Il regista Roan
Johnson, insieme agli attori Alessio Vassallo,
Paolo Cioni, Silvia D’Amico, Guglielmo Favilla e Melissa Anna
Bartolini e alla sceneggiatrice Ottavia
Madeddu hanno presentato in anteprima stampa il film
Fino a Qui Tutto Bene, che ha debuttato
allo scorso Festival del Film di Roma dove ha ricevuto il premio
del pubblico BNL (oltre ad altri premi- in totale quattro- tra i
quali il Premio della giuria per la miglior interpretazione
femminile andato a Silvia D’Amico); l’uscita è
prevista per la prossima settimana, in ottanta copie, distribuito
da Microcinema.
La prima domanda riguarda il
regista: visto che il pubblico ha accolto molto bene il film, anche
dopo il passaggio al festival, è arrivato il momento di fare un
bilancio: il regista è ottimista e sorpreso dal successo insperato
che la pellicola ha ottenuto anche all’estero (con delle proiezioni
a Parigi e a Tolosa), festival dove gli spettatori hanno
apprezzato- nonostante i sottotitoli e le difficoltà nella
comprensione- soprattutto le scene vive, realistiche e
l’improvvisazione degli attori, elemento in realtà ridotto al
minimo. La sceneggiatura è stata mantenuta e seguita in modo
ferreo, è stato dato poco spazio all’improvvisazione degli attori
mentre un contributo fondamentale è stato quello fornito dalla
sceneggiatrice (compagna del regista), che ha avuto l’idea di una
commedia low budget incentrata su un gruppo di amici, pronti ad
abbandonare la casa dove hanno vissuto i loro migliori anni
universitari.
E proprio la Madeddu spiega come ha
evitato i vari cliché, raccontando una storia basata su
una precedente idea nata da lei e da Johnson e incentrata su un
documentario con protagonisti gli studenti di Pisa. Alla fine,
dalle storie raccolte, hanno ricavato un film piuttosto che una
cronaca delle vicende degli universitari.
La metafora più caratterizzante della pellicola è quella del
mare, dell’acqua: il mare aperto, la piscina, dall’inizio sono il
leitmotiv delle esistenze di questi giovani universitari,
abbandonati in alto mare dopo gli studi, pronti però a rimboccarsi
le maniche e ad investire tutto sul loro futuro e sulle loro
passioni, senza farsi fermare mai da niente o da nessuno (crisi
inclusa).
Viene chiesto a Johnson qual è il suo rapporto con la commedia:
il regista e la sceneggiatrice- diplomati entrambi al Centro
Sperimentale- hanno avuto una formazione incentrata sulla commedia
all’italiana tradizionale, che ben conoscono e molto apprezzano nei
suoi meccanismi; nel momento in cui si sono approcciati al film,
naturalmente si sono mossi in direzione dei personaggi, cercando di
arricchirli nella loro complessità ed eliminando come unico
elemento il cinismo, regalando quindi dei protagonisti
“abbracciati” (Johnson dixit) nella loro umanità, forse perché si
sono affezionati alle storie che hanno ascoltato, sviluppando una
forma di empatia incrementata dalle passate esperienze
universitarie di ciascuno di loro.
Tra gli attori- e la troupe- si è creato davvero un rapporto
unito e solido come quello che spesso si crea (realmente) tra
studenti fuorisede: Silvia D’Amico ammette di non avere modelli di
comicità specifici, ma ritiene che il realismo è nato soprattutto
dalla spontaneità nell’azione e dalla naturalezza con la quale si
sono approcciati ai personaggi.
Per quanto riguarda il già citato spettro della crisi,
quest’ultimo aleggia sulle “teste” di tutti- a maggior ragione
sulla generazione dei 30/ 40enni alla quale appartengono il cast e
la troupe- ma li ha spinti a realizzare un film dal gusto
“garibaldino”, anarchico e goliardico, strutturato come una
pellicola indipendente pur essendo- in fin dei conti- quasi un
prodotto mainstream, forse una delle rare volte in cui è
possibile, da parte di un autore, “dettare legge” affermando la
propria indipendenza creativa.
Questo film rappresenta una speranza, una possibilità di
sfuggire ad una crisi legata- in ambito cinematografico,
soprattutto- a dei meccanismi produttivi, elementi dai quali
Johnson è sfuggito a tutti i costi, scegliendo ad esempio gli
attori non in base alla notorietà o ad altri elementi, quanto in
base alla “purezza” della sua idea. Il regista descrive nei
dettagli l’iter che lo ha portato fino a questo punto: la prima
fase di trattativa con la Palomar che era
però occupata con altri nomi noti (Martone, Amelio etc.); poi
l’Università di Pisa- convinta anche da un editoriale apparso su
Il Corriere della Sera, che ha fatto
pressione per realizzare un documentario o un mediometraggio
incentrato sulle vite degli universitari; infine la nascita di un
film low budget che potesse essere svincolato da qualunque
meccanismo produttivo tradizionale (e quindi dal classico percorso
“produzioni- ministeri- fondi regionali” etc…) per
realizzare, infine, che l’unico modo per lavorare in totale libertà
era rischiare: per cui ognuno (membri della troupe e del cast)
hanno investito sul film e detengono una percentuale sulla
pellicola.
In fondo, Fino a Qui Tutto Bene è un
film sulle grandi speranze; qual è allora il consiglio che può dare
Johnson a chi vuole andare avanti in questo ambito?
Partendo dal presupposto che la sua paura più grande era
l’incertezza legata all’impossibilità di poter girare il
film, il regista consiglia di fare più cose contemporaneamente,
buttandosi fino ad arrivare al punto di verificare effettivamente
ciò che si è seminato; mettersi in gioco anche provando ad entrare
in qualche scuola o accademia, trait d’union secondo lui
necessari attraverso i quali si possono creare dei collegamenti,
dei contatti veri e propri con i quali incrementare la propria
creatività.
Il film ha avuto un budget di circa 500mila euro, e visto il suo
successo Roan Johnson è già pronto a lanciarsi
nella sua prossima avventura, un progetto ambientato a Roma e che
vedrà protagonisti due ventenni e sarà intitolato
Piuma.