office fu così folgorante che spinse Betty Comden e Adolph Green a scrivere appositamente per loro The Barkley of Broadway.

I problemi di salute impedirono a Judy di partecipare al film e  al suo posto fu chiamata Ginger Rogers. Il film si basa su una scommessa che il personaggio di Astaire, Don Hewes, fa con Peter Lawford, poiché abbandonato dalla sua partner Nadine, giura di riuscire a far diventare una semplice corista di un nightclub una star. Ovviamente sceglierà a caso la prima ragazza che vede esibirsi su un palcoscenico di questi piccoli locali e ovviamente la prescelta è proprio Hannah Brown (Garland). Nel suo tentativo di istruire Judy, Fred fa di tutto per farle assomigliare alla sua precedente partner, e Judy, che invece è molto diversa da Nadine, fa fatica ad adattarsi a vestiti ampi e sfarzosi ed a movimenti pomposi caratteristici del personaggio di Nadine (Ann Miller).

In una delle loro prime partecipazioni ad uno spettacolo, lei vestita elegantemente in un abito lungo e azzurro, risulta impacciata e va avanti a ballare con una ridicola espressione attonita, portata avanti solo da un eroico, quanto stoico Don. Molto divertente è anche la scena in cui Don vuole testare il sex appeal di Hannah, quando le chiede di camminare da sola e di fare in modo che gli uomini si voltino a guardarla. La mdp posizionata dietro ad Astaire mostra i passanti che si voltano a guardare Hannah/Judy. Quando poi l’inquadratura mostra l’attrice in viso, si capisce che gli uomini si voltano, non perché lei sia particolarmente affascinante, come succedeva con Nadine all’inizio del film, ma perché Hannah fa delle smorfie davvero ridicole che incuriosiscono (più che affascinare) i passanti.

La scena per cui il film è rimasto famoso è il numero “Couple of Swells”. La canzone e i costumi furono poi introdotti da Judy in molti dei suoi spettacoli a teatro.

Merita una nota anche l’interpretazione di Ann Miller nel ruolo di Nadine, che proprio grazie a Easter Parade ha collezionato il suo numero più richiesto e famoso: “Shakin a Blues Away”.

Probabilmente come un cattivo presagio, questo è il primo film nel quale si cominciano a vedere improvvisi cambiamenti nel peso di Judy. Infatti mentre in tutto il film appare in forma, nel numero “Alabam’” è visibilmente più in carne.

Questo è il più piccolo di molti altri problemi sui quali ormai Judy non riesce più ad esercitare il suo controllo.

The Barkley of Broadway, che doveva rappresentare la seconda collaborazione di Judy con Fred Astaire, diviene invece l’ultimo film della coppia Astaire-Rogers, e il primo di una lunga serie di film ai quali Judy deve rinunciare, o per i suoi problemi di salute, o perché, pur avendo cominciato le riprese, è incapace di portarle a termine.

Nel 1948 Judy prende parte a Words and Music, per il quale gira una piccola scena da special guest, dove interpreta se stessa. Tuttavia è comunque per lei una soddisfazione, considerando il suo fallimento nella realizzazione della precedente pellicola. Ma questo film è anche l’inizio della fine per lei alla Metro, e una delle sue ultime interpretazioni per la casa produttrice. Anche se il suo partner in Words and Music è Rooney, il loro feeling non funziona più come ai tempi di Babies in Arms. Judy è cresciuta, e la recitazione scanzonata di Rooney, che tanto si addiceva alla sua fisicità minuta e che tanto piaceva alla generazione di adolescenti americani, non è più credibile in un attore di ventisei anni. I numeri di Judy sono due: un duetto con Mickey e un assolo. Appare molto stanca in viso, ma i suoi modi sono rilassati e la sua voce sempre splendida. Questo è l’ultimo film in cui Mickey e Judy appaiono insieme.

Dopo una breve pausa, ritorna ad un lavoro vero e proprio, Fidanzati sconosciuti (In the Good Old Summertime di Robert Z. Leonard; 1949), un remake di un altro film della Metro del ’40 The Shop Around the Corner. Dopo l’immenso successo di Meet Me in Saint Louis, Judy torna in un film in costume, ed anche la melodia iniziale del film ricorda vagamente le note di Saint Louis. I cambiamenti sostanziali rispetto all’originale del 1940 sono pochi; l’azione viene spostata da Budapest alla Chicago di inizio secolo e il negozio del titolo viene trasformato in un negozio di musica. Inoltre la trama viene complicata introducendo personaggi secondari. Il film ha un discreto successo, dovuto più alla presenza di Judy nel cast che a particolari qualità specifiche. Lei interpreta una commessa di un negozio di musica, insieme a Van Johnson. Le parti cantate stentano ad avere un vero e proprio posto nel film, tanto che per quattro volte all’interno della pellicola, Judy sembra cominciare a cantare senza soluzione di continuità con il resto della storia. Questa sua interpretazione testimonia il fatto che, nonostante la sua grande sensibilità da attrice, Judy fosse fondamentalmente una grandissima cantante.

Il film è certamente gradevole, ma c’è poco del marchio distintivo dei precedenti musical di Judy Garland. Da sottolineare nel film la presenza di Buster Keaton in un ruolo minore.

Questo film fu realizzato mentre si aspettava il via alla produzione di Annie Get Your Gun. Per questa pellicola, Judy Garland aveva già registrato le canzoni, e quando nell’aprile del 1949 cominciarono le riprese, lei doveva solo registrare le scena recitate. Tuttavia, da dichiarazioni solo di recente rese pubbliche, Judy Garland sul set appariva affaticata, in alcune riprese addirittura totalmente disorientata. È comprensibile quindi il fatto che un giorno, dopo una pausa pranzo, Judy non fu in grado di ritornare sul set, ottenendo un periodo di riposo dalla M.G.M.. Judy si ricoverò al Peter Bent Brigham Hospital presso il quale rimase per undici settimane. Il film fu completato da Betty Hutton, un’attrice della Paramount. Fortunatamente per la Metro, il film divenne un incredibile successo, anche senza Judy.

Ancora a riposo, quando arrivò la possibilità di recitare in L’allegra fattoria (Summer Stock di Charles Walters 1950) per Joe Pasternak, Judy lasciò prematuramente l’ospedale per prendere parte alla realizzazione della pellicola. Durante la sua pausa, Judy era ingrassata visibilmente.

In Summer Stock, Judy Garland torna ai tempi di Babies in Arms mettendo su uno spettacolo in una fattoria. Il suo ultimo film alla Metro non è eccezionale, ma è godibile. Malgrado i suoi collassi nervosi, Judy è di nuovo lei, ancora eccezionale regina della scena.

Le riprese di Summer Stock andarono avanti per sei mesi, Judy si presentava tardi sul set, o non si presentava affatto. Alla fine delle riprese, Pasternak decise che per la scena della festa nell’aia della fattoria era necessaria un altro numero. Judy registrò più magra di quasi sette chili il numero “Get Happy”, e il drastico cambiamento di peso in così poco tempo diede adito a delle voci riguardo al fatto che quel numero fosse già stato registrato per un precedente film e poi usato successivamente. Era infatti shockante per gli spettatori vedere per tutta la durata del film una Judy ingrassata e diversa da quella che erano abituati a conoscere, e poi alla fine del film, rivederla come all’inizio della sua carriera.

Ebbe un’altra opportunità di lavorare ancora con Fred Astaire. Fu chiamata per sostituire June Allyson in Royal Wedding, ma le sue assenze sul set spinsero la M.G.M. a rimpiazzarla con Jane Powell.

Senza dubbio la sua salute, mentale e fisica, si stava deteriorando e il suo matrimonio con Minnelli era allo stadio finale. Judy tentò il suicidio cercando di tagliarsi le vene dei polsi. Non riuscì a togliersi la vita a causa delle ferite poco profonde, ma fu chiaro ormai a tutti che il ‘caso’ Judy Garland era diventato davvero grave. A seguito del suo tentato suicidio, la Metro la svincolò dal contratto, ufficialmente per il suo bene, e per la prima volta in tutta la sua giovane vita, Judy si ritrovò senza un lavoro. Lasciò la sua casa, nella quale viveva con Vincente, e si trasferì al Beverly Hills Hotel con la figlia Liza. Madre e figlia partirono per New York.

Nella Grande Mela scoprì che non c’era lavoro per lei, la notizia del suo tentato suicidio e il suo comportamento poco professionale sul set contribuirono a non farle avere ingaggi. A lei vennero attribuiti i costi elevatissimi di produzione dagli Studios che la ritraevano come una diva capricciosa e poco affidabile.

Judy, per la prima volta, si trovò a dipendere solo da se stessa e non aveva più nessuno che la supervisionava dall’alto. Aveva recitato in ventinove film ed aveva apposto la sua firma su dozzine di canzoni. Ora la sua carriera cinematografica sembrava virtualmente finita. Il 10 giugno del 1950, esattamente una settimana prima della sua definitiva rottura con la Metro Goldwyn Meyer, celebrò il suo ventottesimo compleanno.

Durante il suo periodo di riposo, Judy conosce Sid Luft, ex pilota, ex produttore e agente teatrale ed ex marito di Lynn Bari. Diventò l’agente personale di Judy e, nel 1952 il suo terzo marito. Fu proprio da questa unione, ancora una volta per Judy professionale e sentimentale, che nacque l’idea di un tour europeo che si protrasse per tre mesi e che cominciò al London Palladium. Per il numero finale di questo primo spettacolo, Judy indossò lo stesso costume che aveva indossato in Easter Parade quando con Fred Astaire si esibì in “A Couple of Swells”, e seduta al bordo del palcoscenico cantò “Over the Rainbow”, tra il delirio degli spettatori.

Gli echi dei suoi successi europei spinsero Sol Schwartz, presidente della RKO, a chiederle di replicare i concerti al leggendario Palace Theatre di New York, che aveva smesso di essere palcoscenico da vaudeville dal 1932. Per il ritorno di Judy, l’edificio venne ristrutturato e riportato allo splendore originario da Edward F. Albee.

Judy era rimasta a lungo in un angolo, e il momento per il suo ritorno era psicologicamente quello giusto.

Sid Luft curò nei minimi dettagli tutta la produzione dello show. Tutto il personale della M.G.M. che aveva lavorato in passato con lei venne richiamato per allestire lo spettacolo al meglio. Charles Walter, regista di Summer Stock e Easter Parade, la diresse sulla scena; Irene Sharaff disegnò i suoi costumi, e Hugh Martin, compositore di “The Trolley Song”, l’accompagnò al pianoforte. Molte delle canzoni in programma erano parti delle colonne sonore dei molti film che aveva realizzato per la Metro, inoltre, il pubblico, a conoscenza della sua tormentata vita privata, le fu particolarmente d’aiuto.

La notte del 16 ottobre del 1951, per la prima di Judy al Palace venne srotolato il tappeto rosso. Un grande cartellone vecchio stile riportava il programma della serata: la seconda metà era tutta per Judy. Il suo arrivo sul palco venne accolto da un’ovazione, e la sua performance fu intensa così come se l’aspettavano i numerosi spettatori. Precedentemente pensato per delle repliche di quattro settimane, lo spettacolo venne messo in cartellone per il doppio del tempo.

Durante la domenica mattina della quarta settimana di repliche, Judy non si presentò sul palco, e Vivian Blaine e Jan Murray mandano avanti lo spettacolo. La temporanea assenza dal palcoscenico del Palace causò una nuova ovazione quando Judy ritornò in scena. A fine spettacolo, dopo il bis, il pubblico si rifiutò di andar via poiché non era ancora stanco di lei, della sua voce, delle sue interpretazioni magnetiche. Judy lasciò il palco in lacrime di gioia.

Jack L. Warner dichiarò che fu lui a proprorre il remake di E’ nata una stella (A star is born di George Cukor; 1954) alla Garland. In realtà, molti produttori erano interessati al progetto, già prima che Luft avesse contattato la Warner per proporre una coproduzione. A Star is Born del 1937 era un film già molto prestigioso che collezionò sei nomination all’Oscar e che fruttò molti riconoscimenti al regista, William Wellman, e agli attori protagonisti, Janet Gaynor e Fredric March. Anche questa sceneggiatura era stata tratta da un piccolo film precedente, What Price Hollywood? del 1932, diretto sempre da George Cukor. Proprio per Judy venne riscritta la parte della protagonista Esther Blodgett, che diviene una star del cinema sotto il nome di Vicki Lester, solo per perdere suo marito, la vecchia gloria del cinema Norman Maine che cade nel baratro dell’alcoolismo, interpretato da James Mason.  Il film necessitò di un periodo di riprese pari a circa dieci mesi, e questa volta i ritardi non furono attribuibili a Judy. Infatti la produzione decise di girare in CinemaScope, e questo rese più complessa la realizzazione del film.

Judy Garland fece il suo ritorno al cinema in grande stile.

In questa riscrittura dall’originale, la protagonista è una cantante con una piccola band. Norman Maine invece è un attore di Hollywood alle prese con problemi di alcolismo. Una giorno sente cantare Esther in un club e riconosce in lei “quel qualcosa in più” che secondo la divina Ellen Terry caratterizzava un vero artista. La porta all’attenzione di Oliver Niles, interpretato da Charles Bickford, che la provina. Così comincia la carriera di Vicki Lester, questo il nome d’arte che lo studio decide per la stella nascente. La carriera di Vicki assume un andamento inversamente proporzionale a quella di Norman che cade nell’alcolismo e nella depressione e alla fine si toglie la vita annegandosi.

Il ruolo di Vicki Lester non aggiunge nulla che non si sapesse già delle doti interpretative di Judy, tuttavia questa resta senza dubbio la sua migliore interpretazione perché è la più completa e la più complessa.

Il film offre anche a Judy una nuova splendida canzone: ”The Man That Got Away”. Ci troviamo in un momento cruciale del film, è qui che Norman si accorge delle qualità di Esther. Se il numero non avesse funzionato, tutto il film sarebbe stato in un certo senso mutilato. Il numero è perfetto. È probabilmente il numero musicale di maggior successo dell’intera carriera di Judy. La canzone è particolare, così come la sua interprete, e Judy la canta in maniera sublime, sottolineando ogni nota emozionale, senza mai forzare nessuna battuta. E quando la canzone finisce, il suo sospiro di soddisfazione per una canzone ben eseguita aggiunge il giusto tocco di realtà alla scena.

Il film risulta migliore nella seconda parte, quando scopriamo le grandi qualità di Esther e la seguiamo nella sua scalata ad Hollywood.

Come Esther e Norman, Judy e James sono superbi, la vera forza del film sta nella loro interpretazione di coppia. Dimostrano uno straordinario feeling, Judy non aveva mai avuto un partner maschile così adatto a recitare al suo fianco.

Quando A Star is Born esce al cinema, nel settembre del 1954, i critici si soffermano, incantati, sulla performance di Judy, dandole il bentornato nel regno delle stelle del cinema. Fu nominata all’Oscar come migliore attrice protagonista (unica volta nella sua vita), ma il premio andò a Grace Kelly per The Country Girl.

Purtroppo ci è impossibile vedere la versione originale di questo film. Infatti dopo il montaggio finale il film durava 182 minuti, troppi per la proiezione al cinema. Così la casa di distribuzione, la Warner Bros, si curò di far tagliare 26 minuti dalla versione  originale, che andò persa irrimediabilmente. Probabilmente furono tagliate alcune scene della parte iniziale che mostrano l’evoluzione del rapporto tra Esther e Norman.

La casa di produzione di Luft, che aveva fondato insieme a Judy, non produsse più alcun film insieme alla Warner dopo A Star is Born. Infatti la Garland sparì di nuovo dal grande schermo, per poi ritornarci nel 1961, quando ebbe un nuovo breve periodo di visibilità. Gli anni ’50 furono un periodo di relativa quiete, debuttò in televisione nel 1955 con lo show “The Ford Star Jubilee”. L’anno successivo debutta al Las Vegas’ New Frontier Hotel.

Nel 1956 Judy ritornò al Palace per uno spettacolo con cinque settimane di repliche, ma una laringite la costrinse a saltare parecchie date.

In questo stesso periodo però ebbe anche problemi finanziari e coniugali, c’erano infatti frequenti liti in casa Luft che sfoceranno nella separazione agli inizi degli anni ’60.

Nel 1959 si esibì per una settimana al Metropolitan Opera House di New York. In quel periodo il suo aspetto era molto peggiorato, era sovrappeso e molto affaticata. Non fu una sorpresa quando di li a poco, si sarebbe dovuta ricoverare a causa di un’epatite per una degenza di cinque mesi. Poi trascorse quattro mesi di riposo nella sua casa a Beverly Hills, e successivamente, con i tre figli e Sid, partì per Londra, dove visse l’anno più tranquillo della sua vita.

Alla fine del 1960 Judy si sentì pronta per ritornare. Il 28 agosto di quell’anno si esibì ancora al Palladium e cantò 30 canzoni ad una folla di più di duemila persone. Questo concerto fu seguito da un tour per le provincie inglesi e da due date a Parigi, al Palais de Chaillot Theatre.

Al suo ritorno a Londra, un altro uomo si affacciò nella sua vita, Freddie Fields, che aveva fatto parte della Music Corporation of America, ed ora lavorava in proprio come agente musicale, circondandosi di una stretta e selezionata cerchia di clienti. Judy Garland divenne una di questi. Con Fields, la sua carriera ebbe una breve rinascita. Fu lui infatti a procurarle un piccolo ruolo in un film di Stanley Kramer, Vincitori e vinti (Judgment at Nuremberg; 1961), il suo primo film dal 1954. Ma con ancora maggior successo Fields le organizzò un tour per sedici città compresa New York, dove si esibì alla Carnegie Hall. Proprio questo concerto newyorkese del 23 aprile 1961 divenne storico. Judy cantò ventisei canzoni ad una platea entusiasta, e i due dischi registrati quella sera conservano non solo l’intero concerto, ma anche l’incredibile atmosfera che quella sera si respirava nell’aria. Judy era capace di instaurare un rapporto speciale con gli spettatori, e quella sera si creò un’alchimia tra pubblico ed interprete tale da innalzare la stessa Judy allo stadio non più di Star, ma di leggenda. I dischi registrati schizzarono in cima alle classifiche degli album più venduti, e in qualunque città si recasse con la sua voce, replicava quel successo.

Nel film di Kramer, che sigla il suo ritorno al cinema, interpreta una tedesca testimone al famoso processo di Norimberga. L’idea parte da una produzione televisiva che Abby Mann adattò per il grande schermo, ed il film vanta un cast straordinario: Spencer Tracy, Burt Lancaster, Richard Widmark, Marlene Dietrich e Maximilian Schell. Oltre ovviamente a Judy Garland e Montgomery Clift, ai quali vennero affidati piccoli ma importanti ruoli. Come si evince anche dal titolo originale, il film è incentrato sul processo del 1948 che subirono i generali tedeschi a causa del loro supporto ad Hitler. Judy è una tedesca imprigionata per aver avuto una relazione con un uomo di origini ebraiche. Per la sua interpretazione l’Academy decise di nominarla all’Oscar come migliore attrice non protagonista.

Il suo lavoro successivo la vide protagonista di un cartoon come doppiatrice di una gattina in Gay Purr-re(1962). Judy si occupò sia delle canzoni che del doppiaggio del personaggio.

Nel 1963 invece venne diretta da John Cassavetes in Gli esclusi (A Child is Waiting). Il film, prodotto da Stanley Kramer, era tratto ancora da un lavoro televisivo di Abby Mann che si occupò ancora della sceneggiatura. Partner di Judy fu di nuovo Burt Lancaster. Il suo personaggio è una donna, Jean Hansen, che entra a far parte dello staff di una scuola per bambini con ritardo mentale. Jean Hansen è convinta che una sorta di rivincita, di successo, è possibile anche per quei bambini. Judy interpreta bene un ruolo a dire il vero non molto complesso. La sua  Jean Hansen si prodigherà per uno dei suoi allievi in particolare, un bambino più problematico degli altri che non riceve mai alcuna visita dai genitori. Queste sue attenzioni particolari verso il bambino le procureranno dei problemi con Dr. Clark (Lancaster). Per tutto il film, il suo ruolo è quello di osservatrice che non riesce a fare nulla di concreto per aiutare i bambini. Anche il suo aspetto risulta peggiorato, appare sovrappeso e il make-up non riesce a nascondere un volto rovinato dalla sua cattiva salute.

Ombre sul palcoscenico (I Could Go On Singing di Ronald Neame;1963) è il suo ultimo film. Ci sono elementi autobiografici, poiché si tratta della tormentata storia di una cantante di fama mondiale impegnata con un tour che interessa sei nazioni europee, ed in più ha dei problemi con un marito e con il suo unico figlio. La sua ultima canzone del film è quella che da il titolo alla pellicola “I Could Go On Singing” ed in sé racchiude quasi l’essenza di Judy, di una donna che solo cantando riusciva ad amarsi e ad essere amata.

L’anno successivo, Judy Garland viene ingaggiata dalla CBS per una serie televisiva. Vennero registrati  sequenze per ventisei ore, materiale sufficiente per diverse puntate, e proprio Judy insistette affinché nel primo episodio fosse presente anche Mickey Rooney. Tuttavia lo show non ebbe successo, anche a causa di un altro programma molto amato dagli spettatori, una serie western intitolata Bonanza, che andava in onda negli stessi orari.

Dopo il fallimento di quest’ultimo progetto, Judy partì per un tour in Australia dove però non venne apprezzata, e dopo 45 minuti di spettacolo fu costretta ad abbandonare il palcoscenico. Nel 1965 invece, al Palladium di Londra, sostenne un concerto con la figlia Liza, che segnò il tutto esaurito, spingendo i fan a chiedere una replica che ugualmente registrò la fine dei biglietti in vendita in pochissimo tempo.

Judy Garland: la morte

Negli ultimi anni della sua vita, Judy Garland si sposò due volte con due uomini molto più giovani di lei. Il primo fu Mark Herron, un giovane attore. Poi fu la volta di Mickey Deans, che era con lei quando morì. Quando Judy Garland invitò Liza al suo quinto matrimonio, la ragazza rispose che non ci sarebbe potuta essere, ma che sicuramente ci sarebbe stata per il matrimonio successivo.

Judy Garland trascorse gli ultimi mesi della sua vita a Londra con Deans, tenendo qualche sporadico concerto nel Continente. La sua ultima apparizione in concerto fu a Copenhagen. Ma il suo aspetto era davvero dei peggiori in quel periodo, troppo magra e molto fragile. Il 22 giugno del 1969, Mickey Deans la trovò morta in bagno. L’autopsia dichiarò che la causa della morte era stata una overdose accidentale di sonniferi. Aveva 46 anni.

Ossessioni

Nella notissima intervista fatta da Truffaut a Hitchcock, il regista francese sostiene che nei film del maestro britannico sia fortemente presente il tema della colpa dell’uomo, che ha quasi il sapore di un peccato originale. Se l’uomo è innocente, è tale solo in rapporto alle accuse che gli vengono fatte, mentre è colpevole nelle intenzioni: James Stewart è colpevole di essere voyeur ne La finestra sul cortile, ad esempio.

Per essere più specifici, nei film di Hitchcock ricorre spesso il tema dell’individuo ingiustamente accusato o dichiarato colpevole che cerca di provare la sua innocenza. Questo sin dal muto The lodger, del ’26, passando per Downhill (1927), fino ai più noti Io confesso (1953), Delitto perfetto (1954), Caccia al ladro (1955), Il ladro (1956), Intrigo Internazionale (1959), Frenzy (1972)…

Più raramente si ha a che fare con colpevoli che cercano di “diventare” innocenti: Blackmail (1929), Marnie (1964)…

È interessante notare come tale tema della colpevolezza agisca in rapporto alla sessualità, in alcuni film in particolare.
Nei film di Hitchcock raramente si mostra un amore “sereno” e quando ciò accade, esso non è che uno soltanto tra altri, più rilevanti, elementi della storia (La finestra sul cortile, Intrigo Internazionale, Il sipario strappato).
Viceversa, quando l’amore è un tema più rilevante della trama, esso non è affatto “sereno”, ma appunto tormentato, perverso, mortuario. È cosi, ad esempio ne La donna che visse due volte (che in originale ha il più evocativo titolo Vertigo).

Ne riassumo brevemente la trama.

Scottie (James Stewart) è un ex poliziotto che soffre di vertigini che viene incaricato dall’amico Gavin di sorvegliare sua moglie Madeleine (Kim Novak), che soffre di problemi psichici, nel timore che possa commettere il suicidio.

Scottie pedina la donna, la salva da un tentativo di annegamento, se ne innamora, ma a causa delle vertigini non riesce a fermarla quando si butta da un campanile.

L’uomo attraversa un periodo di depressione, finché incontra in strada una donna incredibilmente somigliante a Madeleine.

La ragazza sostiene di chiamarsi Judy e cerca di respingere l’uomo. Apprendiamo da un flashback che Judy è in realtà la Madeleine conosciuta da Scottie. La donna era l’amante di Gavin, e ad essere precipitata dal campanile fu la vera moglie di costui. Questo progetto era stato ordito dagli amanti per liberarsi della moglie di Gavin facendo leva sulle vertigini di Scottie, che gli avrebbero impedito di raggiungere la donna fino al campanile. Gavin aveva però poi abbandonato Judy.

Scottie porta Judy a comprare degli abiti, a tingere i capelli, a modificarne l’aspetto fino a riprodurre Madeleine. I due si baciano: anche Judy è innamorata di Scottie. L’uomo, avendo intuito come andarono le cose, costringe la donna a tornare con lui sul luogo del delitto. Salgono insieme sul campanile, Scottie vince le sue vertigini. I due si abbracciano, si baciano: è l’amore. Dal buio, compare la sagoma di una suora. Judy ne ha paura, perde l’equilibrio e precipita.

A Scottie non importa sapere che la Madeleine da lui conosciuta non è mai esistita. Madeleine è poco più di un’ombra, l’immagine di una donna creata a regola d’arte, donna resa  (fintamente) fragile da problemi psichici, fintamente (auto)distruttiva, fintamente inconsapevole della sua animalesca e indolente carica erotica.

Quel che a Scottie importa è poterla riavere.

Riavere quella inesistente creatura (meglio: creazione), che ha un qualcosa di misterioso, di negativo, e come tutto ciò che è negativo e misterioso, come ogni tabù, attrae. Pur avendo il compito di proteggerla da se stessa, egli se ne lascia incantare.

Scottie si ricrea da sé e per sé la sua Madeleine a partire da Judy. Vorrebbe fare l’amore con una morta (e infatti Hitchcock parla, forse un po’ scherzosamente, di necrofilia a questo proposito), o per essere più precisi con una donna mai vissuta. Con la donna che non visse neppure una volta, se non come immagine mentale di Scottie.

Di questa donna egli si era innamorato. Per amare di nuovo, Scottie ha bisogno, perversamente e forse masochisticamente, che la volgare e comune Judy sia di nuovo la “fatale” e sofisticata Madeleine: in questa intenzione è la sua “colpa”, che fatalmente conduce di nuovo alla morte (vera, questa volta) della donna.

C’è un altro amore, più evidentemente “perverso” di qualche anno successivo, nella filmografia Hitchcockiana e si tratta di Marnie.

Marnie (Tippi Hedren) è una ragazza affascinante che si fa assumere da varie imprese per svaligiarne la cassa cambiando di volta in volta identità e fornendo false referenze. La assume un uomo d’affari di Filadelfia, Mark Rutland (Sean Connery), che si innamora di lei. Marnie svaligia ancora la cassaforte, Mark l’insegue e le propone di essere denunciata o di sposarlo. Marnie non ha scelta. In viaggio di nozze Mark scopre che la ragazza è frigida e quando lui cerca di possederla con la forza lei tenta il suicidio. La cleptomania della donna, che rivela anche altre nevrosi e la paura del colore rosso, è una compensazione della sua frigidità. Mark rintraccia la madre di Marnie, una ex prostituta e vi si reca con la moglie. Si scopre il segreto delle nevrosi della donna: a cinque anni Marnie aveva ucciso con un attizzatoio un marinaio che infieriva sulla madre: di qui i suoi problemi col sesso e il suo terrore per il rosso. Marito e moglie escono, con la speranza che grazie a questa rivelazione la ragazza guarisca.

Anche qui un uomo attratto da una donna misteriosa con un che di negativo.

Mark è interessato a Marnie in quanto è una ladra e al contempo cerca di liberarla dai suoi conflitti, come Scottie è interessato a Madeleine in quanto (auto)distruttiva.

Entrambi i film hanno al proprio centro il tema di un amore feticistico.

Sono il profondo, il recondito, ciò che viene celato e proibito a innescare la seduzione in maniera più potente, e spesso, dunque, distruttiva. Non è così solo per l’esperienza erotica, ma anche per il delitto: ai personaggi hitchcockiani a volte non interessa compiere il delitto per un qualche scopo preciso, ma solo perché esso costituisce l’infrazione di una regola, la rottura di una proibizione, di un tabù. Così è per gli studenti strangolatori di Nodo alla gola. Spesso si prova piacere non per una azione in se stessa, ma nella misura in cui essa costituisce, appunto, la violazione di una proibizione autoritaria. Tutto ciò doveva saperlo bene Hitchcock, che aveva avuta educazione cattolica dai gesuiti, e che confessava di avere il terrore, da bambino, delle punizioni corporali per mezzo del frustino di gomma.

Ecco perché forse nei suoi film si ritrova così tanto spesso l’innocente perseguitato che tenta di discolparsi, ecco perché il concetto di colpa è così presente, al di là del fatto che quasi mai i soggetti dei film del regista siano originali.

Il senso di colpa (e la punizione, anche) doveva apparirgli come strettamente connesso alla fisicità. Del resto, notava lo stesso regista una sorta di feticismo da parte dei giornali nel voler mostrare i delinquenti ammanettati. Le stesse manette sono uno strumento usato dalla giustizia come in certe aberrazioni sessuali.

Egli, uomo timido e pauroso, educato rigidamente, solitario fino a guardare con sdegno e disprezzo i suoi coetanei in gioventù, sposatosi vergine a venticinque anni, doveva voler raccontare, dissimulandole, le sue proprie ossessioni, verso la società pronta ad accusare e colpevolizzare e verso la sessualità torbida, quasi trattando il tutto in chiave di lotta di principi morali o quasi metafisici in cui comunque l’innocente e il colpevole, a dispetto di tutte le complicazioni, vengano riconosciuti come tali anche da chi, come la società e la giustizia, li avevano accusati.

La risoluzione di alcuni film di Hitchcock, costruiti su situazioni assurde, quasi kafkiane di ingiustamente (o incomprensibilmente) accusati avviene quasi in maniera casuale, anche essa quasi per assurdo: come al commissario di Frenzy accade di cogliere casualmente l’assassino in flagrante.

E questo perché, forse, il non-torbido, la serenità, non possono che essere remoti nella società. Forse il non-torbido è un po’ simile ai love birds inseparabili de Gli uccelli (1963):  mansueti, chiusi nella loro gabbietta sono gli unici “lovely” birds del film, e ciò finisce per innescare spesso delle situazioni ironiche, derivanti dal contrasto con gli altri uccelli del film che “lovely” non sono affatto.

Gli “attacchi” degli uccelli cominciano e finiscono (ma nel film non appare la parola “fine”, e ciò è inquietante perché gli uccelli non sono andati via, ma anzi coprono l’intera superficie di terra delle ultime, cupe inquadrature, dovunque e per sempre presenti), non a caso, su Melanie, la donna sensuale amata da Mitch e respinta dalla madre possessiva di lui, che è invece, curiosamente, il personaggio meno “attaccato”. Qualcuno ha visto infatti gli attacchi dei volatili come un riflesso dell’astio della madre di Mitch per la “ipotetica nuora”, la “nuova” donna del figlio che scalzerebbe la madre, prima donna. Qui non c’è la perversione di una coppia o di uno dei suoi membri, ma piuttosto di un singolo personaggio, che è poi quello che agisce come “proibizione” nei confronti della coppia. Un po’ come la “finta” madre di Norman (circondato, curiosamente da uccelli impagliati) in Psyco (1960) “interveniva” a proibire l’interesse del figlio per Marion Crane, uccidendola.

Anche in questi finali, come altrove, la vicenda si risolve (anche se non è detto che ne Gli uccelli vi sia risoluzione definitiva) indipendentemente dagli sforzi della legge e termina con il ritorno dell’assurdo: la vittoria della madre di Norman sulla personalità del figlio, l’invasione degli uccelli.

Di fronte a tutte queste ossessioni, un po’ come certi pensatori medioevali della scolastica che spendevano tante parole contro le creature e le situazioni oscene nelle pagine di autori pagani o raffigurati nelle facciate delle cattedrali, subendone però in realtà la fascinazione, così Hitchcock è interessato al torbido pur demonizzandolo. Si direbbe quasi che egli abbia cercato di esorcizzare le sue proprie ossessioni attraverso quei film che solo a uno sguardo superficiale sembrerebbero prodotto di fabbrica scaturito da soggetti non originali.

Herzoghiana: il cinema di Werner Herzog

Herzoghiana: il cinema di Werner Herzog

Benché le definizioni possano spesso stare strette agli autori, mi piace pensare Werner Herzog come il cineasta delle sfide impossibili. Herzog (con Fassbinder, Syberberg, Wenders, uno degli alfieri della Neue Welle, sorta di Nouvelle Vague tedesca) ha spesso raccontato la più impossibile tra le sfide: quella tra uomo e Natura. È così, ad esempio, nel film che nel ’75 fece conoscere questo autore al grande pubblico: Aguirre, furore di Dio, storia del “folle volo” di un conquistador alla ricerca del mitico El Dorado. O nello splendido: Fitzcarraldo (1982), storia di un amante della lirica che intende costruire un teatro nella foresta Amazzonica. Sono storie di “uomini al limite”, ebbri di “lucidissima follia”, come il Woyzek del film omonimo tratto dalla piece teatrale di Georg Buchner, o sognatori e pazzi come Aguirre. Sognatori, si: perché “Chi sogna può scalare le montagne”, come viene detto in Fitzcarraldo.

Werner Herzog però non si limita soltanto a raccontare sfide impossibili nei suoi film, ma è anzi l’autore che più di ogni altro ha vissuto come sfida tout-court la realizzazione di ogni suo lavoro cinematografico. Valga come esempio di ciò ancora Fitzcarraldo,  per il quale Herzog fece realmente trasportare una nave su un monte della foresta Amazzonica, nel bel mezzo della guerra tra Ecuador e Perù. O anche Herz aus Glass-Cuore di vetro, in cui tutti gli attori recitano sotto ipnosi. In questo senso il regista somiglia ai suoi protagonisti: è egli stesso un sognatore disposto a scalare le montagne.

E sfide sono stati a loro modo anche i cinque film di Herzog interpretati dall’attore Klaus Kinski, che ebbe col regista un rapporto burrascoso a livello umano (i due arrivarono anche a minacciarsi di morte), ma che diede ottimi risultati a livello artistico. In definitiva, i film di Werner Herzog raccontano di due sfide, dunque: quella del plot (virtuale) vissuta dai personaggi e quella (reale) vissuta dall’autore con la sua troupe che scorre sotterranea alla prima.

Le sfide dei personaggi herzoghiani, sin dal primo lungometraggio Lebensceichen-Segni di vita (1967) storia di tre soldati tedeschi in Grecia durante la seconda guerra mondiale, sono spesso destinate a fallire sotto i colpi di una Natura inquietante, impenetrabile, non-soggiogabile. Una Natura ostile e perciò sublime, che, parafrasando le parole dello stesso regista “dà più l’idea della fornicazione che non quella dell’amore”. I paesaggi herzoghiani sono quelli della Grecia (Segni di vita), dell’Africa (Cobra Verde), dell’America Latina (Aguirre). Werner Herzog ha realizzato oltre alle opere di fiction anche numerosi documentari  che allo sguardo onirico e allucinato proprio delle opere a carattere fiction, rivelano un grande interesse antropologico e etnografico, come Fata Morgana e I medici volanti dell’Africa Orientale. I film di Werner Herzog funzionano quasi come l’astronave Discovery del kubrickiano 2001:Odissea nello spazio, diretta verso Giove, ma destinata ad arrestarsi di fronte all’impenetrabile monolito che tutto azzera nel suo buoio: una progettualità estrema, un sogno folle destinato  il  più bello delle volte a fallire. Come nel finale di Aguirre, che, ormai solo sull’imbarcazione il cui equipaggio è stato decimato dalle febbri e dalle frecce degli indios, lancia nel sole accecante i suoi progetti di conquista.

Quentin Tarantino e il postmodernismo: la globalizzazione e il frammento.

Nel 1967, Robert Aldrich, noto regista di film di vario genere, accomunati da un crudezza formale e di contenuto, gira Quella sporca dozzina; dieci anni dopo, Enzo G. Castellari, con non poche difficoltà di produzione, porta a termine Quel maledetto treno blindato. La prima pellicola, vuoi per la carica violenta, vuoi per il cinismo di fondo che caratterizza gli eroi protagonisti, cattura l’attenzione del cinefilo Quentin Tarantino; lo stesso regista, noto per l’enciclopedica cultura cinematografica specializzata in B-movie, riscopre la pellicola di Castellani, ed è subito amore: il creatore di Pulp fiction, intende omaggiare la pellicola di Castellani, proponendo una versione di Inglorious Bastards (questo il titolo di produzione di Quel maledetto treno blindato), che risenta del fascino subito dal film di Aldrich.

In ogni caso, e quale fosse il ritmo, la sorte ci premiava,
perché a voler trovare connessioni se ne trovano sempre,
dappertutto e tra tutto, il mondo esplode in una rete,
in un vortice di parentele e tutto rimanda a tutto, tutto spiega tutto…
(Umberto Eco)

Queste le premesse per l’ultima impresa di Quentin Tarantino, che già prima dell’uscita nelle sale si propone,  coerentemente alla poetica d’autore del regista, come creazione a partire da. Il presupposto di base è sempre l’amore di Tarantino per il cinema, che sfocia nella suo desiderio di omaggiare e ri-creare a partire da soggetti preesistenti, all’insegna di un citazionismo folle e maniacale. Ma se il pastiche cinematografico riesce spesso a proporre forme e situazioni decisamente originali, c’è da dire che alle volte il tutto si limita ad una sorta di esperimento ricreativo intento a riesumare quelle pellicole sottaciute e misconosciute che fanno breccia nell’animo del regista.

Ora, prima di abbandonarci  a critiche e giudizi gratuiti privi di analisi, avviamoci a contestualizzare la figura del regista all’interno del panorama cinematografico e non solo.  I prodotti tarantiniani sono ovviamente riconducibili alla logica postmoderna del collage e della combinazione di elementi preesistenti: la memoria agisce come elemento predominante all’interno di tale situazione culturale,  ove nulla è nuovo e tutto è stato precedentemente enunciato. In virtù di ciò, i registi coerenti(volenti o nolenti) alla corrente postmoderna, affondano le loro mani nel flusso incoerente delle immagini della memoria.
Figlio del proprio tempo, Quentin Tarantino riesce a rielaborare tali presupposti in una chiave del tutto personale, andando a riscoprire immagini perdute setacciando prodotti ignorati e facendo rivivere, sia dal punto di vista puramente estetico che nel contenuto, situazioni e soggetti parossistici, i quali  -vuoi per le limitazioni di tipo produttivo, vuoi per le intenzioni dell’autore – si caricavano spesso di caratteristiche kitsch o trash. Tutto ciò, rielaborato all’interno di un prodotto fortemente autoriale, ma soprattutto magistralmente confezionato, crea all’interno del film un effetto tendente allo straniamento, che avviene quando vediamo rivivere all’interno dell’opera pellicole sgranate, improbabili colonne sonore anni ’70, e montaggi che invidiano le produzioni di serie Z.

Questo, proiettato ad uno spettatore abituato alla spettacolarizzazione e ad un’immagine sempre più nitida e lustrata, distoglie il pubblico dall’immagine pulita cui è abituato, e lo ricolloca all’interno di un prodotto, ove quelle situazioni volutamente fuori luogo e fuori tempo, risultati di sperimentazione ludica e/o di atti di riverenza nei confronti di quella parte di cinema da lui amata, suscitano uno spiazzamento che porta lo spettatore all’accettazione del gioco del regista. Per quanto riguarda la citazione, se spesso si è finiti con l’accusare il regista di plagio e mancanza di originalità, è pur vero che altrettanto spesso tali giudizi non hanno tenuto conto della creatività e delle modo in cui tale recupero avviene.

L’invidiabile cultura cinematografica permette a Quentin Tarantino di spaziare dai b-movie italiani a misconosciute pellicole orientali, riciclando materiale filmico all’interno di un prodotto finale, risultato appunto da generi e tradizioni cinematografiche disparate: la memoria del regista,  filtrata attraverso la coscienza postmoderna, si configura come un magma di materiale globalizzato, mescolato e rielaborato all’insegna di una visione del cinema scevra da settorializzazione nazionali.  Ed è proprio questa coscienza dell’imminente globalizzazione che motiva Tarantino a guardare al di fuori della propria cultura, spingendolo a collaborare più volte con registi come Miike  Takashi (anch’egli sempre aperto a nuovi orizzonti), e riuscendo a far coesistere all’interno della produzione americana generi quali il chanbara, gongfu e action.

Tale logica di de-costruzione del film matura nel corso degli anni, delineando una linea formale che da Le iene a Kill Bill, palesa ed estremizza la tendenza alla frammentazione del prodotto, e parallelamente si avverte col passare degli anni, l’inclinazione verso un cinema più spettacolare e meno pregno.

All’interno di questo quadro, la citazione contribuisce alla decostruzione del film: è tanto forte da brillare di luce propria, e da riuscire-insieme con gli elementi della cultura avantpop che pur contaminano il film- a frantumare il film in tante piccole situazioni a sé stanti, figlie della società dello zapping e celebrative della perdita dell’attenzione che caratterizza lo spettatore con cui Tarantino si confronta; summa della poetica tarantiniana, Le iene  e Pulp fiction, hanno dato vita a tutto questo, con i loro dialoghi totalmente avulsi dal contesto che sfiorano il surreale e svelano l’inadeguatezza dell’immagnie, con la negazione del racconto cronologicamente inteso, con i sottili riferimenti ora al cinema americano ora alla mafia giapponese, il pulp, l’exploitation e bizzarre situazioni fagocitate e rigurgitate in una pellicola curata in ogni minimo dettaglio che vive proprio del caos che vi regna.

La prima svolta si ha con Jackie Brown: nella presentazione di un prodotto aderente  al noir, privo di quella frammentazione che opera su tutti i livelli del film (piano formale e sceneggiatura), si in riconosce in Tarantino la maestria di dirigere una pellicola impeccabile, che rinnova il genere tramite personaggi e i dialoghi brillanti, pur non ricorrendo a situazioni estreme ma riproponendo contesti e circostanze caratteristiche del genere cui appartiene. Tarantino dimostra di essere un ottimo regista e un geniale sceneggiatore pur senza eccedere, muovendosi con mano ferma all’interno di una narrazione classica contaminata di riferimenti all’blaxploitation.

Ma le prime titubanze si hanno nel quarto film del regista, Kill Bill, in cui Quentin Tarantino non è all’altezza delle prime produzioni; il film, nato all’insegna del puro divertissement, sembra fare il verso al cinema del sol levante, il quale viene riproposto in maniera  smisurata. Se da una parte si riconosce il merito di saper mischiare genere diversi e proporre personaggi che sfiorano il parossismo, dall’altra pecca in profondità: dedito quasi ad un tecnicismo senz’anima Tarantino si concede alla superficialità dell’immagine, abbandonando i dialoghi che trionfavano nelle prime produzioni e palesando una spettacolarizzazione del ritmo e degli eventi. La fredda violenza che caratterizzava Le iene viene sostituita dall’autocompiacimento a dal patetismo; nessuna sperimentazione trova spazio ma c’è solo idolatria verso il cinema di culto.

Dimentico dei primi capolavori, Tarantino si abbandona ai ritmi degni dell’action movie più piatto, riempiendo il film di un vuoto dinamismo. La velocità e l’action, da interpolazioni che erano in un cinema fatto di dialoghi e sequenze memorabili,  finiscono col diventare il senso ultimo di un opera che si svuota e si carica della portata spettacolosa che caratterizza molto cinema commerciale. Se la parola era la co-produttrice di senso all’interno del film, arrivando anche ad anticipare l’immagine palesandone l’inefficienza, è pur vero che con il quarto film dell’autore, la parola viene soppiantata a favore dell’azione e del sentimentalismo, rinunciando alla freddezza che caratterizzava le opere prime.

Ma dopo il divertito Kill Bill, Quentin Tarantino sembra ritornare sui suoi passi con A prova di morte, ove road movie e dialoghi brillanti tornano a prender forma; ora, anche se all’interno del progetto Grindhouse il film di Tarantino risulta fuori luogo rispetto al più riuscito Planet terror di Rodriguez, si intravede un ritorno ai toni più tarantiniani.

Forti di ciò, aspettando Bastardi ingloriosi, speriamo nel ritorno ad un pensiero più critico e complesso del film, auspicando un prodotto che sia ancora il frutto di un profondo amore per la settima arte; che sia scevro da facili soluzioni coinvolgenti e lontano dai paraventi che caratterizzano molte produzioni comuni; che sia orientato in profondità, verso lo sperimentalismo e le riflessioni che hanno fatto di questo autore uno dei più grandi autori del nostro tempo.

 

La tendenza alla cecità. Considerazioni disordinate non riordinabili (forse).

C’erano una volta e ora ce ne sono di meno, dei film che impressionavano per il loro contenuto violento e che venivano spesso accusati di ispirare reali manifestazioni di violenza all’interno della società. Ma la responsabilità dell’artista è più nell’opera in sé e meno negli effetti che essa produce, per quanto nefasti essi possano essere.

Dico che c’erano una volta perché ora poco o nulla sembra poter produrre in noi sconcerto. Siamo spettatori terribilmente svezzati, disincantati, smaliziati. Alla violenza che vediamo sullo schermo ci siamo ormai abituati, tanta ne abbiamo veduta, tanta ne vediamo e ne viviamo. La violenza è paradossalmente accettata e non sappiamo più ricevere dalla sua rappresentazione uno shock, non sappiamo più rimanerne sconcertati.

La vediamo dappertutto e dunque non è mai estranea, tanto ne siamo imbevuti. È conosciuta una volta per sempre, è classificata, incasellata in miliardi di servizi televisivi da paesi che ci sembrano ancora più lontani visti sullo schermo, è sterilizzata dal linguaggio giornalistico che funziona come una litote.

È la società dello spettacolo, la nostra, diceva Debord. L’immagine è al centro di tutte le possibili relazioni tra tutti i soggetti. E così produciamo immagini a iosa e ne siamo imbevuti. Ma è proprio questo vedere di tutto sempre acritico e passivo ad averci reso meno ricettivi, anche per quelle immagini che dovrebbero colpirci. Il sentimento della meraviglia si attenua. L’abitudine a vedere deve averci reso ciechi.

Del resto, fa notare Ghezzi nel suo castoro su Kubrick prendendo le definizioni del dizionario Inglese-Italiano Hazon, che “Overlook” significa tanto “guardare con attenzione” che “trascurare”, “lasciarsi sfuggire”. E così anche Edipo pur vedendo tutto era cieco, e solo quando dal troppo aver conosciuto si crepò gli occhi, tornò a vedere.

“What have you done to his eyes?”, urlava una (comprensibilmente) terrorizzata Rosemary guardando gli occhi di quel suo figlio avuto da sua maestà infernale. Cosa è stato fatto dei nostri occhi? Diversamente dal Gloucester di Re Lear, a noi non sono stati strappati. Piuttosto è stata loro strappata la capacità di farci assalire da questa o quell’altra visione: tutte si equivalgono, tutte hanno lo stesso sapore. I prodotti cinematografici sono sempre più prodotti seriali, pressoché simili. Del resto, quella del cinema è un’industria, fordiana, ma più nel senso di Henry che di John.

Avvertiamo dunque la falsità del dispositivo cinematografico e di ciò che esso mostra: è più chiaro a noi che a Welles che un film è sempre un fake, e come tale non ce ne facciamo suggestionare, così per la violenza in esso mostrata. Erano trent’anni fa o trenta secoli fa quando “Cane di paglia” e “Arancia meccanica” ci facevano paura?

Eppure necessitiamo di verità perché tutto ci sembra falso, tutto uguale, nulla ci impressiona realmente. Perché torniamo a impressionarci, è necessario che le cose ci appaiano veramente vere, e questo perchè forse siamo noi ad essere diventati un po’ più finti: anche noi parte del gioco della società dello spettacolo, con la nostra immagine da portare avanti. Diceva Alex De Large che non era affatto meccanico che “è buffo come i colori del mondo vero diventano veramente veri solo quando uno li vede sullo schermo”.

Ecco allora i mockumentaries: da “The Blair Witch project” fino a “Cloverfield”. Per potere essere impressionati di nuovo da ciò che viene mostrato sullo schermo, abbiamo necessità che esso sia dichiaratamente non-finto, che sia reale, presentato come documentario.

Come il santo straccione di Pasolini arrivava alla soluzione estrema di crepare davvero sulla croce perché non aveva alcun altro modo per ricordare di essere vivo, così anche noi ricorriamo all’estremamente finto (il mockumentary, documentario finto che finge d’essere vero) per poter essere ancora emozionati, perché ci appare estremamente vero.

Ecco anche i reality shows in ambientazioni esotiche… Perché non ci basta più vedere un altro normale show televisivo: ci siamo abituati.

Alex De Large ci sta molto più simpatico del suo carceriere (il secondino della prigione). Quest’ultimo è davvero “meccanico”, “a orologeria”, mentre Alex è vitale. Perché è questo mondo a volerci meccanicizzati, perché vorremmo sentirci vivi quando invece non lo siamo e abbiamo un disperato bisogno di verità dai realities ai mockumentaries perché solo così possiamo tornare a sconcertarci e a impressionarci, per assicurarci di non essere meccanici…

Influenze della cultura giapponese nel cinema di Andrej Tarkovskij

Alexander ascolta musica tradizionale giapponese. Ha indossato un kimono sul cui dorso sono effigiati i simboli Yin e Yang, bene e male. Come aveva promesso in una preghiera, per scongiurare la catastrofe nucleare annunciata, offre in pegno tutto ciò che possiede, e appicca fuoco alla propria abitazione, agendo come samurai silenzioso che ordisce un harakiri salvifico, sacrificando tutto. Questo accadeva in “Sacrificio”, ultimo lungometraggio di Andrej Tarkovskij.

Il regista sovietico ha più volte dichiarato il proprio profondo interesse per alcuni aspetti della cultura giapponese, nonché per alcuni cineasti nipponici: Kurosawa in testa, ma anche Mizoguchi e Ozu.

Si tratta dunque di un aspetto rilevante dell’opera del cineasta sovietico, ma ancora scarsamente analizzato. Sarebbe dunque interessante esplorare, anche per linee essenziali, i casi in cui questa influenza di certa cultura giapponese -cinematografica e non- si fa scoperta, e in che modo si cali nello stile e nella poetica tarkovskijana.

Si potrebbe prendere come esempio quello che da molti è considerato il capolavoro del cineasta sovietico: Andrej Rublev (1966), in cui appaiono delle somiglianze piuttosto marcate con delle situazioni di Rashomon (1950), il film che rivelò Kurosawa alle platee occidentali, ma anche con I sette samurai (1954), in particolare nella sequenza dell’assedio tartaro della città di Vladimir.

La trama di Rashomon prende avvio da questa situazione: tre uomini si riparano dalla pioggia presso il tempio del dio Rasho. Gli uomini narrano poi l’uno all’altro di un fatto di sangue avvenuto recentemente, ma in varie versioni, cambiando di volta in volta la persona responsabile del delitto, secondo più punti di vista, fino a non poter dire quale dei racconti risponda alla realtà dei fatti. L’incipit di Andrej Rublev, invece, è costituito dalla memorabile sequenza in cui un uomo tenta e riesce, anche se per poco, a levarsi in volo su un rudimentale aerostato. Dopo questo prologo, sganciato dalla vita del pittore di icone russo di cui il film racconta, è la volta del primo EPISODIO che ha a che fare direttamente con la vita di Rublev, intitolato “Il buffone”.

Vi sono tre monaci, Andrej Rublev, Daniil il Nero e Kirill, che, usciti dal monastero della Trinità, sono in cammino verso Mosca, dove intendono trovare lavoro come pittori di icone. Un temporale improvviso li costringe a ripararsi in una isbah dove un nutrito gruppo di contadini sta assistendo all’irriverente esibizione di un giullare: una satira scatenata dei nobili Boiardi e dei Pope, ovvero autorità politica e religiosa.

Poco dopo, il giullare, che è stato denunciato, verrà arrestato dalle guardie del Principe, sotto lo sguardo turbato di Andrej.

Già da qui si delinea uno dei temi fondamentali del film: il rapporto tra l’arte e il potere, ed è proprio questo primo episodio che Andrej vive come turbamento della propria coscienza di uomo e artista.

La situazione di base esaminata è identica sia nel film del maestro nipponico che in quello di Tarkovskij: in entrambi, tre uomini cercano riparo dalla pioggia, ed è proprio da qui che si sviluppa l’azione drammatica e vengono messi in luce i temi del film, è proprio da qui che si attiva il racconto.

Come scriveva De Baecque, nei film di Tarkovskij la pioggia attiva alcuni momenti dei film, è il mezzo attraverso il quale si rilancia il racconto, o si entra in una dimensione onirica.

Nei film di Tarkovskij è fortemente presente l’acqua, che sia pioggia, pozzanghera o fiume. In qualsiasi forma si trovi, essa si carica di significati profondi: sempre in Andrej Rublev, l’acqua è simbolo di rigenerazione per il giovane Boriska che trova sotto un temporale l’argilla necessaria a fondere una campana. Ma nel film l’acqua è anche elemento che “accoglie”, come accade con la donna pagana che sfugge alle autorità religiose nuotando nel letto di un fiume, o col cadavere del giovane pittore apprendista ucciso dai tartari durante l’assedio della città di Vladimir.

Altrove, come nel film Lo specchio (1974), l’acqua è spesso associata da Tarkovskij alla figura materna, come elemento generatore di vita.

Circa la ricorrenza di questo elemento nella sua opera, il regista ha affermato: “Ho usato l’acqua perché è una sostanza molto viva, che cambia forma continuamente, che si muove. È un elemento molto cinematografico. E tramite essa ho cercato di esprimere l’idea del passare del tempo e del movimento del tempo.”

È significativo che tra i corsi d’acqua tanto numerosi nell’opus tarkovskijano manchi pressoché del tutto il mare, fatte salve le inquadrature dell’oceano “pensante” di Solaris e l’incipit di Sacrificio. È il regista stesso a spiegarcene il motivo, rendendo scoperta un’altra eredità della cultura giapponese: “L’acqua, i ruscelli, i fiumiciattoli, mi piacciono molto, è un’acqua che mi racconta molte cose. Il mare, invece, lo sento estraneo al mio mondo interiore perché è uno spazio troppo vasto per me. […] A me, per il mio carattere, sono più care le cose piccole, il microcosmo, piuttosto che il macrocosmo. Le enormi distese mi dicono meno di quelle limitate. Forse per questo amo molto l’atteggiamento dei giapponesi nei confronti della natura.”

L’affermazione di Tarkovskij può essere ricondotta a un concetto fondamentale dell’estetica giapponese, quella del wabi. Tale termine ha, in giapponese, i significati “solitario”, “isolato”, “semplice”, “effimero”, “sobrio”, ed è messo in relazione con tutte le espressioni artistiche, dalla poesia all’architettura, che richiamino, appunto, i concetti di piccolezza, finitudine, singolarità.

L’estetica wabi si richiama a concetti di ascendenza buddhista che riguardano il trascendente e che fanno appunto leva sulla limitatezza e la transitorietà dell’esistente a fronte dell’infinito, ovvero il fueki-ryuko: impermanenza ed eternità, che sono gli elementi centrali dell’opera di Matsuo Basho, (che Tarkovskij lesse più o meno all’epoca in cui stava per lavorare ad Andrej Rublev), il più noto e influente poeta giapponese.

Per questi motivi, nell’arte giapponese è frequente il ricorso a elementi semplici e isolati.

Nella poesia giapponese, ad esempio, è facile incontrare espressioni come “un tempio” o “un ramo di ciliegio”, ma quasi mai si parla di più templi o di ciliegi.

A questo proposito cito un passo dell’Hagakure-Il codice dei samurai, di Yamamoto Tsunetomo:

“ ‘Sotto alla fitta neve dell’ultimo villaggio,/ieri notte sono sbocciati numerosi rami.’ In questa poesia sui pruni, c’era una ridondanza: ‘numerosi rami’; questa fu la variante: ‘un ramo solo è sbocciato’. Tale variante allude al gusto del wabi”.

Ritorna utile in tal senso anche una citazione da Note del Guanciale, di Sei Shonagon: “In verità, tutte le cose piccole sono belle”.

È proprio nella singolarità che si può scorgere il mistero della vita, è proprio all’arte che spetta, adornianamente, di far scorgere l’universale e l’assoluto nel particolare, fosse anche il più piccolo, ed è proprio ciò cui Tarkovskij, con l’attitudine contemplativa dei suoi piani sequenza, e con tutta la componente fortemente spirituale del suo cinema, sembra anelare.

Scrive il regista, nel suo libro “Scolpire il tempo”: “L’immagine [cinematografica] non è questo o quel significato espresso dal regista, bensì un mondo intero che si riflette in una goccia d’acqua, in una goccia d’acqua soltanto”.

Forse è ciò che accade negli haiku giapponesi: la possibilità di cogliere il mondo intero riflesso in una goccia d’acqua, tutto il mistero della vita in un evento o una sensazione singolari descritti in tre versi di 5-7-5 sillabe, allo stesso modo che un solo ramo di ciliegio è unico, irripetibile, ma reca in sé il mistero di tutti gli altri. Ma vediamo ancora le parole del regista su questo argomento: “Amo molto l’atteggiamento dei giapponesi nei confronti della natura. Cercano di concentrarsi su uno spazio ristretto e di vedervi il riflesso dell’infinito.”

La macchina da presa Tarkovskijana cerca il miracolo dell’evento quotidiano, quello che avviene tacitamente, di nascosto, come la figlia dello Stalker nel film omonimo, che sposta gli oggetti tramite telecinesi. O cerca, ancora, la meraviglia intrinseca degli elementi naturali, dai corsi d’acqua, agli alberi, alla terra, così ricorrenti nella sua opera, quasi volesse di essi carpire il mana nascosto, e lo fa con lente panoramiche, con uno sguardo contemplativo che fa pensare, a tratti, a certo Ozu o a Mizoguchi.

Tarkovskij sostiene che per pervenire a questa visione “contemplativa” della realtà che sa cogliere in un oggetto particolare la manifestazione di qualcosa di universale, occorre “coltivare la purezza, finezza, la compattezza dell’osservazione della vita per così dire allo stato puro degli haiku giapponesi”, quasi come si trattasse di un primo sguardo sulle cose del mondo, quando esse non hanno perso la loro aura, il loro mana, e non sono ancora classificate, ma ancora da scoprirsi.

Un cinema di così alta ispirazione spirituale e di elevata attitudine contemplativa viene da un regista che aveva sperimentato per tutto l’arco della sua parabola esistenziale e artistica, uno degli aspetti più raccapriccianti dell’orrore novecentesco (le pressioni e l’ostracismo della burocrazia del totalitarismo sovietico), che negando la vita afferma la distruzione e l’inquietudine, non concedendo alcuno spazio alla contemplazione e alla dimensione spirituale, e forse neppure alla stessa arte.

Il cinema di Tarkovskij, dunque, viene ancora a costituire un absurdum, come assurdo era l’harakiri di Alexander in Sacrificio, eppure è missione che va tentata.

Tarkovskij, che dichiarava di rivedere I sette samurai ogni qual volta girava un nuovo film, (così come Kurosawa si dichiarava grande estimatore di Solaris e Andrej Rublev), si arricchì enormemente di questa matrice culturale giapponese, poiché essa si conciliava con la cifra fortemente spirituale del suo cinema. Un cinema spirituale, ma attaccato alla terra e alla bellezza dell’immanenza, in cui non è dato vedere frequentemente il cielo, se non per il suo riflesso in una pozza d’acqua. Come a voler dare fueki-ryuko, impermanenza ed eternità.

La grande Opera. Alcuni aspetti del cinema di Alejandro Jodorowsky

Oggi, ai più, Jodorowsky è noto principalmente come autore di fumetti (disegnati da Moebius, Jimenez, o dal nostro Manara) o di romanzi (Quando Teresa si arrabbiò con Dio, La danza della realtà, Albina e il popolo dei cani, editi in Italia da Feltrinelli). Non sono in molti, invece, a ricordare oggi lo Jodorowsky cineasta, genio visionario e dissacrante, autore di un cinema debordante, fatto di situazioni surreali, grottesche o inquietanti, costanti riferimenti a tradizioni esoteriche…

La sua filmografia, fino a ora, sembra alquanto esigua: ha diretto i lungometraggi Fando y Lis-Il paese incantato (1969), El topo (1971), La montagna sacra (1973), Tusk (1979), Santa sangre (1988), Il ladro dell’arcobaleno (1991), eppure è ricca di motivi interessanti, sempre molto personali, benchè sicuramente vicini ad altri autori: Fellini, Bunuel, Kurosawa, Leone… Jodorowsky ha anche al suo attivo un progetto ambiziosissimo (era previsto, tra l’altro, il coinvolgimento di Salvador Dalì tra gli interpreti, e dei Pink Floyd alla colonna sonora) e irrealizzato: la trasposizione cinematografica di Dune da Frank Herbert, poi realizzato, con scarsa efficacia, dall’altro grande visionario David Lynch.

I più noti lavori del regista cileno (di genitori ebreo-ucraini) sono sicuramente El topo e La montagna sacra. Entrambi caratterizzano al meglio, in maniera cioè, più compiuta e matura, tutto il suo universo poetico, non solo cinematografico. Jodorowsky si è infatti cimentato con la letteratura, il fumetto, il teatro, e ha persino elaborato una forma d’arte che ha come fine la guarigione delle nevrosi dei pazienti: la “Psicomagia”. I due film più sopra citati hanno al proprio centro la tematica del viaggio iniziatico. Vediamone brevemente le trame:

El topo. El topo (che in spagnolo significa “la talpa”) è un abilissimo pistolero, vestito di nero (come Django/Franco Nero di Corbucci) che lascia il figlio in una missione francescana e per conquistare l’amore di una donna, Marah, accetta di misurarsi in duello con “4 maestri del revolver” che vivono nel deserto. El topo riceve da ognuno dei maestri un insegnamento, come fosse un iniziato. Il pistolero riesce a vincerli tutti, ma Marah lo tradisce e gli spara ripetutamente nelle mani, nei piedi e nel petto. Quando il pistolero si risveglia, è all’interno di una montagna. È stato accudito da una comunità di deformi, che lo credono una sorta di divinità. El topo promette loro di riportarli alla luce del sole, guidandoli alla città vicina attraverso un tunnel scavato nella montagna. Per guadagnare il necessario all’impresa, l’uomo si improvvisa saltimbanco nella città vicina, in compagnia di una nana innamorata di lui.

La città, simile ai vari villaggi western di cinematografica memoria, è abitata da una borghesia ipocrita e razzista, fintamente perbenista, sessualmente deviata e piena di fanatismo religioso che sconfina nella farsa. El topo ritrova suo figlio, divenuto adulto, che si unisce all’impresa del padre. Ultimato il tunnel, i deformi si precipitano verso la città, ma la borghesia riesce a decimarli tutti, mentre la nana partorisce un figlio, avuto col pistolero. El topo compie la sua vendetta sugli abitanti della città, del tutto immune ai loro proiettili. Mentre il pistolero si dà fuoco come un monaco tibetano, suo figlio, la nana e il nuovo nato, lasciano la città devastata. La montagna sacra. Prologo: un alchimista taglia completamente i capelli a due donne, come in un qualche rito iniziatico.

Un ladro, il cui aspetto ricorda quello dell’iconografia tradizionale di Cristo, dopo una serie di avventure surreali, giunge in cima a una torre, dove si trova il laboratorio di un alchimista, capace di tramutare le feci del ladro in oro. L’alchimista comincia a impartire i propri insegnamenti al ladro e gli propone di compiere una missione al termine della quale avrà l’immortalità. Insieme al ladro viaggeranno altri sette ladri, ma di un altro livello: sono i potenti della terra, industriali e uomini politici. Ognuno di loro è associato a un pianeta del sistema solare. Il gruppo dovrà giungere in cima alla montagna sacra dove risiedono i nove saggi che posseggono il segreto dell’immortalità e spodestarli. Il pellegrinaggio ha luogo tra varie difficoltà, in cui i viaggiatori affrontano le proprie ossessioni e partecipano a prove iniziatiche. Arrivati in cima alla montagna sacra, scoprono che i nove saggi altro non sono che fantocci. L’alchimista spiega allora che l’avventura sinora condotta altro non è che un film, e invita i personaggi a rompere l’illusione: “Se non trovammo l’immortalità almeno trovammo la realtà…Non siamo che sogni, immagini…Non possiamo restare qui prigionieri! Romperemo l’illusione! La vita reale ci attende: diciamo addio alla montagna sacra!”

El topo fu il film che rivelò Jodorowsky alle platee internazionali dei cultori del “cinema di mezzanotte”: il tal senso, il film fu “compagno di strada” degli altri cult che venivano proiettati esclusivamente in tarda serata: The rocky horror picture show, Pink Flamingos Fortuna volle che del film s’innamorò John Lennon, il quale fece in modo da finanziare il successivo La montagna sacra. Ciò che maggiormente stupisce, a una prima visione di queste opere, è sicuramente l’aspetto visivo, con il continuo, rutilante, innestarsi di situazioni surreali, a volte ridicole, altre inquietanti, spesso violente o dissacranti.

Ciò appare evidente, in particolare, nella prima parte de La montagna sacra, incentrata sulle peregrinazioni del ladro-Cristo prima che questi giunga alla torre dell’alchimista. Ciò che vediamo in questa prima sezione del film è una sorta di critica alle dittature militari tipiche di certi paesi dell’america latina (il film uscì nel 1973, anno del golpe in Cile, paese d’origine di Jodorowsky), ma condotta coi toni del surrealismo, a volte con esiti violenti (la parata militare in cui i soldati portano come vessilli degli agnelli impalati), a volte con toni poetici (si veda, ad esempio, la scena in cui dai corpi di giovani dissidenti fucilati escono dei passeri). E c’è anche la critica a certe istituzioni religiose, nella fattispecie cattoliche, ma la critica di Jodorowsky (che ha una spiritualità molto forte, benché non strettamente veicolata da alcuna confessione religiosa particolare) si avventa sulle istituzioni, sulla cultualità più sterile, sul clero più sclerotizzato convinto di possedere esso solo le verità assolute, come il vescovo che non accoglie nella propria chiesa il crocifisso che il ladro-Cristo porta con sé.

Quel che comunque costituisce senza dubbio la cifra tematica più personale di Jodorowsky è la componente esoterica-iniziatica dei suoi film. Già El topo, si rivela essere, per il protagonista (interpretato dallo stesso regista), un processo di iniziazione, di progressiva spogliazione dell’io, di maturazione da pistolero giustiziere che muore con ferite nelle mani, nei piedi, nel petto (come Cristo) e rinasce come monaco zen insensibile alla forza delle pallottole e morire poi definitivamente (?) arso da un lume a petrolio. È un processo di sottrazione graduale, di cammino verso l’ascetismo, come asceti sono i quattro maestri del revolver che il pistolero incontra nella prima metà del film. Ognuno di essi impartisce delle lezioni a El topo, attraverso delle massime (“La perfezione è perdersi”, dice il secondo maestro) o dei comportamenti, come il primo dei quattro maestri che rimane immune alle pallottole poiché il suo corpo non oppone loro alcuna resistenza, ma al contrario riesce ad accoglierle…

L’eroe jodorowskyano, se di eroe si può parlare, non deve essere totalmente esaltato e portato immediatamente in trionfo, ma al contrario deve essere martirizzato o compiere un viaggio che sia esperienza mistica. Così, vanno incontro a una sorta di spoliazione anche i potenti de La montagna sacra: parafrasando le parole dell’alchimista (interpretato da Jodorowsky stesso) nell’epilogo del film, i pellegrini partono per essere immortali, per essere dei ed eccoli invece finalmente, forse per la prima volta, più umani che mai. Ecco allora come può concludersi la ricerca dell’oro e dell’immortalità tanto perseguita dagli alchimisti e dallo stesso ladro-Cristo del film. È proprio lui, che abbandona il gruppo prima che l’alchimista-Jodorowsky riveli la finzione filmica, a divenire a propria volta “maestro”, seguendo il consiglio dell’alchimista che gli dice di dimenticare le vette e raggiungere l’immortalità attraverso l’amore.

Il processo di maturazione dei pellegrini e di El topo passa per una montagna: i primi dovranno scalarla, l’altro invece dovrà fare in modo che altri, i deformi, possano attraversarla. In particolare, ogni tradizione religiosa ha spesso a che fare con delle montagne (è lo stesso alchimista a ricordarlo nel film). La montagna costituisce un sepolcro per il pistolero e la comunità di deformi, da cui però si risorge andando incontro alla morte per mano della corrotta borghesia della città. Ad ogni modo essa rappresenterebbe comunque l’athanor, il forno che gli alchimisti usano per la trasformazione della materia, e la materia da trasformare, sembra dirci Jodorowsky, non siamo altro che noi stessi. Un po’ è quello che la sua personale “terapia” psicologica, la “psicomagia”, fondata sul potere della suggestione intende fare: curare attraverso l’arte.

È chiaro, un cineasta del genere, che spaventa con le sue visioni surreali, o cerca a suo modo ancora delle pietre filosofali, oggigiorno, persi come siamo tra una miriade di prodotti ad alto consumo, non troverebbe forse il “grande” pubblico, e dunque Jodorowsky sarebbe autore per pochi, su cui i produttori non investirebbero per non rischiare. Dice infatti scherzosamente e intelligentemente Jodorowsky: “il regista più bravo è sicuramente quello con più soldi. Se avessi 60 millioni di dollari sarei certamente io…”, ben consapevole del fatto che le restrittive leggi del (non così tanto) libero mercato, agendo sulle possibilità economiche, vincolano le possibilità espressive del singolo artista.

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